Il film “Disconnect “di Henry Alex Rubin è un viaggio sull’onda del paradosso e dentro alla sommersa solitudine dell’uomo.
I personaggi del film sono tutti “collegati” , anzi “overconnected” con tutti, in un mondo fatto di “reti”informatiche, tablet, social network, smartphone, computer.
La rete accorcia le distanze delle relazioni , sposta in avanti i nostri confini.
L’altro sembra lì , a portata di mano, tangibile, vicinissimo, disponibilissimo, facendoci sentire immediatamente artefici del contatto.
Un contatto virtuale, che fa entrare in uno spazio così facilmente idealizzabile, che alimenta fantasie infantili di onnipotenza : tutto è lì a portata di mano, inghiottiti e fagocitati dal profondo bisogno di non sentirsi soli e finalmente esser “visibili “agli occhi degli altri.
Agli occhi che le persone che ci vivono accanto non ci vedono più , occhi che guardano e non vedono, non entrano più ad esplorare il dentro, cosa si sente, cosa si prova.
Nessuno chiede più come stai, né i padri ai figli, né i mariti alle mogli né le mogli ai mariti, e ognuno rimane “solo” col proprio dolore, con la propria infelicità, con il proprio lutto, con la propria tristezza.
Nel film si respira un vento gelido, il vento dell’indifferenza, della mancanza di un “contatto caldo “e di una comprensione reale.
I personaggi del film non sembrano aver avuto nessun posto dove mettere il dolore se non in loro stessi. Sommersi dalla disperazione silenziosa , c’è chi lavora in eccesso e non sa godere delle vere relazioni umane, c’è chi si rifugia nelle proprie fantasie, chi usa il corpo come veicolo di eccitazione in relazioni virtuali con una spinta molto più intensa che non vivere il contatto con persone reali, c’è chi entra nella eccitante perversione del sadismo camuffato dall’ilarità e dal gioco.
La trama , raccontata nello stile documentarista del regista è un mosaico di vicende profondamente drammatiche e tragiche dove i personaggi sono tra loro sconosciuti nella vita reale, ma le loro storie si intrecciano nella via del virtuale.
Le vite disconnesse dei protagonisti sono paradossalmente connesse nella rete.
Laddove non si parla più, non ci si guarda più negli occhi, non si ha più il tempo dell’ascolto, dove l’indifferenza, il vuoto di emozioni , il silenzio e l’incapacità di vicinanza emotiva dentro alle relazioni coniugali, genitoriali, professionali, lascia soli , ha il sopravvento l’”oggetto” .
L’oggetto inanimato si anima per prendere il posto delle relazioni umane.
L’incertezza dei piaceri derivanti dai rapporti reali lascia allora ampio spazio per fantasie, talvolta eccitanti, talvolta perverse, talvolta drammatiche , tutte comunque dentro ad un mondo segreto e solitario.
L’oggetto diventa allora sovrano indiscusso, assoluto, il “contenitore” del dolore , del disagio, dei drammi, del vuoto esistenziale .
Nel film la risposta a tutto ciò è tragica, perché forse tragica è la consapevolezza che sono i rapporti umani ad esser “dis-collegati”.
La vita reale “offline” si contrappone alla vita virtuale “on-line” a riempire di emozioni e atmosfere che non appartengono loro.
Eppure in ognuno dei personaggi del film emerge la disperata ed inconscia ricerca di contatti umani.
Si susseguono le vicende e le storie familiari di una coppia in crisi , che la morte non elaborata di un figlio ha estraniato , dove il dolore lacerante del lutto allontana distruggendo la capacità di soffrire insieme.
Ognuno cerca sollievo in una sorta di difesa ipomaniacale dalla sofferenza in contatti eccitanti, che corrono sul filo del rischio e della pericolosità.
Ma l’urgenza di trovare un “contenitore” trascende altre valutazioni razionali.
