“Esterno notte”, titolo probabilmente desunto dalla prima, fortunata graphic novel di Gipi del 2003, con cui condivide pure la suddivisione in sei quadri, non è la prima prova televisiva del regista piacentino. Nel 1977 già vi si dedicò, trasferendo sul piccolo schermo in due puntate Il gabbiano di Cechov; lavoro che -per certi versi- decreterà il primo atto di rottura della lunga filmografia dell'autore, tra gli esordi militanti, segnati pure dalla stretta collaborazione con Agosti, e l'avvio di una profonda introspettiva, in una frequente interferenza tra produzione filmica e esperienza psicanalitica. “Amo quest'acqua, gli alberi, ilcielo. Ma non sono solo un paesaggista” afferma Trigorin, alter ego dell'autore nel testo cechoviano, parlando con Nina. Però poi prosegue ammettendo “io sono anche un cittadino. Amo il popolo. E sento che, come scrittore, ho il dovere di parlare del popolo, delle sue sofferenze, del suo avvenire. Ma poi, alla fine, sento che so descrivere solo il paesaggio, e in tutto il resto sono falso. Falso sino al midollo”.
Sarà una ricerca sulle origini non sempre lineare e massimamente condotta, quella di Bellocchio, nel corso di una carriera fortunatamente lunga quasi sessant'anni; che troverà poi, probabilmente, i suoi approdi più compiuti in età avanzata, nelle due ricerche più dichiratamente autobiografiche, a cavallo tra film e documentario, di Sorelle mai, prima e -successivamente- dello straordinario Marx può aspettare, capaci di fornire nuova luce e aprire uno squarcio definitivo anche su tutta la produzione precedente.
Anche la vicenda Moro, su cui si dedica in questo Esterno notte, com'è noto non rappresenta una prima volta nell'opera del regista che, già vent'anni fa, con il quasi omonimo “Buongiorno, notte” vi si cimentò; ispirato allora da Il prigioniero, libro-testimonianza di Anna Laura Braghetti, in quei 55 giorni giovanissima carceriera nell'appartamento di via Montalcini del Presidente della Democrazia Cristiana.
Questa volta molteplici sono le fonti per Bellocchio, favorito anche dal ricco parterre di collaboratori, tra cui pure Miguel Gotor curatore, per Einaudi, sia delle Lettere dalla prigione che della pubblicazione del Memoriale scritto nelle settimane del sequestro. Lavoro di grande ricerca, dunque, quello dell'autore; che non trascura la memorialistica di chi di quegli anni fu protagonista, a partire dalla biografia di Adriana Faranda L'anno della tigre, da cui anni fa pensò di trarre un film e qui ne deduce un episodio: il quarto; forse a parere di chi scrive il migliore e il più intenso. Ma pure l'intervista di Mario Moretti a Rossana Rossanda fa capolino nella confessione del giudizio tranciante con cui, l'allora capo brigatista, era uso liquidare il movimento di quegli anni. E ancora, nel film di Bellocchio, compaiono altri episodi, per lo più controversi e mai dimostrati, che fecero capolino nelle ricostruzioni giudiziarie e parlamentari su quegli anni, quali -per esempio- la presunta presenza di un sacerdote (suggerita nella realtà da Cossiga) nella prigione di Moro o il controverso ruolo di Suor Teresilla nelle relazioni tra Stato e Brigate Rosse.
Fonti talmente ampie, dunque, quelle cui attinge Bellocchio, che gli consentono di scartare tanto la realizzazione dell'ennesimo testo a tesi, quanto di non aderire alla presunta regia occulta, esterna, tanto in voga e tanto gradita nelle ricostruzioni che, di quel periodo, sono pervenute dai Palazzi romani della politica.
Ma non sono solo le memorie dei protagonisti e le fonti storiche più certe e accreditate, quelle cui ricorre Bellocchio per realizzare questa sua opera; più vastamente egli ricorre ad una sorta di note a piè di pagina, di segnaletica a favore dello spettatore, dove ricca (e mai casuale) è quella di origine filmica: da Anima Persa di Dino Risi (1977), la cui locandina compare nella scena del celebre assalto all'armeria del 12 marzo a Roma, a Il Mucchio Selvaggio di Sam Peckipan (1969), autentico film cult di quegli anni, fino al sempre alluso Todo Modo di Elio Petri (1975), cui Bellocchio sottrae anche due sequenze (la confessione della moglie del Presidente e una richiesta di raccomandazione), con cui Giffuni (superbo, in un cast comunque straordinario ) si misura in una sorta di confronto a distanza con il Volontè di allora, ma che -soprattutto- per il suo finale somiglia ad una terribile e inquietante premonizione di quanto realmente accadrà pochi anni dopo.
Per Bellocchio, l'affaire Moro, evidentemente però, non rappresenta solo una pagina fondamentale della nostra storia patria contemporanea, ma un autentico prisma con cui attraversare, per il critico, l'intera sua poetica e la sua totale opera; tanto quella a maggiore caratura sociale, quanto quella di vena più esistenzialista.
