La redazione di POL.it intervista Marco Bellocchio sul suo nuovo film, unico italiano selezionato a Cannes quest'anno. Il film ha ricevuto moltissime recensioni e commenti dalla stampa e sta raccogliendo un notevole successo di pubblico. Su POL.it è stata già pubblicata una recensione del film e si è aperta una discussione alla quale questa intervista vuole dare un ulteriore contributo.
DA "LA BALIA" A "L'ORA DI RELIGIONE". L'IDEA CENTRALE DEL FILM
D. Dopo l'intervista su: "La Balia" mi trovo a chiederti di questo nuovo film: "L'ora di religione ovvero Il sorriso di mia madre". La prima domanda è suggerita da un confronto tre queste due opere: "La balia", dall'impianto narrativo classico e dai toni improntati a una certa cupezza (se ricordi, parlavamo di pessimismo), "L'ora…", che è un film completamente diverso, per la libertà di espressione e per la leggerezza che lo caratterizzano. Puoi parlarci dell'evoluzione personale e artistica che ti ha portato a un cambiamento di stile così felice in un così breve tempo?
R. Il cambiamento di stile, credo, e il tocco, la leggerezza pur su dei temi così…universalmente sentiti, deriva proprio dalla storia stessa. E' stata una cosa spontanea: è il corpo della storia che mi ha suggerito questo stile.
Su "La balia", da una parte c'era la presenza – sia pur tradita – di un grande padre, di Pirandello, che in qualche modo mi condizionava, dall'altra, forse, il fatto di entrare in una trappola di tipo ideologico: nel momento in cui uno cerca di distanziarsi e di rendersi autonomo rispetto al padre, contrappone delle ideologie che in qualche modo fanno soffrire il film, gli fanno perdere spontaneità e quindi lo imprigionano in una classicità che diventa un limite.
Devo aggiungere che il cinema è un mestiere molto pragmatico, in cui certe scelte all'origine determinano poi le immagini. Faccio un esempio: in questo film la scelta degli attori, per come essi sono, per come parlano, per come guardano, penso che abbia potenziato questa leggerezza, che è una qualità del film: è un procedere sempre realistico e continuamente sconfinante in una zona che realistica non è, ma che non è neanche surreale. Questo, evidentemente, me lo ha permesso la qualità del rapporto, prima di tutto con il protagonista. A me non interessa che la pensi come me – gli uomini, si sa, sono complessi – lui decisamente non ha le mie idee, probabilmente non è così convinto di una posizione laica e atea, però quello che conta è il rapporto. Non solo con lui, ma anche con tutta una serie di altri personaggi su cui mi sono mosso con più libertà, e di qui poi il risultato.
D. La seconda domanda, che si collega a quanto stai dicendo, riguarda l'idea centrale del film: quella di una madre che si vuole inopinatamente santificare. A sentirne parlare, prima di vedere il film realizzato intendo, poteva sembrare un azzardo, una cosa bizzarra, invece a vedere cosa n'è venuto fuori l'idea risulta geniale: una sorta di metafora che parte dal piano intimo e acquista via via una grande capacità di impatto sociale, culturale. Puoi dirci com'è nata?
R. Beh, nasce da un'intuizione, da un'immagine, dal ribaltamento di un'icona. E' come se si realizzasse la cosa più improbabile, più assurda più lontana. E' come quando vedi un personaggio che hai sempre visto in un certo modo e improvvisamente scopri che potresti rappresentarlo in modo opposto.
Naturalmente questa intuizione, delle cui origini non mi sono neanche preoccupato più di tanto, è nata da un clima. In questo senso è molto importante dire che l'artista in fondo reagisce a ciò che avviene: il clima è quello del Papa, del giubileo, della moltiplicazione dei santi, del fatto che in questi anni è scomparso un certo tipo di autonomia laica, non dico di dignità ma di autonomia; un pensiero autonomo non è più formulabile, perché sembra una cosa un po' da pazzi dire: "La mia vita io me la tengo qui, sulla terra, nei rapporti umani", quasi che tutti volessero riservarsi uno spazio di paradiso.
E' stato questo clima, in cui la grande utopia socialista di cambiare il mondo si è dissolta dando spazio a un altro tipo di autorità: quella vaticana, quella religiosa, che è maturata questa ribellione, questa forma di contrapposizione.
Poi, probabilmente hai ragione tu. Quando ti viene in mente un'idea, se scrivi hai un riscontro nella pagina – anche se poi il riscontro più importante è sempre di chi legge e ti dice quello che ne pensa – al cinema, invece, prima di arrivare a un risultato devi arrivare alla copia -campione. La sceneggiatura, infatti, per quanto apprezzata da alcuni collaboratori importanti – lo stesso Castellitto lo ha detto – non consentiva di capire subito tutto. Loro si sono fidati, evidentemente cogliendo una mia convinzione, ma l'efficacia, direi lo stupore, la curiosità, forse anche la novità di questa invenzione assurda me la dici tu appunto, è lo spettatore che la rileva.