Sarà un detective informatico ( ex-poliziotto frustrato per dover assolvere da solo ad un ruolo genitoriale che si trova improvvisamente ad assumere) ad aiutare la coppia in crisi. Il detective è al contempo padre di un ragazzino che vive in solitudine i propri conflitti adolescenziali e che sadicamente è l’artefice di un atto di bullismo in rete nei confronti di un tenero adolescente , alle prese con i propri problemi di identità , solitudine, e depressione che vive in una famiglia con un padre, avvocato ,immerso nel proprio lavoro e nel proprio cellulare , inconsapevolmente assente dalla vita dei propri figli.
C’è poi la storia di un giovane ragazzo solo, che si esibisce su siti per soli adulti in una full immersion eccitante dove l’ipersessualizzazione masturbatoria e solitaria , sostituisce il contatto umano vero , e che una giornalista in carriera usa per i propri scoop giornalistici insensibile al dolore che arreca con il suo contatto empatico che inizia ad incrinare la corazza “corporea” del ragazzo.
Le storie si intrecciano, il dolore e il disagio della solitudine non emerge immediatamente nelle sensazioni dello spettatore , oramai assuefatto alla normalità di ciò che vede narrare , perché simile alla realtà di tutti i giorni, dove i personaggi del film e gli spettatori del film esercitano e subiscono la violenza della rete in un modo o nell’altro.
La rete “accomuna” , ingloba, spinge dentro un mondo nuovo, senza filtri, dove più facilmente si crea una confusione tra realtà virtuale e realtà psichica , all’interno della quale il rischio di diffusione dell’identità è altissimo e dove lo stato mentale di “identificazione narcisistica” e l’eccitazione con perdita dei confini personali offre una ubriacante e onnipotente confusione tra realtà e fantasia.
L’epilogo è nel suicidio del ragazzino , timido, solitario, sensibile, alle prese con le proprie fragilità che ha il desiderio di esser speciale per qualcuno e che viene improvvisamente sommerso e soffocato da quella realtà che fino a poco prima sembrava fosse arrivata ad illuminare la sua triste vita, ma che ora diventa soffocante come un nodo in gola, come il nodo che lui stesso farà impiccandosi.
Deve arrivare forte la” rottura “ perchè si ristabilisca la visione del mondo, affinchè si aprano gli occhi dei grandi e dei ragazzi .
La violenza del gesto forse rimanda alla violenza della potenza della rete , in sintonia con la prepotente ricerca di contatto interpersonale inascoltato, tragicamente inascoltato , proprio laddove le relazioni e i legami sono spesso più forti :la famiglia.
In questo gioco di proiezioni e identificazioni possiamo cercare di dare voce al sommerso , profondamente sommerso, senso di solitudine , espressione per alcuni del lutto , per altri di vissuti depressivi , per altri ancora di precoci deprivazioni.
La rottura che nel film squarcia l’indifferenza soporifera e mortifera sembra funzionare come un esame di realtà per chi sommerso dal dolore impensabile del lutto, temporaneamente incapace di amare, trova la spinta per riprendere a vivere .
Scrive S.Freud in Lutto e Melanconia del 1917: “ …un ritiro della libido dall’oggetto che adesso non c’è più e uno spostamento di essa su di un nuovo oggetto, o sulla vita stessa…”. Solo così l’Io potrà liberare la sua libido dall’oggetto perduto.
Il verdetto della realtà mostra che l’oggetto non esiste più . E solo lasciando andare l’oggetto si lascia andare il dolore .
Solo allora il rimuginare sulla propria infelicità e perdita attiva il rinnovato desiderio di vivere . Vivere all’interno di una ritrovata vera relazione umana.
La rottura però nel film è portavoce anche di un altro stato mentale , dove il senso di colpa soffocante, l’autocritica , la diminuizione dell’autostima e la disperazione inducono un tormento che infligge un incommensurabile dolore mentale che conduce a qualcosa di molto vicino allo stato così ben descritto da Betty Joseph di “assuefazione alla quasi morte” .
I personaggi del film sono tutti “collegati” , anzi “overconnected” con tutti, in un mondo fatto di “reti”informatiche, tablet, social network, smartphone, computer.