Osserviamolo, pertanto da vicino questo testo filmico probabilmente destinato a diventare, tra tante eccellenti, l'opera principale dell'autore.
“Lo vogliono morto, per poi farne un santo”, sentenzia Margherita Buy-Eleonora Chiavarelli, con rara capacità premonitrice, rendendosi conto della vanità e dell'inconsistenza delle azioni promesse per riportare a casa il marito rapito. Santo, il Moro di Bellocchio, non lo è. Non meno cinico degli altri prima del sequestro (si pensi alla sequenza con cui consegna ai peones dc, che fanno anticamera, la lista dei sottosegretari del costituendo governo di solidarietà nazionale), santo non lo diventa neppure nella reclusione. Non santo, ma uomo, quell'ex potente tenuto recluso e sempre più consapevole dell'ineluttabile destino cui è consegnato. “E' un peccato voler vivere?” chiede al sacerdote nella sua ultima confessione.
E la moglie, leggendo la sua prima lettera fattale pervenire: “E' da quando ci conoscemmo ragazzi che non usava più queste parole”, confessa ai figli.
Non uomo, ma pazzo invece per i suoi ex amici e compagni di partito. Prova di follia, per loro, è quella richiesta di aiuto, quel desiderio di venire reso libero, quell'insistito interrogarli sui loro doveri per salvargli la vita. Pazzo, dunque, per loro. Pazzo come un qualunque Lear che abbia abdicato. Pazzo, come pazzo sempre diventa il potente che smette (o gli vengono tolti) i paramenti del potere e che torna a parlare la lingua del volgo.
Privo di attenuanti, quindi, il giudizio su una classe politica che in nulla è mutata, nella difesa dei suoi miserrimi interessi e convenienze, da quella descritta e rappresentata oltre mezzo secolo prima ne La cina è vicina (1967).
Il Moro di Bellocchio è un Moro umano e laico, se così è lecito dire; certamente più laico dei suoi carcerieri. Un uomo non disposto a reggere quella Croce e a percorrere quel Calvario, essenza dell'essere cristiano, che neppure il Pontefice sa portare e che invece intenderebbe destinare a quell'uomo (e vecchio amico) privato d'arbitrio.
E' un Moro, se mi si permette il salto (non nel vuoto), che ha ripreso forse a sognare; attività in cui né lui, né il suo fedele Ministro degli Interni, né nessun altro degli altri sodali frequentatori degli stessi luoghi e palazzi, sono più intenti, senza neppure accorgersi del grave danno che da questo ne consegue.
Fa bei sogni è il titolo di un altro film di Bellocchio. E La bella addormentata, di un altro ancora.
Il sogno è una possibilità di salto di livello della conoscenza e della consapevolezza; il sogno per un cristiano è un possibile veicolo per arrivare all'ascolto della parola di Dio (dal mistero della Natività alla conversione di Diocleziano); il sogno ha nell'arte (nella scrittura, filmica o letteraria che sia) la materia con cui procedere alla possibile correzione degli errori della realtà.
Senza sosta l'attività autoriale di Bellocchio (quasi quaranta tra lungometraggi e docfilm in oltre cinquant'anni), fluviale diventa la scrittura di Moro in quei 55 giorni.
Solo Adriana Faranda e Eleonora Chiavarelli, tragiche Cassandre di quella terribile tragedia, paiono ancora capaci di sognare. La prima immaginando un fiume (l'amato Trebbia di Bellocchio?) invaso da cadaveri trasportati dalla corrente; presa di coscienza di quello che è accaduto e di ciò che peggio succederà negli anni successivi; la seconda trovando il suggerimento su come resistere in quei giorni e imparare intanto a medicare l'assenza del marito.
Un marito che non trova l'uscio di via Montalcini aperto come in Buongiorno, notte e neppure lo si scopre vivo in via Caetani come, per un breve istante, spera succeda, in stato di trance, l'allora ministro Cossiga.
Solo il cinema (la finzione, ovvero: la correzione di quella realtà sbagliata) può produrre quel miracolo; esattamente come -con il medesimo artifizio- Bellocchio consentirà a se stesso, in Marx può aspettare, di incrociare sul ponte di Bobbio, per un ultima volta, il proprio gemello morto suicida moltissimi anni prima.
Ed è questa la domanda che l'autore pone ai protagonisti di allora: perchè non faceste tutto quanto era in vostro potere per salvarlo. E a tutti noi chiede: esiste, può esistere una ragione di Stato (o una speculare ragione rivoluzionaria) così alta, ma talmente alta, da essere persino più alta della ragione della vita?
Non paia una domanda banale e retorica. Non lo è mai; ancora meno in questi tempi assuefatti alle carrette dei mari e ai cadaveri nella risacca; in giorni dove ritorna la guerra; in un'epoca che sembra bandire nuovamente il mai più che era stato esclamato dopo gli orrori del Novecento; in un tempo dove la violenza, il sangue, la fine diventa l'ultimo possibile tabù infranto.
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