Splendido l’esordio alla regia di Paola Cortellesi che con il suo film “C’è ancora domani” vuole rendere omaggio alla storia delle donne dell’ultimo dopoguerra, prendendo spunto dai racconti di sua nonna. La vicenda è quella di Delia (la stessa Cortellesi), una donna succube del marito, un marito violento che aveva sposato per amore e che poi si è trasformato in oppressore, in una Roma popolana fortemente maschilista. Tra gli altri, ricordo su questo stesso tema i film “Thelma e Louise” (1991) diretto da Ridley Scott e “Ti dò i miei occhi” (2003) diretto da Icíar Bollaín.
Il film è intelligente, perché propone un tema assolutamente contemporaneo ambientando la storia in un passato storicamente non molto lontano, ma culturalmente assai differente. La storia si svolge nel 1946, nel momento in cui c’è un passaggio da una concezione patriarcale della famiglia, certamente non generalizzabile ma comunque frequente, ad una dove la donna acquista un ruolo indipendente. Molto simpatico, da par suo, il contributo di Emanuela Fanelli (l’amica Marisa), a delineare una figura di donna molto più emancipata, emblematica di come Delia stessa dovrebbe cercare di essere.
I temi della condizione della donna e della violenza sulla donna sono affrontati contrapponendo il puro stile del cinema neorealista italiano (avvalorato dall’uso del bianco-nero) agli stacchi che inducono riflessioni sulle vicende rappresentate. Il più significativo di questi è il balletto che il marito Ivano (Valerio Mastandrea) e Delia eseguono nel mentre che lui la sta picchiando. Questo balletto sottolinea la complicità esistente in questo clima di violenza, dove ognuno è responsabile di quanto sta accadendo, Ivano per retaggio culturale e povertà di pensiero e Delia per rassegnazione e assenza di prospettive. Ma anche altri sono i “balletti” che si inseriscono nella vicenda: i momenti in cui si sa che Delia verrà picchiata sono scanditi da precisi rituali, Ivano si alza in piedi, tutti gli altri devono allontanarsi, si chiudono le porte e le finestre e tutto comincia. Ancora, come in una tragedia greca c’è il gruppo delle “coreute”, il capannello di donne che sferruzzano nel cortile, e che commentano ognuna a suo modo gli episodi in cui Delia viene picchiata.
Il nucleo centrale della vicenda è quello della accettazione supina da parte della donna del clima di violenza. Certamente la concezione della donna che deve essere un animale da addomesticare (questa la visione del padre di Ivano, e di Ivano stesso) contribuisce di molto allo sbilanciamento dei ruoli della coppia. Tuttavia sono i meccanismi psicologici personali che determinano alla fine la passività di Delia rispetto alla violenza. Tali meccanismi sono fondamentalmente la negazione e la razionalizzazione, quest’ultima essendo rappresentata dalla frase più volte ripetuta “Povero, lui ha fatto due guerre” (e io mi chiedo quale sia la prima delle due).
La chiave di lettura che trovo più significativa è comunque quella del rapporto tra Delia e sua figlia Marcella (splendida l’interpretazione di Rossana Maggiora Vergano). Con sguardo attonito e bloccato in una rigidità impotente Marcella guarda sua madre che accetta tutte le violenze del marito. Cogliamo la tensione presente dentro di lei mentre sbarra gli occhi, mentre è impossibilitata a reagire perché non trova un’alleanza nella madre. Non può ribellarsi lei da sola se la madre stessa rema contro. Ci rendiamo conto di quanto possa essere traumatico vivere in una famiglia dove c’è violenza tra i genitori e dove pur non subendo direttamente una violenza fisica si vive una violenza psicologica spesso altrettanto portatrice di grande sofferenza futura. Senza contare la presenza di una violenza materiale (inquadrabile come “trascuratezza”) per il fatto che il padre ha deciso che solo il figlio maschio proseguirà negli studi, mentre Marcella in quanto donna dovrà interromperli.
Allo stesso tempo Marcella, che accusa la madre di accettare le violenze cercando di negarle, non è in grado di riconoscere la violenza che incombe su di lei, violenza che in nuce trapela pur nell’atteggiamento ancora da innamorato del suo fidanzato. E allora succede che Delia non vuole riconoscere la violenza su di sé, ma la individua bene in prospettiva sulla figlia, mentre Marcella vede bene la violenza sulla madre, ma non è in grado di riconoscere quella che avverrà su di sé. E allora è Delia che deve agire.
