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A PROPOSITO DI “GIU’ LA TESTA” DI SERGIO LEONE

9 Set 22

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Un sabato di questo siccitoso e rovente fine agosto 2022, ho rivisto “Giù la testa” (1971) di Sergio Leone. Il secondo della "trilogia del tempo" – secondo una felice definizione del Morandini – dopo “C'era una volta il West” (1968) e prima di “C'era una volta in America” (1984). Un Leone maturo e padrone del tempo scenico, mescola rivoluzione, repressione, ferocia, povertà, ricchezza, malcontento, analfabetismo popolare, antimilitarismo, pacifismo, familismo proletario. La trama è semplice e si tiene insieme, senza sbavature. Un peone messicano, mancino, (Juan Miranda-Rod Steiger-Carlo Romano), che tiene famiglia, anche numerosa, da sfamare, sei-sette figli, padre a carico e parenti vari, la trasforma in una banda di pezzenti scaltri, astuti, intelligenti, sempre ottimisti per rapinare qualsiasi cosa loro non abbiano mai avuto. L’incontro giusto avviene, quando la storia, la regia, la sceneggiatura, la musica, la scelta del cast, ecc, fanno scattare come una reazione elettrolitica, dove reattivi, reagenti, ioni, cariche elettriche, migrano per andare al posto giusto, prefissato e solo quello. La mano felice di Leone s’intuisce e si gusta immediatamente, quando su una motocicletta improbabile che procede tra scoppi, polvere, fumi, compare “Séan” (John Mallory-James Coburn-Peppino Rinaldi) ex-rivoluzionario irlandese dell'IRA, dinamitardo esperto, che fugge dal terribile segreto di aver giustiziato un compagno di cospirazione, colpevole di aver fatto la spia agli Inglesi. La musica di Ennio Morricone compie la restante parte del miracolo. La storia continua con reciproci imbrogli, nel senso che Miranda e la sua tribù, credono di assaltare la banca di Mesa Verde, mentre Mallory, dietro lo scusa di essere venuto in Messico per incontrare il proprietario della miniera nei pressi di Mesa Verde, tale Aschenbach, che poi salta in aria per sbaglio, ha sempre in mente la rivoluzione fosse anche quella messicana di Pancho Villa ed Emiliano Zapata. Felice come sempre la pesca di Leone in un cast che gli si apriva ormai smisuratamente. Evitò John Wayne che avrebbe turbato gli equilibri del film e ripensò anche su Jason Robards, che già conosceva da “C'era una volta il West” (1968), per cercare qualcosa di più freddo e spigoloso, che James Coburn gli ha rivelato appieno. Una vera sorpresa, è stato Rod Steiger, che, per superar il confronto con Eli Wallach, che aveva perfino imparato l’italiano, rimasto malissimo per la mancata assegnazione della parte, prese lezioni di spagnolo, e per tutta la vita continuò a parlare con quelle inflessioni! Si dà il caso che io, durante la mia vita semisegreta di doppiatore, abbia prestato la voce sia al primo (“Breakthrough – Specchio Per Le Allodole ”, 1979), che al secondo (“Our Family Honor – L'onore della famiglia”) e posso assicurare che sono stati due autentici mattatori, veri e propri caratteristi da Carro di Tespi. Checché ne dica la critica, questo, a mio avviso è il più bel film di Sergio Leone che, oltretutto, si riscatta dall’accusa di plagio intentatagli da Akira Kurosawa per averlo copiato dal suo “La sfida del samurai” (1961).

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