La rete accorcia le distanze delle relazioni , sposta in avanti i nostri confini.
L’altro sembra lì , a portata di mano, tangibile, vicinissimo, disponibilissimo, facendoci sentire immediatamente artefici del contatto.
Un contatto virtuale, che fa entrare in uno spazio così facilmente idealizzabile, che alimenta fantasie infantili di onnipotenza : tutto è lì a portata di mano, inghiottiti e fagocitati dal profondo bisogno di non sentirsi soli e finalmente esser “visibili “agli occhi degli altri.
Agli occhi che le persone che ci vivono accanto non ci vedono più , occhi che guardano e non vedono, non entrano più ad esplorare il dentro, cosa si sente, cosa si prova.
Nessuno chiede più come stai, né i padri ai figli, né i mariti alle mogli né le mogli ai mariti, e ognuno rimane “solo” col proprio dolore, con la propria infelicità, con il proprio lutto, con la propria tristezza.
Nel film si respira un vento gelido, il vento dell’indifferenza, della mancanza di un “contatto caldo “e di una comprensione reale.
I personaggi del film non sembrano aver avuto nessun posto dove mettere il dolore se non in loro stessi. Sommersi dalla disperazione silenziosa , c’è chi lavora in eccesso e non sa godere delle vere relazioni umane, c’è chi si rifugia nelle proprie fantasie, chi usa il corpo come veicolo di eccitazione in relazioni virtuali con una spinta molto più intensa che non vivere il contatto con persone reali, c’è chi entra nella eccitante perversione del sadismo camuffato dall’ilarità e dal gioco.
La trama , raccontata nello stile documentarista del regista è un mosaico di vicende profondamente drammatiche e tragiche dove i personaggi sono tra loro sconosciuti nella vita reale, ma le loro storie si intrecciano nella via del virtuale.
Le vite disconnesse dei protagonisti sono paradossalmente connesse nella rete.
Laddove non si parla più, non ci si guarda più negli occhi, non si ha più il tempo dell’ascolto, dove l’indifferenza, il vuoto di emozioni , il silenzio e l’incapacità di vicinanza emotiva dentro alle relazioni coniugali, genitoriali, professionali, lascia soli , ha il sopravvento l’”oggetto” .
L’oggetto inanimato si anima per prendere il posto delle relazioni umane.
L’incertezza dei piaceri derivanti dai rapporti reali lascia allora ampio spazio per fantasie, talvolta eccitanti, talvolta perverse, talvolta drammatiche , tutte comunque dentro ad un mondo segreto e solitario.
L’oggetto diventa allora sovrano indiscusso, assoluto, il “contenitore” del dolore , del disagio, dei drammi, del vuoto esistenziale .
Nel film la risposta a tutto ciò è tragica, perché forse tragica è la consapevolezza che sono i rapporti umani ad esser “dis-collegati”.
La vita reale “offline” si contrappone alla vita virtuale “on-line” a riempire di emozioni e atmosfere che non appartengono loro.
Eppure in ognuno dei personaggi del film emerge la disperata ed inconscia ricerca di contatti umani.
Si susseguono le vicende e le storie familiari di una coppia in crisi , che la morte non elaborata di un figlio ha estraniato , dove il dolore lacerante del lutto allontana distruggendo la capacità di soffrire insieme.
Ognuno cerca sollievo in una sorta di difesa ipomaniacale dalla sofferenza in contatti eccitanti, che corrono sul filo del rischio e della pericolosità.
Ma l’urgenza di trovare un “contenitore” trascende altre valutazioni razionali.
Sarà un detective informatico ( ex-poliziotto frustrato per dover assolvere da solo ad un ruolo genitoriale che si trova improvvisamente ad assumere) ad aiutare la coppia in crisi. Il detective è al contempo padre di un ragazzino che vive in solitudine i propri conflitti adolescenziali e che sadicamente è l’artefice di un atto di bullismo in rete nei confronti di un tenero adolescente , alle prese con i propri problemi di identità , solitudine, e depressione che vive in una famiglia con un padre, avvocato ,immerso nel proprio lavoro e nel proprio cellulare , inconsapevolmente assente dalla vita dei propri figli.
