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Così fan tutti, come una immagine

3 Ott 12

Di Giuseppe-Riefolo

 

"Voglio essere poeta e lavoro a rendermi veggente"
(Rimbaud)

E’ un film sul rumore e, quindi, sul silenzio, quella esperienza dolorosa e fertile in cui mille significati possono essere possibili.Il rumore è la soluzione borderline, ovvero la impossibilità a tollerare il silenzio perché solo dal silenzio nascono le immagini e i pensieri che non conoscevamo prima: "il borderline rincorre stati mentali turbolenti" (Bollas). Il rumore è a difesa della nostra esistenza quando non c’è posto per immaginare qualcosa che evochi il senso della musica e mostri devastanti possono improvvisamente irrompere: "… credimi, quell’assassino è musicale; …. Non hai mai notato che ogni essere umano sta nel centro di una sfera celeste?. Se si muove dal suo posto si muove anche la sfera" (Musil, 341).

Nel film le parole creano solo rumore. La musica è il progetto, la competenza, la possibilità di essere visti. La scena finale parte dal concerto in cui finalmente Lolita canta e può farsi vedere; si chiude con una musica che dovrà svegliare tutti mentre dormono e, finalmente deve presentare Lolita – obesa e invisibile – oscurata dalla idealizzazione verso un padre distratto e dalla paura di andare da sola. La bicicletta finale sembra introdurre, finalmente, la capacità di andare da sola con i propri mezzi, precari, di notte verso un oggetto scoperto affettivo e, soprattutto autentico. Nel film Sébastien è il solo personaggio che ha cura della propria sfera celeste, fatta di silenzio e del buio della notte: "adesso che hai avuto il lavoro da mio padre non ti importa più di me!" Sébastien può sentirsi ferito e, senza dir nulla, esce in silenzio..

Ma perché il rumore? Perché continuamente le telefonate dei cellulari proprio quando ti stai occupando di un ragazzo che ha conosciuto la tua generosità e non ancora la tua rabbia? O quando una figlia incontra finalmente a pranzo suo padre? Gli analisti avrebbero una risposta ovvia che, fuori dal proprio contesto, potrebbe risultare banale e irritante! Ma a me piace pensare alla risposta che potrebbe dare un poeta o un musicista perché la stessa psicoanalisi, come un po’ suggeriva Bion negli ultimi interventi, può aver senso solo se si avvicina al senso della musica e della poesia: "quei versi mi giunsero attraverso la loro musica. Avevo pensato al linguaggio come a uno strumento per dire certe cose… Eppure, quando sentii quei versi (si può dire che, da allora in poi, non ho smesso di sentirli) seppi che il linguaggio poteva essere anche una musica e una passione. E’ così che mi fu rivelata la poesia" (Borges). Il rumore nasce forse perché le parole, ad un certo punto, possono perdere il loro nesso con le immagini in cui, come una sfera celeste, sin dalle origini sono state coltivate: "era sempre lo stesso colloquio irritante che si ripeteva fra loro. Nasceva dall’acustica del vuoto" (Musil, 255). A questo punto le parole hanno solo un senso di dolore e di impotenza, l’incapacità a poter gustare il silenzio: "ha fatto almeno 20 telefonate e non abbiamo mai parlato per tutto il pranzo!". Ho potuto ripensare a Roberto, ai suoi lunghi silenzi in analisi, alla fatica con cui cerco alcune volte con discrezione di sollecitarlo ad affidarsi alle immagini. Un recente sogno mi ha aiutato ad intuire che le mie sollecitazioni, per quanto discrete, sono intempestive. "ero su una sedia a rotelle e mi muovevo verso casa con i miei genitori. Mio padre diceva a mia madre che non ero handicappato, ma che semplicemente avevo solo deciso di stare su una sedia a rotelle. Io non volevo lasciare quella sedia perché avevo paura che me la rubassero!" In fin dei conti, il paziente più importante di Bion non è forse stato balbuziente?

