Due film di autrici donne (Quo vadis, Aida? della bosniaca Jasmila Zbanic e Amanti della francese Nicole Garcia), unitamente –fuori concorso- ad un classico dell’interpretazione femminile, qualeLa voce umana, questa volta consegnataall’appena insignita Leone d’oro alla carriera, Tilda Swinton, aprono la prima serata della rassegna ufficiale.
Non poteva forse che essere così in una Mostra che fortunatamente consegna un’adeguata rappresentanza alla presenza femminile: un buon numero di registe a contendersi il Leone, i due premi alla carriera messi in palio (oltre alla Swinton, Ann Hui), la presidenza delle due giurie (quella della sessione principale e quella di Orizzonti).
C’era curiosità per laVoce umanaportata in scena da Almodovar; sua prima pellicola -per quanto breve-, diretta dopo il lungo lock down che ha bloccato tutte le produzioni cinematografiche.
Se il testo scritto da Cocteau, come forse si sa,fu pensato per la Piaf che però mai lo portò in scena, la sinossi è ancora più nota: un’unica interprete femminile al telefono con il compagno dei suoi ultimi cinque anni, da cui è appena stata lasciata per un’altra.Se non lo recitò la Piaf peròlo fecero molte altre: la Bergman, quasi alla fine della sua carriera, per la televisione; un’insolitamente brava Ornella Muti, diretta da Citto Maselli, alla fine degli anni ’80 in un’originalissima reinterpretazione del testo che esaltava la solitudine dell’interprete; ma soprattutto la Magnani in quello che fu l’ultimo lavoro dello straordinario sodalizio artistico e umano con Roberto Rossellini.
Era il 1948 e si dice che forse il regista già la tradisse con la Bergman, con cui da lì a poco avrebbero fatto il loro primo film: Stromboli.
Leggenda o verità che sia, fatto sta che con la “Voce umana”, Anna Magnani ci concesse una delle sue più intense e straordinarie recitazioni.
Poco importava, per la verità, il confronto tra Tilda Swinton e Anna Magnani, grandissime attrici entrambe; ma incuriosiva l’evidente allusione tra il contesto dell’opera di Cocteau e l’esperienza esistenziale vissuta da noi tutti negli scorsi mesi: l’isolamento nelle nostre case, l’impressione della perdita dell’altro, la comunicazione a distanza quale ultima possibilità rimastaci per non perderci definitivamente nella nostra solitudine.
E poi, non ultimo, almeno nella comunità dei cinefili, unaltrodilemmainquietante, ovvero quale destino possa toccare al cinemanel tempo della perdita dei riti collettivi.
Forse questo, più degli altri, è il punto che sta caro stavolta ad Almodovar; a lui che pure, sulla malattia e l’abbandono, ha comunque dedicato non poca parte della sua ultima filmografia.
Alla domanda sul futuro della settima arte, giustamente e umilmente, il registaperònon risponde. O almeno, si rifiuta di farlo approfittando dell’autorità della cattedra.
Il breve, infatti, si svolge in un teatro di posa deserto, dove tanto l’attrice che la macchina da presa, non hanno timore di indugiare; transitando tra quello e il finto appartamento ricostruito in quello spazio per dare credibilità alla scena.
Nei dialoghi quasi nessuna allusione al tradimentocon un’altra donnainvece così presente e preponderante nel testo originale. L’interprete, in questo short di Almodovar, dice di sé di essere un’attrice–indubbio tratto di sincerità nella finzione dello spazio scenico e della recitazione-; racconta di essere già in accordo con il proprio agente per nuove parti e di essere stata da lui rassicuratac he il pubblico ancora la desidera(parla della protagonista del corto, Almodovar, oppure del cinema? Chissà).Ma poi, all’improvviso, la protagonista non è più capace dimentire; confessa a chi la ascoltala propria disperazione, lanon quietabileincertezza sul proprio futuro; la paura che il suo destino sia ormai giunto all’epilogo.
E qui, Almodovar, si concede una delle poche divagazionidal testo. L’interprete improvvisamente si fa tranquilla echiede al proprio interlocutore–lontano o vicino che sia, un po' come noi che la guardiamo dalla platea- di volgere lo sguardo verso quella casa e, mentre lei lo imbratta di benzina e si prepara a dargli fuoco, di immaginare il fumo che si leva e le fiamme che la avvolgono.
Tilde Swinton abbandona la scena, giunge una squadra di pompieri e partono i titoli di coda.
Forse quel teatro di posa verrà distrutto; magari lo si riuscirà a salvare; quasi certamente non potrà essere mai più quello di prima.
E chissà che anche stavolta, Almodovar non abbia ragione.
Ma lasciata la Voce umana, lo spirito della Magnani (e forse pure quello di Rossellini), torna a sorvolare in Quo vadis, Aida?, straordinaria pellicola bosniaca di Jasmila Zbanic. Film che difficilmente potrà essere ignorato al momento delle premiazioni, a partire dalla bravissima attrice protagonista Jasna Duricic.
Zbanic sul cinema non ha dubbi.