C’è poi la storia di un giovane ragazzo solo, che si esibisce su siti per soli adulti in una full immersion eccitante dove l’ipersessualizzazione masturbatoria e solitaria , sostituisce il contatto umano vero , e che una giornalista in carriera usa per i propri scoop giornalistici insensibile al dolore che arreca con il suo contatto empatico che inizia ad incrinare la corazza “corporea” del ragazzo.
Le storie si intrecciano, il dolore e il disagio della solitudine non emerge immediatamente nelle sensazioni dello spettatore , oramai assuefatto alla normalità di ciò che vede narrare , perché simile alla realtà di tutti i giorni, dove i personaggi del film e gli spettatori del film esercitano e subiscono la violenza della rete in un modo o nell’altro.
La rete “accomuna” , ingloba, spinge dentro un mondo nuovo, senza filtri, dove più facilmente si crea una confusione tra realtà virtuale e realtà psichica , all’interno della quale il rischio di diffusione dell’identità è altissimo e dove lo stato mentale di “identificazione narcisistica” e l’eccitazione con perdita dei confini personali offre una ubriacante e onnipotente confusione tra realtà e fantasia.
L’epilogo è nel suicidio del ragazzino , timido, solitario, sensibile, alle prese con le proprie fragilità che ha il desiderio di esser speciale per qualcuno e che viene improvvisamente sommerso e soffocato da quella realtà che fino a poco prima sembrava fosse arrivata ad illuminare la sua triste vita, ma che ora diventa soffocante come un nodo in gola, come il nodo che lui stesso farà impiccandosi.
Deve arrivare forte la” rottura “ perchè si ristabilisca la visione del mondo, affinchè si aprano gli occhi dei grandi e dei ragazzi .
La violenza del gesto forse rimanda alla violenza della potenza della rete , in sintonia con la prepotente ricerca di contatto interpersonale inascoltato, tragicamente inascoltato , proprio laddove le relazioni e i legami sono spesso più forti :la famiglia.
In questo gioco di proiezioni e identificazioni possiamo cercare di dare voce al sommerso , profondamente sommerso, senso di solitudine , espressione per alcuni del lutto , per altri di vissuti depressivi , per altri ancora di precoci deprivazioni.
La rottura che nel film squarcia l’indifferenza soporifera e mortifera sembra funzionare come un esame di realtà per chi sommerso dal dolore impensabile del lutto, temporaneamente incapace di amare, trova la spinta per riprendere a vivere .
Scrive S.Freud in Lutto e Melanconia del 1917: “ …un ritiro della libido dall’oggetto che adesso non c’è più e uno spostamento di essa su di un nuovo oggetto, o sulla vita stessa…”. Solo così l’Io potrà liberare la sua libido dall’oggetto perduto.
Il verdetto della realtà mostra che l’oggetto non esiste più . E solo lasciando andare l’oggetto si lascia andare il dolore .
Solo allora il rimuginare sulla propria infelicità e perdita attiva il rinnovato desiderio di vivere . Vivere all’interno di una ritrovata vera relazione umana.
La rottura però nel film è portavoce anche di un altro stato mentale , dove il senso di colpa soffocante, l’autocritica , la diminuizione dell’autostima e la disperazione inducono un tormento che infligge un incommensurabile dolore mentale che conduce a qualcosa di molto vicino allo stato così ben descritto da Betty Joseph di “assuefazione alla quasi morte” .
Qui questo stato porterà ad una tragica e masochistica scelta di morte fisica, che forse si sarebbe potuta evitare se le fantasie autodistruttive non fossero state vissute in solitudine.
Perché come afferma Bion l’esistenza di una “ funzione Alfa”, cioè una funzione della mente che rende i pensieri “pensabili” , fa si che i pensieri si possano digerire, elaborare e dare spazio ad altri pensieri.
Solo così la vita psichica vive. E la vita psichica che vive permette la vita.
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