Chi ha ucciso la ragazza del lago?
Il corpo nudo della giovane e bella Anna viene trovato da Mario, il ‘matto’ del paese, accomodato in una posa quasi gentile, quasi a far trapelare che "chi l’ha uccisa le voleva bene", dice il commissario Giovanni Sanzio (Toni Servillo).
Forse quelli che ci uccidono sono sempre quelli che ci amano. Forse dobbiamo scartare, quando parliamo di omicidio, la categoria dell’indifferenza, non quella dell’odio, e l’odio va spesso insieme all’amore.
L’intuito maigrettiano del commissario Sanzio, il suo saper guardare oltre l’apparenza ignara delle cose, oltre la poverta’ dei linguaggi delle valli friulane dove il film e’ efficacemente ambientato, lo portera’ a risolvere il caso, un delitto dei tanti, inquietanti, che oggi occupano le nostre cronache, i nostri dibattiti di ‘esperti’ e le nostre fantasie.
Tratto dal romanzo della norvegiese Karin Fossum (altre montagne, altre solitudini), La ragazza del lago e’ un intelligente viaggio metaforico, ma non intellettualistico, nei territori della follia e dell’odio familiare: ogni nucleo familiare della storia (tutte famiglie monoparentali, dove la coppia si e’ spezzata) ha avuto a che fare con la follia, con la diversita’. La moglie del commissario e’ ospitata in clinica per una sorta di ottocentesca dimenticanza isterica — che nel film prende il nome di malattia ‘degenerativa’- che copre tutti i legami del passato, compreso marito e figlia; Mario il matto, che per primo ha visto il cadavere lo ha attribuito al maleficio del serpente, vive con un padre parallitico e astioso che lo ha odiato fin da piccolo: la bella Anna, la ragazza del lago, era baby-sitter di un cosiddetto bambino difficile, di quelli che piangono di continuo, sputano il latte, sputano le medicine, e diventano presenze persecutorie per i loro genitori.
Intorno alla vicenda, appunto, del piccolo Angelo, della sua improvvisa morte qualche anno prima per soffocamento, il commissario Sanzio intuisce (lui che con la follia nella famiglia ha a che fare da tempo, e la sopporta compostamente), che li’, da li’, si snoda la verita’ della morte della ragazza del lago. I figli vengono continuamente uccisi, nel film. Anna dallo sguardo incestuoso del padre, che la segue con la telecamera ignorando del tutto l’altra figlia in quanto ‘non sua’, figliastra; il piccolo Angelo dai suoi inteliigenti, ma esasperati genitori; Mario il matto dalla crudelta’ del padre; la giovane figlia del commissario dall’amnesia della madre, che avvolta in un tutelante oblio vive pacifica il suo nuovo amore. E’ lo sguardo di Sanzio, uomo del sud, diverso, in qualche modo alieno a quelle terre silenziose, che scruta e cuce insieme i pezzi della vicenda, conferendo loro un senso, un perche’, rispetto all’enigma iniziale.
Se di genere ‘giallo’ si tratta, e’ giallo atipico questo La ragazza del lago. Potremmo piuttosto farlo rientrare nel noir alla francese, in parte mutuato dalla tradizione di Maigret, in parte dai piccoli capolavori di Chabrol, ugualmente ambientati nella crudele omerta’ della provincia, della coppia e della famiglia, sempre teatro primigenio della tragedia umana (film come ‘Stephane, una moglie infedele’, e molti altri). Ma e’ anche una storia di oggi, un crimine delle nostre cronache recenti, le immagini che ci scorrono davanti evocano Cogne, Garlasco, Novi Ligure…paesaggi a cui i media ci hanno assuefatti, intrudendoli nelle nostre case, paesi che paiono cristallizzati, svuotati di quel rigurgito assordante eppure vitale che anima le citta’, dove la gente parla poco e quando lo fa e’ per parlare di cose, non di persone o sentimenti (‘i dolori vanno scacciati’, dice la sorellastra di Anna), provincia dove il consumismo post anni ’80 si e’ incrociato con la progressiva deculturazione delle nuove generazioni, partorendo quel mostro, quel possibile mostro, che gia’ Pasolini identificava nella trasformazione del cittadino in consumatore.
Lungi dal tentare letture sociologiche, La ragazza del lago si limita ad evocarle, a farne uno sfondo denso e compatto nel quale tutti, credo, possiamo riconoscerci.
Poco prima di morire (presumibilmente suicida), Ingeborg Bachmann scriveva: "Mi e’ spesso capitato di chiedermi dove mai sia andato a finire il virus del crimine — non sara’ certo scomparso all’improvviso dal nostro mondo vent’anni fa, solo perche’ qui l’assassinio non viene piu’ premiato, richiesto, insignito di onorificenze e sovvenzionato, I massacri sono finiti, si’, ma gli assassini sono ancora tra noi, spesso evocati e talvolta identificati, e non tutti, ma alcuni, sottoposti a processo. Dell’esistenza di questi omocidi siamo stati resti consapevoli tutti quanti, non solo da cronache piu’ o meno reticenti, ma appunto anche grazie alla letteratura. (….) Che’ oggi e’ soltanto infinitamente piu’ difficile commettere delitti, ed ecco perche’ questi delitti sono tanto sublimi che quasi non riusciamo ad accorgercene ed a comprenderli, benche’ vengano commessi ogni giorno nel nostro ambiente, tra i nostri vicini di casa. Anzi, io affermo (…) che ancora oggi moltissime persone non muiono ma vengono assassinate. (…) I delitti che hanno bisogno dello spirito, che turbano il nostro spirito e meno i nostri sensi, quelli insomma che ci toccano piu’ profondamente — avvengono senza spargimento di sangue, e la strage si compie entro i limiti del lecito e della morale, all’interno di una societa’ i cui deboli nervi tremano di fronte agli atti belluini. Ma non per questo i delitti aono diventati meno gravi, essi richiedono soltanto una maggiore raffinatezza, un diverso grado d’intelligenza, e sono spaventosi" (Il caso Franza, 1978) corsivi miei.
Alcuni vengono fisicamente uccisi, come il piccolo Angelo, come Anna, altri, molti di piu’ possiamo supporre, vengono assassinati, nell’ordinarieta’ di ogni giorno, come Mario il matto, la moglie del commissario, gli stessi genitori di Angelo….Forse si salva – dal delitto e dall’assassinio – solo il commissario Sanzio, e in ultimo la figlia che resta accanto a lui a perdonare la madre della sua follia, perche’ il commissario, appunto, non scinde da se’, non uccide la parte folle che la moglie rappresenta, non cade in facili nessi di colpa-rifiuto, ma riesce a contenere dentro di se’, in questo prezioso scrigno che e’ una mente che funziona, la complessita’ della vita. Variegata, contradditoria, crudele complessita’ della vita.
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