Quel “adesso vi faremo vedere unverofilm”, con cui un miliziano serbo terrorizza la popolazione bosniaca pochi attimi prima del genocidio di Srebrenica, è un’autentica dichiarazione poetica dell’autrice. Non, sia chiaro, la spocchiosa attribuzione di un merito a sé stessa; ma l’indicazioneineluttabile cui il cinema deve tendere eche taleè anche indipendentemente dalle storie che racconta.
Il cinema è politico anche (e soprattutto) per la sua dimensione collettiva; presente nell’atto del farlo e nel momento di fruirne, come ben ricordò –ormai tanti anni fa- proprio qui a Venezia, raccogliendo il suo Leone d’oro, quello che forse è stato il più politico di tutti gli autori del nostro tempo: Jean Luc Godard.
Il cinema di Jasmila Zbanic lo è anche in virtù del suo rapporto con la storia. E, chi scrive, per ciò lo apprezza.
Comunque, in Quo vadis, siamo a Srebrenica, nei giorni della sua capitolazione; Aida fa l’interprete nella missione ONU che dovrebbe tutelare la popolazione civile e garantire la neutralità della regione, mentre gli uomini della famiglia: il marito e due figli ormai quasi adulti, smessa -al pari di quasi tutti gli altri- l’idea di resistere agli assedianti, si uniscono nella fuga al resto di una popolazione terrorizzata dai bombardamenti delle truppe serbe.
Quell’esercito di disperati migranti dalla guerra (vi ricordano qualcuno, please?), arrembanti verso la terra promessa della postazione ONU presidiata dagli europei (ancora niente, no?), saranno ricacciati da quest’ultimi –olandesi e altri- al di là del filo spinato della loro area e lasciati alla mercé e al sadismo delle truppeche li inseguono(e se ancora adesso, vi sfugge l’analogia, allora,non resta altro che dubitare della vostra buona fede).
L’imbelle gerarchia ONU di stanza a Srebrenicain quei giorni e il latitante comando politico di quella missione nelle capitali europee,evidentementenonancora soddisfatta del mancato sostegno ai civili che avrebbe invece dovuto assicurare, vedrà pure dinegoziare con il generale Mladic, autorizzando lui e i suoi soldatiad entrare nella missione ONU per prelevare e portar via anche le poche migliaia che lì avevano trovato temporaneo rifugio.
Un disastroso, vile, complicee imperdonabile atteggiamento quello dell’Europa in quei frangenti che verrà orribilmente peggiorato e reso incontrovertibile pochi mesi più tardi, con la altrettanto disgraziata decisione dei suoi governi di bombardare Belgrado. Due errori non solo si sommano, due errori fanno un disastro.Generano una catastrofe. Danno origine ad una tragedia.
Zbanic non assolve nessuno.
Certo non la codardia di quella missione, men che meno il sadismo di Mladic e dei suoi miliziani, ma neppure il proprio popolo, privo di resistenza e così facilmente abbindolabile dalle promesse di un occupante la cui crudeltà e credibilità era già ampiamente nota.
Quant’è difficile non scorgere nel severo e inappellabile giudizio dell’autrice, la lezione di un Levi.
Aida è tra le poche che sopravviverà. Non si laverà mai da quelle ferite. Invecchierà. Tornerà ad insegnare. Consegnando ai bambini di oggi e agli adulti di domani il compito di un’ancora troppo difficile e prematura riconciliazione, magistralmente rappresentata nell’ultima magnifica e commovente sequenza del film.
Aida è archetipo delle donne nel tempo della guerra. Novella Cassandra christawolfiana che non si riconosce più in alcuna parte, certa com’è che la guerra cambi tutti e non salvi nessuno. Penelope disposta a fingere di intrigare con i Proci del suo tempo (la missione ONU); regnanti di altri luoghichesimascherano daospiti meravigliosi, ma si preparano solo asbranare le sue terre.
Aida è apolide. Priva di una propria lingua. Fa l’interprete e pronuncia a vantaggio dell’una e l’altra parte, parole che mai direbbe.Aida è la parte vinta che ostinatamente insiste a raccontare la suatragedia a chi gli succede, nella speranza –magari vana- che possa e debba non accadere mai più.
Grazie, dunque, a Jasmila Zbanic. E possano, lei e la sua gente, avere pena di noi.
Degli Amantidi Nicole Garcia, invece, preferisco tacere. La cineasta francese è stata pure allieva di Resnais, ma evidentemente non le è bastato. Qui porta la più scalcagnata delle scalcagnate versioni variamente ispirate al Postino di James Cain, ma purtroppo per lei non è Visconti. Classico triangolo, lui e lei, giovani, belli e appassionati e un marito vecchio, bruttarello, mamolto, moltoricco. Questa volta la fine del topo la fa l’amante prestante.
Filmetto più adatto ad una serata in tv senza pretese che al grande schermo di una bella Mostra; ma chissà, magari i francesi, costretti a dare forfait con Cannes, non avranno voluto avvantaggiare troppo il loro concorrente veneziano. E dunque, stavolta, ci hanno mandato questo.
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