E’ un film sulle solitudini, quelle terribili in cui la tua mente non produce immagini e quelle di cui parlava Winnicott, l’esperienza eccitante in cui puoi immaginare che un altro ti immagina. Forse è questo il senso del titolo originale del film "Comme une image", prima che del titolo italiano, forse più descrittivo. Nel film la solitudine può essere toccata nella silenziosa partecipazione che accompagna lo sguardo di Sylvia mentre osserva Edith — oramai sola — passare davanti a lei per la strada: "Ho visto Edith qualche giorno fa" "cosa ti ha detto?" "L’ho vista, ma non ci siamo parlate!" Edith cammina sul marciapiede oramai sola perché il potere e il successo di Pierre non hanno più il suo passo: "Nessuno scrittore mantiene il suo primo editore!…". In questo senso è illuminante un passo dell’intervista a Jan-Pierre Bacri: "volevamo chiamare il film I buoni motivi. C’è sempre un buon motivo per scendere a compromessi (…) ognuno di noi ha sempre un buon motivo per essere un vassallo". Anche Sébastien ha un piccolo problema. 
Il suo vero nome è Rachid, ma "farsi chiamare Sébastien gli semplifica la vita…" (Keine Bouhiza). Ho pensato agli oggettiautentici, quelli che, quando le cose vanno bene, sono l’esclusivo interesse degli psicoanalisti e dei loro pazienti e mi è tornato in mente un episodio che anni fa mi raccontò Elisa, una paziente che continuo a seguire al servizio: "all’aeroporto persi la valigia.Ero disperata perché dentro c’era tutta la mia roba. Mio padre cercò di rassicurarmi e mi disse: ‘non preoccuparti, ne compreremo un’altra!" La violenza di questa scena mi torna spesso in mente e mi serve per sentire quando i pazienti (e non solo…) vogliono comunicarmi la loro impotenza e la loro disperazione, quando cercano di descrivermi la catastrofe della solitudine ontologica: "la cassetta?!… Quale cassetta?… Ah.. non l’ho ancora sentita!" (…) "Scusami se sono uscito dal concerto all’inizio" "Sei uscito all’inizio?" "No! …No!… Sono stato al concerto all’inizio.., un po’… ma tutti mi hanno detto che sei brava!… Cercavo una penna!". Intanto il coro intona: "Tradimento… tradimento…!"

Ho pensato che nel film la musica venisse prima delle immagini e, piano piano, crescendo il rumore delle parole, ho cominciato a seguire il film come fosse la colonna visiva della musica, soprattutto la musica di Mozart, i minuetti e i valzer. 
Forse la solitudine — quella che ti fa sentire grato — è quella sensazione della musica che attende le parole e le immagini. Ho trovato poi, nell’intervista ai protagonisti, che questo era un po’ anche il progetto della regista: "Ho fatto un CD e mi sono messa a leggere la sceneggiatura ascoltandolo. Ma non è la stessa cosa; ho dovuto usare l’immaginazione. Sapevo dall’inizio dove volevo la musica…" (Agnès Jaoui). In crescendo, nel film, la sfera celeste della musica che ci accompagna emerge nelle relazioni autentiche che prendono il posto delle intrusioni e della incapacità ad ascoltare. L’autenticità è nei gesti semplici: Lolita che mette la sua giacca sul corpo di Sébastien che giace ubriaco per terra; gli scambi fra Lolita e Sébastien che spesso il codice del potere impedisce a Lolita di cogliere nella loro autenticità e – durante tutto il film – la semplicità della musica: "una delle sfide più grandi del film è stata provare a ricreare l’emozione che si sente ascoltando la musica dal vivo" (Agnès Jaoui). Alla fine la musica ridiventa colonna sonora della storia ed avevo la sensazione che il canto potesse commentare gli eventi "mi ero sentita persa fra di loro…. vorrei ritrovare il mio amore.." canta Lolita, quando il padre non l’ascolta più e la musica sembra avere lo stesso passo della sua rincorsa notturna in bicicletta, verso Sébastien.

"Non si può tradurre in atto la musica. Perché? Non lo so; ma è così" (Musil, 342).

* pubblicato anche su www.istitutoricci.it

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