DALLA RIVOLTA DE "I PUGNI IN TASCA" ALL'ATEISMO DI ERNESTO PICCIAFUOCO
D. Il protagonista si ribella a questa situazione e la sua ribellione assume una certa forma. Arriviamo così a un tema controverso tra i vari commentatori del film: la ribellione.
C'è chi, salutando un tuo "ritorno all'impegno sociale", fa risalire l'elemento della ribellione a una tua storia personale e politica, che parte dal '68 e dintorni, con la quale "L'ora…" presenterebbe una continuità, c'è invece chi evidenzia la radicale diversità di quest'opera e sottolinea una rottura e una trasformazione rispetto a: "I pugni in tasca" (cfr. Di Stefano, che, in un acuto articolo sul Corriere, definisce il Bellocchio de: "L'ora.." come l'anti-Moretti e l'anti-Bellocchio con i pugni in tasca).
Si può andare un po' più a fondo su questo punto, al di là degli elementi più evidenti della trama e dei suoi significati simbolici?
R. E' sostanzialmente vero che quel tipo di ribellione, che ha poi la sua rappresentazione nel fratello pazzo, matricida, chiuso in clinica, è radicalmente diversa rispetto al ribelle non violento che è il nostro Castellitto.
Ma, al di là di questa affermazione, la bellezza di una trasformazione la percepisci nel fatto che le tue immagini, quelle che ti si affollano alla mente, sono diverse da quelle altre. Non saprei dire come, non voglio esprimere giudizi: sono diverse e basta. Forse il segno, ancor più interessante e che ha determinato una qualità, è che questa diversità porta a una maggiore libertà. La parola libertà può essere anche molto astratta, però è un fatto che io in questo film ho preso dei rischi. L'ho fatto in modo abbastanza naturale, non come gli eroi che si concentrano prima della battaglia, no, però ho capito dopo che le novità che avvenivano erano all'insegna della libertà: non di un'affermazione volontaristica di libertà, ma di una libertà intrinseca.
Quella soluzione delittuosa, matricida, come centralità di un dramma non mi viene più in mente, ma rimane uno spirito di ribellione nel personaggio protagonista, una capacità di reagire, sia nel senso del coinvolgimento nel rapporto con una donna, sia nel senso del rifiuto, che rappresenta una nuova forma di ribellione. In questo senso lui è assolutamente un non riconciliato. Non è che rifiuta perché gli viene voglia ma poi non lo fa, ma proprio non gli viene neanche in mente, per esempio, di strozzare la moglie, no, se ne vuole andare, se ne va. Ecco, questa è la novità.
D. Si vede anche da come tu ti muovi nel film: tua la sceneggiatura, mostri i tuoi i quadri, reciti anche, c'è una dimensione di gioco…
R. Si, si, di gioco.
R. Ma adesso, in particolare, insisterei sulla scelta del tema religioso.
Ho trovato accettabile che tu rivendicassi (forse per evitare polemiche banali), che il film è più un film sull'ipocrisia sociale che sulla religione, ma, è un fatto, il protagonista si definisce coerentemente "ateo" ed è questo a renderlo diverso da tutti gli altri personaggi.
