da non conoscere almeno un briciolo di pietà.”
(William Shakespeare, Riccardo III)
La cronaca racconta i fatti certo filtrandoli, è umano, attraverso la sensibilità o pure l’ideologia del cronista, la tragedia racconta i fatti, attraverso la sensibilità dell’autore libero dal doversi rifare alla realtà eppure in essa totalmente immerso, per dirci qualcosa di diverso di più universale che ci riguarda tutti.
Per restare al Cinema è la differenza che corre, per me, tra il Padrino Parte Prima (un bellissimo film di cronaca sul fenomeno mafioso) e il Padrino Parte Seconda (un capolavoro che prende spunto dal racconto per parlarci di un altro, più universale) o per venire al discorso odierno è la stessa differenza che corre tra l’ottimo Gomorra, una rappresentazione molto nello stile del “film denuncia” del fenomeno camorristico in Campania e lo straordinario ANIME NERE, una tragedia che tocca il cuore in cui l’ambientazione calabrese è una “quinta”, importante intendiamoci e rappresentata in maniera impeccabile, con cui dire qualcosa di più, uscito in questi giorni sugli schermi dopo l’ottima accoglienza avuta alla 71° Mostra del cinema di Venezia.
Lo dico subito: Anime Nere è il più bel film italiano di quest’anno e uno dei più bei film che mi sia capito di vedere e l’accostamento al Padrino Parte seconda di Coppola non né casuale e irriguardoso nei confronti del capolavoro del maestro americano.
Tratto dal romanzo omonimo di Gioacchino Criaco che ha pure collaborato alla sceneggiatura il film di Francesco Munzi può essere letto in vari piani di lettura: è un romanzo criminale? È uno spaccato sociale sulla realtà calabrese? È la storia di una faida famigliare? Un norie?
Il film è tutte queste cose e molte altre ancora.
Non mi soffermerò sulla trama né sulla straordinaria prova attoriale di un gruppo in stato di grazia molto ben diretto né sulla caratterizzazione asciutta dei personaggi né sulla realistica rappresentazione ambientale che questa dramma famigliare mette in scena restringendo la narrazione rispetto al romanzo e concentrando la vicenda su tre fratelli di Africo, Aspromonte piccolo centro distrutto dal terremoto e ricostruito poco a valle sulla costa noto alle cronache per essere uno dei capisaldi della malavita organizzata di quei luoghi: Luigi trafficante di droga a livello internazionale, Rocco paravento perbenista del riciclaggio dei traffici del fratello e Luciano il maggiore dei tre rimasto al paese, metafora claustrofobica del mondo interno e dei suoi sentimenti più “neri”, non solo del mondo ‘ndranghetista per altro rappresentato in maniera impeccabile e oserei dire volutamente fredda documentaristica direi.
Credo i temi che debbono indurre il lettore a vedere il film siano altri.
Cominciamo dal linguaggio cinematografico scelto da Munzi come cifra stilistica del suo lavoro: è l’effetto claustrofobico a prevalere. La rappresentazione di un mondo solo apparentemente aperto verso l’esterno in realtà completamente chiuso in sé stesso con i suoi riti, in un parallelo con le ferite mai rimarginabili del nostro mondo interno appunto con cui dobbiamo per sanità mentale imparare a convivere spesso, è ben rappresentata dall’uso magistrale del dialetto stretto che sembra più che una chiave stilistica (in realtà “superflua” rispetto alla narrazione o alla verisimiglianza dell’ambientazione e come tale evidentemente “voluta”) una ricercata chiave narrativa a simboleggiare appunto la dimensione claustrofobica di azioni ineluttabili che, come vedremo, solo un gesto inaspettato può interrompere.
La chiave di lettura del film è quella della tragedia sul tema della vendetta e della impossibilità di interrompere una striscia di sangue e violenza senza fine che parte da lontano e coinvolge nel profondo i protagonisti pur nella loro profonda diversità: Luigi , il fratello trafficante trapiantato a Milano a vendere cocaina ma che non ha “mai” lasciato Africo e i suoi riti, Rocco, apparentemente diverso che si ritrova immerso nella realtà da cui proviene e no se ne distacca, Luciano legato alla terra e apparentemente lontano dagli affari di famiglia ma testimone silenzioso di antichi e nuovi dolori.
Il paragone col Padrino non è casuale: anche qui sotto le apparenti spoglie di una dramma fatto di vendette incrociate di una infinita faida di paese, sotto la apparenza di un norie Munzi mette in scena una vera tragedia elisabettiana (come Coppola per altro) dove il tema della vendetta dell’odio ancestrale sembrano dominare e condizionare le coscienze di uomini e donne imprigionati in un ruolo senza possibilità di redenzione.
Non è un film sull’ndrangheta è un film sulla aggressività umana che il piccolo mondo di Africo aiuta a rappresentare in maniera più simbolica che di denuncia sociale.
Se nel film di Coppola il finale ci regalava la tragica immagine della solitudine del Boss, un Al Pacino mai forse in tale stato di grazia, una sorta di Re Lear consapevole, qui il finale è spiazzante inaspettato, folgorante: Luciano, il “mite”, Luciano l’insofferente verso la modernità che dopo l’assassinio del figlio ribelle e voglioso di emergere nella nomenclatura mafiosa e perfettamente in linea con la sua cultura e “primum movens” della storia con la sua provocazione come risposta a un'altra provocazione, dopo aver bruciato simbolicamente i ricordi di più di trent’anni di faida famigliare, impugna la pistola in questa casa lussuosa ma precaria, nel suo essere incompleta come tante case del sud più profondo e fa strage di fratello e accoliti in un gesto di autodistruzione attonita che tenta con le “parole” di una antica violenza di chiudere il cerchio della compulsiva escalation di furia distruttiva senza un futuro con un gesto di disperata speranza dell'unico "padre" e non "padrino" del film…
Imperdibile, un capolavoro…
(William Shakespeare, Il Mercante di Venezia: Antonio: atto I, scena I)
Caro Francesco, hai scritto
Caro Francesco, hai scritto una recensione vibrante, carica di sentimento: grazie! Vedrò il film. Dalla tua analisi mi è chiaro che viene affrontata la natura umana nelle sue pieghe più torbide; nell’essere vittima di una cultura che immancabilmente abita chi nasce dentro famiglie siffatte. Ma non di meno, abita i luoghi; la cultura impregnata di logiche omertose e sopraffacenti che pervasivamente si insinuano nell’inconscio collettivo. Ed ecco che il colore dell’anima ci viene dispiegato, senza retorica, di cui la cronaca è eco; ecco che l’anima tragicamente ci mostra le sue pieghe.