Tocca a tutti i film tratti da romanzi importanti e di successo, passare le forche caudine della comparazione con l'opera originaria.
Dimenticando gli specifici e differenti codici linguistici, le grammatiche non sovrapponibili delle due forme di espressione artistica, ci si affanna piuttosto a verificare se il regista sia stato capace di riprodurre le atmosfere dello scrittore e ci si indigna per l'aver trascurato questo o quell'episodio del romanzo che -il critico di turno- giura adesso essere diventate imprescindibili per l'economia della narrazione.
A questa via crucis non poteva certo essere sottratto Ewan Mc Gregor, reo di battezzare il suo esordio dietro la macchina da presa, con l'opera più importante e senz'altro più celebre dell'eterno candidato al Nobel, Philip Roth: American Pastoral, premio Pulitzer 1998; uscendo malconcio dalla grandinata di critiche ricevute, nonostante il lusinghiero parere dello scrittore che -il film- l'ha invece ritenuto “l'unica trasposizione cinematografica all'altezza del libro”.
Occorrerà dunque sottrarsi a questa inutile (e un po' sciocca) analisi comparata tra testo filmico e testo letterario, provando a dimenticarci del libro ancora più di quanto non faccia Mc Gregor stesso quando, nella lunga voce fuori campo della sequenza iniziale, paga il necessario tributo al grande autore di Newark.
Ed è a Newark che si svolge la vicenda narrata nel film; in questo angolo di New Jersey a pochi ponti di distanza da Manhattan, eppure lontanissima dal cosmopolitismo dell'isola. Una Newark interamente bianca, religiosa, profondamente tradizionalista e repubblicana. Una Newark assolutamente wasp, cui la comunità ebraica -di cui i protagonisti sono parte- fa l'impossibile per somigliare ed integrarsi.
Il secondo conflitto mondiale è appena terminato; gli Stati Uniti sono certi e fieri della loro potenza; le paure della guerra e le miserie della grande crisi precedente paiono finalmente potersi tradurre in sbiaditi e tristi ricordi; e Seymour Levov (alias Lo Svedese), lo studente del college più amato e desiderato: bello, anzi: bellissimo, eccellente negli sport, di famiglia benestante e destinato senz'altro ad un'esistenza segnata da tutti i maggiori successi, si fidanza con l'altrettanto bellissima Dawn, reginetta di bellezza nel suo Stato e concorrente -nientepopodimeno- dell'edizione 1949 di Miss America.
Dawn è cattolica, ma non così tanto da non poter trovare un'intesa con i rigidi precetti della religiosissima famiglia di Seymour e dunque -passato l'esame del suocero- è finalmente ammessa a diventare la signora Levov.
Una coppia così bella e così tanto fiera non può che generare una bellissima bambina bionda, orgoglio della famiglia e -per il padre e la madre- degnissima erede e straordinaria futura amministratrice delle fortune che loro sapranno costruire.
La piccola Merry però è un po' meno perfetta di quanto la sua apparenza potrebbe suggerire e a guastare la sua algida bellezza di promettente infante concorre soprattutto un'incontenibile balbuzia che la espone alle derisioni delle proprie compagne e agli imbarazzi di tutta la famiglia.
Nulla di organico però, precisa la dottoressa Sheila Smith cui i genitori l'hanno affidata; piuttosto il disagio e la paura di fronte alla perfezione dei propri genitori.
La piccola Merry vorrebbe essere affascinante come la madre (“Baciami come fai con la mamma”, chiederà al padre, facendo scivolare una spallina del vestito, durante una gita al lago); e, se somigliare alla madre non sarà possibile, almeno essere come l'Audrey Hepburn di Colazione da Tiffany, di cui trattiene tutte le foto in un album e che imita intonando Moon River.
Se -però- non si riesce ad essere né come la madre Dawn, nè come la mitica e anoressica Audrey (Merry è goffa persino quando cucina un semplice hamburger), allora tanto vale provare ad essere sè stessi.
Merry la propria identità può inseguirla soltanto a costo di recedere da tutti i valori e le convenzioni borghesi della famiglia; facendosi ribelle verso quella e ribaltando l'educato moderatismo del padre e della madre con l'adesione alla parte più ribelle e radicale del movimento pacifista statunitense degli anni del Vietnam.
Il desiderio di essere un “buon americano” cui l'hanno informata i genitori diventa in lei l'odio verso un Paese responsabile di una sporca guerra, reo di continuare a vessare la propria minoranza nera e presieduta da “quel porco di Lindon Johnson” come urlerà agli attoniti genitori, vincendo pure il suo claudicante lessico.
Merry sogna New York, non Newark. Vuole unirsi ai contestatori di quella città e lasciare la quiete bucolica del suo paese.
E quando il padre glielo impedisce, Merry allora -come le è stato suggerito- “porta la guerra in casa”, facendo saltare in aria con un ordigno il piccolo ufficio postale locale e ammazzando un pover'uomo del luogo.
E' senz'altro questa la scena cinematograficamente più ben riuscita del film; la dimostrazione di quanto il cinema sia soprattutto “arte del vedere”; con il funzionario dell'ufficio che, come tanti altri uguali a lui fanno in quei posti la mattina, alza sul pennone la bandiera a stelle e strisce e, subito appresso, il botto devastante, simile ma stavolta affatto simbolico, a quello di Zabriskie Point che quegli anni volle raccontare e in quei tempi fu girato.
Segue la fuga clandestina di Merry; la disperazione dei genitori per una figlia diversa da come l'avrebbero voluta, la pazzia prima e la ribellione al marito poi di Dawn che, dopo avergli sbattuto in faccia la propria rabbia per quella fascia di Miss New Jersey di cui lei si vergogna e di cui il marito va fiero, gli annuncia -in un solo apparente paradosso- la decisione di volersi recare in Svizzera e sottoporsi alla chirurgia plastica.
Ne tornerà bellissima sì; ma non per rinverdire un fascino smunto dal tempo e dalla malattia, piuttosto per smettere di essere moglie fedele, madre premurosa, donna desiderata dall'uomo molto prima che da se stessa.
Nel frattempo Merry proseguirà il suo viaggio negli inferi e quando il padre finalmente la ritroverà, incontrerà una figlia ridotta in miseria, imbruttita dalla vita, sorda ai suoi appelli di tornare a casa, di ritornare con lui.
Resta difficile non avvertire l'eco del mito ebraico del Golem; del desiderio insieme impotente, prometeico e blasfemo di realizzare un essere animato se non a propria immagine e somiglianza, almeno come il dio/io vuole.
Come il Golem, Dawn e Merry, nella loro assoluta diversità, si ribellano a quel destino, svelando -con quell'atto- il vero, profondo, irreversibile fallimento del mitico Svedese.
Certo, Roth -quando scrisse il poderoso testo- pensava maggiormente di Mc Gregor allo sgretolamento del mito americano che alla crisi dell'universo simbolico maschile; ma -come in premessa- messo da parte il testo letterario, avanzano suggestioni importanti e, perchè no?, il desiderio -per chi non l'aveva ancora fatto- di leggere anche il libro.
E -forse- pure questo non è poco.
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