Tra termoscanner, check point, esibizione di accrediti e pass, l'area della Mostra del Cinema è quasi un bunker quest'anno.
Difficile, per chi lo vuole, persino accaparrarsi il catalogo. Del programma neppure parlarne: come per i biglietti è accessibile solo telematicamente.
Niente gadget nella borsa dunque. Borse, manchette, manifesti rimarranno nell'unico emporio dedicato alla vendita, vicino all'Excelsior; dove meno troupe, fotografi, fanatici e aspiranti veline e tronisti, attendono gli attori del film della serata per immortalarli. Pochi affari anche per il merchandasing e il voyeurismo in questo 2020 disgraziato.
I rigidi protocolli pretesi dall'emergenza sanitaria, mai-come questa volta- separano le non troppe star approdate al Lido, dagli spettatori.
Il red carpet, sottratto agli occhi del pubblico, è magari invece lasciato al vanitoso passeggio di un ex ministro accorso al festival per vedere, male informato, non un film sul terrorismo indigeno degli Settanta (Padrenostro), ma sulla necessità di una riconciliazione tra le parti che si scannarono in quel tempo.
La tribù dei fanatici cinefili, invece, confinato più in là; nel pattinodromo trasformato per l'occasione in un'arena estiva.
Però -diamine- sarebbe pur sempre la Biennale e, allora, ascoltare, come accaduto nel week end scorso, il karaoke dei locali che affacciano sull'acqua, mentre sullo schermo scorrono magari drammaticissime immagini, non è cosa.
E' un po' così, come spesso è il nostro paese. Capace di fare cose apparentemente impossibili (la Mostra nel tempo del Covid è una di queste), ma di farle così come viene.
E infatti anche il distanziamento, così severo, tra il Palazzo del Cinema e il Casinò, smette appena ci si sposta all'imbarcadero per ritornare verso Venezia.
L'amministrazione comunale (chissà se per scarse risorse in bilancio o per dubbia convinzione che gli spettatori sarebbero arrivati) non ha aggiunto neanche un vaporetto e su quello dell'una di notte si sta ammassati come sardine.
In questo balbettio di una Mostra in cui comunque è bello esserci, è giunto domenica Khorshid (Sole) di Majid Majidi.
Io chiedo anche scusa se torno a parlare, dopo Terra desolata, di un altro film persiano, mentre un terzo (Jenayat-e bi deghat) arriverà mercoledì; io chiedo anche scusa, lo ripeto, ma non è colpa mia se da anni è da lì che arriva il cinema migliore.
Sole è dedicato agli oltre 150 milioni di bambini nel mondo costretti dalla miseria a lavorare e anche i piccoli attori in scena nel film, Majidi li ha presi da loro.
Attori non professionisti e storie d'infanzia ritornano spesso nel cinema persiano contemporaneo, un po' come succedeva nel nostro, tanto e tanto tempo fa, quando raccoglieva riconoscimenti dappertutto e soprattutto i suoi autori, come raccomandava Zavattini, prendevano ancora l'autobus e ascoltavano la gente parlare.
Oggi qui lo si fa sempre meno, quasi mai; troppi nostri autori preferiscono autocontemplare se stessi e i loro meravigliosi attici romani, ma da qualche parte nel pianeta qualcuno -per fortuna- ancora osserva quella raccomandazione.
Onore dunque a Zavattini che lo insegnò e ai tanti registi iraniani che lo hanno studiato.
Qui siamo nel sottomondo; in quella parte (grossissima lì e altrove) di società che l'ipocrita Iran degli ayattolah finge di non vedere e nasconde sotto il tappeto.
Bambini che vivono per strada, suppliscono a genitori finiti in galera, oppure al manicomio, oppure alcoolizzati, oppure semplicemente assenti per la semplice ragione di non esserci mai stati.
Quell'Iran che magari esemplarmente fustiga in piazza la ragazza trovata a ballare in una festa, la coppia fedifraga che si ama, l'invertito, l'oppositore, il miscredente e chi più ne ha più ne metta, ma non ha nulla da dire se tanti suoi infanti ignorano a scuola il significato delle parole liquido, solido e gassoso, ma in compenso sanno declinare (e hanno già provato) tutto l'elenco di tutte le droghe naturali e sintetiche che girano sulla terra.
Qui ci sono afghani, figli della interminabile diaspora e ultimi tra gli ultimi; bambini che si spaccano l'un l'altro il naso a testate per difendere l'onore di una madre che neppure hanno conosciuto; furti di gomme su commissione in un garage; vendite di chincaglierie e cose inutili in metropolitane; corse a perdifiato per scappare al poliziotto, al guardiano, al controllore e a tutta quest'interminabile schiera di giannizzeri dell'autorità costituita che null'altro sa fare, verso questi disperati, che allontanarli, rinchiuderli e cacciarli.
Se c'è un nostro film cui questo Sole pare debitore, esso è senz'altro Sciuscià di De Sica; primo film straniero a vincere l'Oscar, proprio come Majidi che invece è stato il primo iranico a riceverlo.
Là il sogno dei bambini era il cavallo Bersagliere, come sa chi l'ha visto; qui è il presunto tesoro sotterrato nel cimitero, proprio nella fogna che collega il camposanto ad una scuola, e che i bambini sono costretti a recuperare per ordine di un malavitosetto di ultimo rango da cui devono farsi perdonare il furto di un piccione.
I bambini sognano questo tesoro. Lo ricercano sui siti di un internet point. Immaginano anfore colme di monete d'oro. Antichi monili. Rarità e preziosi che neppure la grotta di Ali babà avrebbe mai potuto nascondere.
Come in un film che vedemmo qui a Venezia alcuni anni fa (Via da Vegas; statunitense quello), mettere le mani su quel tesoro porrebbe fine a tutte le tribolazioni.
Ma nelle fogne non ci stanno ori, argenti e mirre; nelle fogne di Teheran, a due passi dal cimitero, al massimo trovi un pacco di cocaina, lasciato cadere da un pusher distratto e inaffidabile.
Violento j'accuse verso il modello sociale di quel paese, dove i contributi alle scuole, agli ospedali e, in generale, a tutte le strutture del welfare, sono lasciate alla discrezionalità dei vertici religiosi, unici ricettori e amministratori di tutte le risorse destinate a chi ne avrebbe bisogno.
Qui, in Sole, chi si fa maestro di strada e prova ad offrire a questo magma di esclusi una diversa opportunità non trova foraggiatori e l'educatore che lo farà, dopo aver tentato di sottrarre una bambina all'ennesima umiliazione del potere, sarà preso dai gendarmi e, davanti ai suoi bambini, tradotto in galera.
Come accade giusto a quegli attivisti democratici (avvocati, giornalisti e, spesso, cineasti) che in Iran davvero lo fanno.
Non è un film consolatorio, Sole. Non si cerchi lì il lieto fine, naturalmente. Quant'è lontana per quei bambini una giustizia. Però non ci si fermi; si vada avanti; non venga mai meno il desiderio del riscatto; ostinatamente si insista; non ci si arrenda per il solo fatto di essere nati prima del nostro tempo. Monito e segnaletica, almeno finora, di tanti film di questa Settantasettesima rassegna.
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