Su questo vorrei sollecitare un discorso sulla "sinistra", prendendo spunto da una lettera ad Augias apparsa su "La Repubblica", dove giustamente si dice, in sintesi: "Ma perchè la sinistra si ostina a vedere un sentimento religioso in un film dichiaratamente ateo?". Anche rispetto al '68 di cui parlavamo prima…
Il '68 che conosco è sempre stato un po' evasivo sulla questione religiosa, per non dire che aveva precise radici cattoliche, e anche la sinistra storica è stata incline a compromessi: magari non si andava a messa, però, in punto di morte, si faceva l'estrema unzione. Poi, volendo spostare il discorso su un piano più profondo, si potrebbe dire che la sinistra storica si è limitata a un anticlericalismo formale, senza affrontare radicalmente la questione religiosa…
R. La "sinistra" – parlo sempre da uomo della strada – non si capisce più tanto dove va, dove comincia, dove finisce, però, certamente, la dimensione del non credere nell'Aldilà non credo che possa essere sostenuta dalla sinistra di oggi, assolutamente no. Devo rilevare che da quella parte ho avuto reazioni di generosità e di comprensione di cose piuttosto profonde, ma la cosa più rilevante, verificata nei molti incontri con il pubblico, è lo stupore. Questo film determina uno stupore. Tanti giovani dicono: " è vero, a questa cosa non solo non avevo mai pensato, ma è proprio che nessuno me l'aveva mai posta, non mi si poneva questa contrapposizione". L'aspetto che nella chiesa cattolica ci siano dei disonesti, magari un po' pedofili, è più usuale – non è che non sia un aspetto importante – ma non è l'aspetto centrale del film. L'aspetto centrale è quello che lui dice al cardinale con parole semplici: "La forma di ateismo che posso affermare contro di lei, di fronte a lei, è proprio la bellezza di innamorarmi di una donna, non solo dell'assistenza ai poveretti". Il suo ateismo si rappresenta proprio nella ricchezza e nella potenza, cioè nella sua vitalità di saper reagire alla bellezza di una donna, a differenza della sua famiglia, dei suoi fratelli, che non hanno più questa vitalità, che sono tutti ripiegati su sé stessi e devono fare dei compromessi per sopravvivere: lo dice il medico, lo dice il direttore di banca. Questo è un aspetto, e l'altro aspetto, che si combina al primo e che è stato un po' trascurato, è proprio la forza e la determinazione di lui a separarsi dall'identificazione con la madre, intesa anche questa come fantasma religioso. Quindi ci sono delle forme di comportamento e delle scelte che vanno più profondamente nella direzione che si diceva.
PSICHIATRIA E MADRI VIOLENTE. L'OPPOSTO DELLA MADRE VIOLENTA: L'IMMAGINE FEMMINILE
D. Anche in questo film non mancano riferimenti impliciti ed espliciti alla psichiatria. Esplicitamente c'è un fratello psichiatra che è fallito e, come lui stesso dice, ha scelto di passare il resto della vita con altri falliti. La follia come fallimento potremmo dire?
Poi c'è un altro riferimento, ma magari ce l'ho voluto vedere io.
Uscendo dal cinema mi chiedevo:- Chi è questa madre apparente vittima del fratello psicotico che viene santificata ? — Mi pare venga detto che in realtà è stata lei a uccidere lui: lo avrebbe ucciso "perché non pretendeva niente da lui". Mi è sembrata un'allusione alla storia, alla società. Mi sono chiesta – e questa sarebbe la mia associazione peregrina -: ci può essere un riferimento a Basaglia? Tu facesti anche i…matti da slegare…ma è passato tanto tempo, c'è stato modo di rivedere tante cose, per molti, ma per alcuni Basaglia rimane ancora oggi un … santo.
R. Il discorso sulla psichiatria. Certamente il fratello psichiatra, reintegrato, con un atteggiamento di profondissima depressione e quindi con una incapacità di guarire le persone, in grado semplicemente di assisterle e di assistere sé stesso, è proprio la rappresentazione di un ribelle fallito del '68. Lo dice: – io sto bene insieme a loro perché sono tutti falliti -. Possiamo dire, cercando di essere diplomatici ma anche realisti, che anche lui è la rappresentazione del fatto che il grande sogno antipsichiatrico si è dimostrato sbagliato. Si può anche essere d'accordo con i basagliani che dicono che molte cose sono riuscite – questo è anche vero -, ma il grande sogno di Basaglia – per cui lui faceva quella famosa battuta: "chi non ha non è"- , di risolvere la pazzia risolvendo lo sfruttamento economico, la miseria, l'emarginazione, era sbagliato perché le radici della malattia mentale risiedono altrove.
Se poi la madre santa sia comparabile a Basaglia, a questo non avevo pensato. Certamente il film si concentra tutto sul secondo titolo, su quanto possa essere catastrofico e distruttivo il sorriso falso e sciocco di una madre che in realtà non dà al proprio figlio neonato niente se non il latte materiale, niente più. Poi le casistiche sono infinite, le varianti sono infinite, però il protagonista ha colto questo invisibile e sottilissimo possibile assassinio.
D. Che ritorna nella moglie…
R: Si, nella moglie, in modo direi molto aggressivo e violento.
D.Fatto salvo che queste madri non sono propriamente figure femminili, una domanda finale su quella che mi sembra l'unica figura femminile del film: la "maestra di religione".
Questa intervista è frutto di un confronto con altri colleghi nella redazione di POL.it, e le domande che ti ho posto fino a questo momento sono un riassunto delle varie questioni che si sono poste come reazione al film. Su questo personaggio, però, i pareri divergono in modo particolare. E' una figura misteriosa, per qualcuno, io non sono d'accordo, addirittura un'allucinazione.
Inoltre, molti si chiedono del perchè del riferimento alla Gradiva… nel tuo caso penso che il riferimento sia al racconto di W.Jensen e non al saggio di Freud.
