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77° MOSTRA DEL CINEMA DI VENEZIA LEONE D’ORO: “Nomadland” di Chloe Zhao

12 Set 20

Di Redazione Psychiatry On Line Italia

Beati gli ultimi, può darsi valga in questa Venezia 2020. 

Nella notte che conclude le proiezioni alla Mostra, giunge Nomadland di Chloe Zhao, accreditandosi autorevolmente alla vittoria finale, puntualmente arrivata. 

Chloe Zhao è una trentottenne regista di nascita cinese, trapiantata però giovanissima negli Stati Uniti nelle cui scuole di cinema ha imparato il mestiere e, qui, alla sua seconda regia. 

Nel suo primo lungometraggio, The rider-Il sogno di un cowboy, il protagonista era un giovane mandriano attivo nel circo dei rodei, patetica celebrazione contemporanea, nell’America profonda e reazionaria di oggi, dell’epopea western. E a quella stessa retorica storia patria pare orientarsi anche adesso con Nomadland, raccontando di donne e uomini rimasti senza casa; che vagano da nord a sud; dal Nevada all’Arizona; arrangiandosi; tra una raccolta di barbabietole e l’impiego in un fast food; a bordo dei loro furgoni, dove vivono e con cui si spostano, lungo le arterie secondarie dello sterminato paese. 

Della protagonista, la sorella dice, con falsa ammirazione: “è come i nostri pionieri di un tempo”; ma lo afferma tra le pareti della sua casetta tanto middle class di gente wasp, chiacchierando intorno al barbecue con il marito e i loro amici che fanno affari con l’immobiliare, approfittando ancora dell’esplosione della bolla del 2007. 

Mito americano, ma anche grande crisi, dunque; tanto che in certe sequenze del film, con questi caravan accampati vicino ad una pompa di benzina piuttosto che sulla piazzola di una strada, paiono riecheggiare addirittura talune immagini di Furore di Steinbeck, portato sugli schermi da John Ford all’inizio degli anni Quaranta. 

E alla scoperta dell’America di oggi di tanta sua povertà, il film fa esplicitamente riferimento. 

Fern, la protagonista, interpretata magistralmente da una sempre magnifica Frances McDormand, dopo aver resistito per anni, è costretta ormai ad abbandonare la sua città del nord più estremo. Agglomerato di case sorto intorno alla fabbrica di calcestruzzo, una volta chiusa questa si è trasformata in una landa deserta, cui è persino stato sottratto il codice postale. 

Una città fantasma come tante ne esistono negli Stati Uniti deindustrializzati, quella quindi lasciata da Fern. 

In quella città aziendale Fern si era trasferita con il marito, continuando a starci anche dopo la morte di lui e alternandosi, come sciorinerà cercando un lavoro, tra cinque anni di supplenza in una scuola, la cassa di un supermercato e un po' di fabbrica finché questa c’è stata. 

Ora resta la strada a Fern e lei in strada ci si mette. 

Va a coprire il picco natalizio ad Amazon dove fa amicizia con un’altra donna senza casa che confessa: “Ho 62 anni. Quando sono rimasta senza lavoro ho pensato di mettermi in pensione. Ho chiesto, ma avevo diritto solo a 500 dollari. E quindi eccomi qui”. Insieme, scaduto il contratto nella multinazionale della distribuzione, fanno pulizie in un camping; friggono hamburger in una cucina e così via. Spostandosi e inseguendo la sopravvivenza. 

Esattamente come tutti i nomadi in ogni latitudine del pianeta. 

Storie di donne e uomini ai margini della grande Americana; esterne alle grandi metropoli; lontane dai gangli e dai nodi moderni dell’accumulazione. 

C’è chi, come Fern e la sua amica ci sono arrivate per la crisi economica e la disoccupazione, chi magari per una malattia;  chi per la sindrome post traumatica della guerra che distrugge i reduci dei troppi conflitti del tempo della guerra permanente. 

Varie le ragioni; comune la loro esclusione. 

Mondo di fatica, quello mostrato da Zhao; ma pure di grande dignità e solidarietà. Dove regna l’economia circolare; ci si dà una dritta se si sa che da qualche parte ci può stare un lavoretto con cui tirare su qualcosa; dove ci si aiuta se un motore si rompe o qualcuno sta male e dove si offre e si divide un letto se, temporaneamente, si ha la sorte di ritrovare una casa. 

Senza tetto, né legge; era il titolo di un film di Agnes Varda che vinse qui in laguna ormai molti anni fa. 

In quel caso era una giovane a stare ai lati del luccichio della modernità, qui donne e uomini non più giovani; lasciate indietro dal resto del branco umano. 

In questo ultimo tratto di difficile percorso esistenziale ci sarà pure chi, col corpo ammorbato ormai dalle metastasi, anziché verso l’ospedale, il suo ultimo viaggio vorrà volgerlo –riuscendoci- verso quelle terre dove ebbe modo di incontrare centinaia di nidi di uccelli. E pure Fern, in un identico circolare e ininterrotto migrare, quando si troverà vicino all’ormai desolata vecchia città aziendale che ha dovuto lasciare, ne approfitterà per tornare ad abbracciare la vecchia sequoia o volgere uno sguardo verso le montagne. 

Un film sull’esclusione, questo Nomadland, che ci impone, a noi che lo vediamo, di interrogarci profondamente sulla qualità e l’alienazione della nostra presunta inclusione. 

Di McDormad, già Oscar con Fargo e Tre manifesti ad Ebbing, abbiamo già detto. La musica, splendida, è di Einaudi. 

Comunque vada a finire, la pellicola resterà comunque una perla di questa difficile Mostra veneziana.

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