Vi è un profonda riflessione da fare sul fatto che siamo meno capaci di guardare dentro noi stessi rispetto a quanto siamo capaci di osservare negli altri. Marcella soffre di una ovvia ingenuità adolescenziale, mentre a Delia il passato ha insegnato molto. E alla fine scopriamo che in realtà Delia riesce a difendersi con l’unico strumento che ha a disposizione, quello del nascondere e nascondersi. Nascondere i soldi per la figlia e nascondere il suo credere che “c’è ancora domani”.
Il film è intelligente, perché propone un tema assolutamente contemporaneo ambientando la storia in un passato storicamente non molto lontano, ma culturalmente assai differente. La storia si svolge nel 1946, nel momento in cui c’è un passaggio da una concezione patriarcale della famiglia, certamente non generalizzabile ma comunque frequente, ad una dove la donna acquista un ruolo indipendente. Molto simpatico, da par suo, il contributo di Emanuela Fanelli (l’amica Marisa), a delineare una figura di donna molto più emancipata, emblematica di come Delia stessa dovrebbe cercare di essere.
I temi della condizione della donna e della violenza sulla donna sono affrontati contrapponendo il puro stile del cinema neorealista italiano (avvalorato dall’uso del bianco-nero) agli stacchi che inducono riflessioni sulle vicende rappresentate. Il più significativo di questi è il balletto che il marito Ivano (Valerio Mastandrea) e Delia eseguono nel mentre che lui la sta picchiando. Questo balletto sottolinea la complicità esistente in questo clima di violenza, dove ognuno è responsabile di quanto sta accadendo, Ivano per retaggio culturale e povertà di pensiero e Delia per rassegnazione e assenza di prospettive. Ma anche altri sono i “balletti” che si inseriscono nella vicenda: i momenti in cui si sa che Delia verrà picchiata sono scanditi da precisi rituali, Ivano si alza in piedi, tutti gli altri devono allontanarsi, si chiudono le porte e le finestre e tutto comincia. Ancora, come in una tragedia greca c’è il gruppo delle “coreute”, il capannello di donne che sferruzzano nel cortile, e che commentano ognuna a suo modo gli episodi in cui Delia viene picchiata.
Il nucleo centrale della vicenda è quello della accettazione supina da parte della donna del clima di violenza. Certamente la concezione della donna che deve essere un animale da addomesticare (questa la visione del padre di Ivano, e di Ivano stesso) contribuisce di molto allo sbilanciamento dei ruoli della coppia. Tuttavia sono i meccanismi psicologici personali che determinano alla fine la passività di Delia rispetto alla violenza. Tali meccanismi sono fondamentalmente la negazione e la razionalizzazione, quest’ultima essendo rappresentata dalla frase più volte ripetuta “Povero, lui ha fatto due guerre” (e io mi chiedo quale sia la prima delle due).
La chiave di lettura che trovo più significativa è comunque quella del rapporto tra Delia e sua figlia Marcella (splendida l’interpretazione di Rossana Maggiora Vergano). Con sguardo attonito e bloccato in una rigidità impotente Marcella guarda sua madre che accetta tutte le violenze del marito. Cogliamo la tensione presente dentro di lei mentre sbarra gli occhi, mentre è impossibilitata a reagire perché non trova un’alleanza nella madre. Non può ribellarsi lei da sola se la madre stessa rema contro. Ci rendiamo conto di quanto possa essere traumatico vivere in una famiglia dove c’è violenza tra i genitori e dove pur non subendo direttamente una violenza fisica si vive una violenza psicologica spesso altrettanto portatrice di grande sofferenza futura. Senza contare la presenza di una violenza materiale (inquadrabile come “trascuratezza”) per il fatto che il padre ha deciso che solo il figlio maschio proseguirà negli studi, mentre Marcella in quanto donna dovrà interromperli.
Allo stesso tempo Marcella, che accusa la madre di accettare le violenze cercando di negarle, non è in grado di riconoscere la violenza che incombe su di lei, violenza che in nuce trapela pur nell’atteggiamento ancora da innamorato del suo fidanzato. E allora succede che Delia non vuole riconoscere la violenza su di sé, ma la individua bene in prospettiva sulla figlia, mentre Marcella vede bene la violenza sulla madre, ma non è in grado di riconoscere quella che avverrà su di sé. E allora è Delia che deve agire.
Vi è un profonda riflessione da fare sul fatto che siamo meno capaci di guardare dentro noi stessi rispetto a quanto siamo capaci di osservare negli altri. Marcella soffre di una ovvia ingenuità adolescenziale, mentre a Delia il passato ha insegnato molto. E alla fine scopriamo che in realtà Delia riesce a difendersi con l’unico strumento che ha a disposizione, quello del nascondere e nascondersi. Nascondere i soldi per la figlia e nascondere il suo credere che “c’è ancora domani”.
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