R. Devo dire subito che è curioso questo discorso che quando si dice Gradiva, automaticamente, si pensa a Freud e non al povero autore del racconto. Invece è l'autore del racconto che mi ha sempre affascinato. Confesso, forse non dovrei dirlo, ma il saggio di Freud non l'ho neanche letto.
L'episodio di Gradiva non era nella sceneggiatura, io però sentivo che, avendo scelto questa ragazza che entra in rapporto di lui, si poteva in qualche modo introdurre questa immagine. Nel senso che lui si era fissato, nella sua opera d'arte, di far sparire la bruttezza marmorea del Vittoriano e al tempo stesso di sostituirla con un'immagine femminile a cui stava pensando. Quell'immagine femminile è rappresentata da una donna ben in carne ed ossa – che in fondo potrebbe anche essere che faccia parte del complotto, ma questo non è importante — che io in realtà ho sempre immaginato come una ragazza desiderosa di conoscere un artista, che fa anche lei la pittrice e che quindi ha voglia di fargli vedere i suoi quadri. Poi nasce, nel piccolo delle poche ore, anche un rapporto, che potrà andare in un senso o nell'altro, questo non importa. Il discorso dell'allucinazione – sì è una parola che ho sentito e che naturalmente mi ha colpito – non so, però per me questa donna è ben presente, è reale. Un sacerdote cattolico, più raffinato, aveva parlato di "Grazia", come se fosse la rappresentazione della Grazia, "che entra ed esce" – perché lui lascia aperta la porta, e in effetti lei entra ed esce -. Questa osservazione, devo dire…mentre l'allucinazione non c'entra niente…la Grazia non c'entra niente lo stesso, però, come sempre quando uno fa un'osservazione che mi colpisce per la finezza con cui vuole portare il film al proprio campo, mi ha stupito pur non condividendola.
Allucinazione non direi. In realtà c'è un gioco artistico che corrisponde a degli stati d'animo, a dei sentimenti. Il fatto che lui entra la prima volta e lei è presente e lui non la vede è la rappresentazione di come lui è dentro, però lei è pur sempre una bella ragazza viva e reale. Poi quando lui ritorna…forse un pochino – perché lui è un personaggio sano e direi normale -… quando lui ritorna da quella zia che lo ha aggredito, è un po' stanco e vede, scopre questi quadri…Lui non vede lei, anche perché il fratello lo disturba con la telefonata, e quindi passa accanto a lei… però è già proiettato verso quella prova terribile che culminerà nella bestemmia e nell'abbraccio al fratello, per cui non la vede…
NUOVI PROGETTI: IL FILM SU MORO
D. A Cannes hai annunciato un prossimo film su Moro.
R. Ho già fatto un primo abbozzo, però adesso devo cominciare a pensare a una sceneggiatura tecnicamente più elaborata, che possa in pratica diventare un film. Ma c'è in me, nel 2002, da una parte l'interesse per questa vicenda, fortissimo, ma anche la necessità di tradirla, nel senso di non subirla. Quello che è stato sempre subito, che è stato sempre detto a proposito di Moro: "colui che doveva morire, una specie di Gesù Cristo sacrificato alla ragion di stato"… per me non è accettabile. Non so, vorrei elaborare un film molto libero, che contesta l'inesorabilità di quella fine.
Questo film, il film su Moro, per me ha un senso non tanto se scopre dei segreti – che ci possono anche essere, ma che a me non interessano – del genere: i complotti, la P2, i servizi segreti americani, il fatto che doveva morire perché aveva aperto ai comunisti eccetera. Sono cose che possono anche essere interessanti, per un libro di storia, o forse anche per un altro regista, ma che a me non interessano. A me interessa un'invenzione in cui, pur afferrando il passato, non posso negare quello che io sono adesso, quello che mi interessa adesso.
D. Tu hai intervistato alcuni personaggi coinvolti nel sequestro Moro, fu per una produzione RAI sul terrorismo, se ben ricordo.
R. Avevo intervistato Fenzi, che non era direttamente coinvolto, e che però fino alla fine, fino all'arresto, lavorava molto con Moretti: furono arrestati insieme. Avevo anche intervistato la Braghetti; la sua intervista non era nel film RAI, poi, a dire il vero, ho letto il suo libro: "Il prigioniero", in cui lei fa un racconto di quello che ricorda dei cinquantacinque giorni in Via Montalcini. Quello, al livello di base drammaturgica, mi interessa molto: pensando a questi, che si comportano in un certo modo…Naturalmente, da un certo punto in poi, è come se il presente rispetto al passato, l'oggi rispetto ad allora, in qualche modo intervenissero per spezzare l'inesorabilità di quella vicenda. Però, per adesso non dico altro.
0 commenti