A Venezia –dice chi la conosce e la ama- conviene talvolta separarsi dagli itinerari principali e lasciarsi guidare dall’istinto.
Sarà così che si incontreranno quei suoi angoli capaci di conquistarti per sempre e strapparti la promessa di ritornare.
Vale lo stesso con la Mostra del Cinema, dove la sua sessione ufficiale è troppo spesso condizionata più da equilibri geopolitici che da valori artistici e dove la pressione indebita esercitata dai maggiori player (produttori e distributori in primis) piega rovinosamente il cartellone ai propri interessi; qui da noi Rai Cinema, proprietaria del mediocre Lacci con cui si è aperta questa 77° rassegna, sempre più vocata a condannare la nostra cinematografia verso produzioni standardizzate e omologate, adatte ad un gusto presuntamente nazional-popolare, anziché salvaguardarne il prestigio, la qualità e, semmai scoprisse di averne, la propria originalità.
Se però ci si perde tra i labirinti di un programma che, per quanto diradato dalla pandemia, continua ad essere intenso, ci si rivolge magari alle sessioni parallele (quest’anno sono rimaste le sempre eccellenti Orizzonti e Settimane della Critica) e ci si rende disponibili a programmazioni in orari in cui solitamente ancora non si va al cinema, può accadere di inciampare in autentiche perle.
A me è accaduto ieri con Dashte Khamoush (Terra desolata) di Ahmad Bahrami, un regista iraniano ancora relativamente giovane (è del ’72), al suo secondo lungometraggio e che, c’è da giurarci, impareremo a conoscerne il nome, andando ad ingrossare la già nutritissima schiera di autori persiani.
Qui siamo in un villaggio remoto dell’Iran, lontano dalle aree metropolitane del paese; all’interno dell’ultima cava rimasta dove si producono mattoni. Tra chi ci lavora una famiglia azera, un’altra curda, altre iraniche. Etnie, lingue, religioni, costumi diversi, cui il regista concede di recitare utilizzando ciascuno il proprio idioma.
Un giorno il padrone arriva e comunica loro che quell’area è stata venduta. I nuovi proprietari non manterranno l’antica produzione. A chi da sempre ci lavora intima di fare fagotto e abbandonare i loro ricoveri prima della mattina dopo.
Le condizioni di chi lavora in Iran non sono migliori di quelle che da noi hanno magari mostrato negli ultimi anni Brizè, Dardenne, Loach e non molti altri. Pure lì non c’è lo spazio per la ribellione, se si eccettua una quasi patetica minaccia di sciopero fatta dai curdi, come sempre condannati –pure in quella cava- alle mansioni peggiori.
Quelle ultime ore lì, tra fango, fornace e fatica saranno invece consumate per strappare al padrone promesse che noi già sappiamo non verranno mai mantenute: la liquidazione degli stipendi ancora vantati, l’intercessione per una pensione che –come dirà qualcuno- “a chi fa i mattoni, mai arriva”; magari la raccomandazione per un documento mai giunto; l’aiuto per consentire ad un figlio di cominciare finalmente la scuola oppure quello con cui un congiunto in galera per un’ingiusta condanna, possa fuggire alla pena.
Il padrone promette e promette, come ha sempre fatto in tutti quegli anni. Promette e non mantiene; tanto il giorno dopo se ne andranno tutti senza salario, senza documenti, senza aiuto e con il padre ancora dentro una prigione.
Resterà solo Loftollah, che lì ha fatto il guardiano per tutta la vita. Loftollah che mai è andato a scuola, ma sa leggere e contare. Loftollah che ha più di quarant’anni, ma mai ha avuto neppure un suo documento all’anagrafe.
Aiuterà la giovane coppia contrastata di etnia mista a fuggire all’alba; proverà a garantire uno straccio di futura a Sarvar, la moglie in affitto del padrone, e al suo piccolo (e intenso) figlio. E poi rimarrà lì. Insieme a qualche bestia e a una catasta di mattoni che più non serve.
Dell’uso che ne farà non scrivo.
Dico solo che quella parte finale motiverà anche l’insistere dei tanti lunghi piani sequenza con cui ha provato l’autore a metterci alla prova durante il film. Quel suo lambire la macchina da presa verso mura screpolate.
Però, alla fine, quasi in un sottotesto, finalmente lo svelerà.
Sarà come urlarci: stronzo, questo non è solo un muro! Stronzo, queste mura le abbiamo fatte noi!
Girato in un bellissimo bianco e nero. Dotato di un’originalissima struttura desunta dall’opera eliottiana citata nel titolo. Debitore, ma mai citazionista, verso straordinari altri lavori quali, magari, pure Il grido del giovane Antonioni, Terra desolata dimostra la straordinaria assimilazione dell’autore della migliore esperienza intellettuale del nostro ultimo secolo, magari mediata dal filtro di quella che alcuni hanno chiamato il marxismo sciita.
Sarebbe assolutamente un film da non perdere, se solo ci fosse qualche distributore coraggioso che osasse la prossima stagione portarlo in sala.
Comunque: evviva! E’ nato un autore.
0 commenti