Sì, lo so, “La zona di interesse” (2023) di Jonathan Glazer, film vincitore dell’Oscar 2024 come migliore pellicola in lingua straniera, ha già ricevuto un ampio risalto e si è già scritto molto sul tema della “banalità del male“, concetto introdotto da Hannah Arendt che si riferisce alla capacità delle persone ordinarie di compiere atti di inimmaginabile crudeltà semplicemente “facendo il loro lavoro” o seguendo ordini, senza necessariamente nutrire un odio profondo o una malvagità intrinseca. Questo concetto è particolarmente pertinente nell’analisi delle atrocità commesse durante l’Olocausto, atrocità non visibili nel film, ma così permeanti la vicenda da penetrare in profondità nel vissuto dello spettatore.
A quanto è già stato scritto io vorrei aggiungere qualche riflessione su come il tema dell’indifferenza al male è stato trattato da un punto di vista cinematografico. La vicenda è nota: c’è una famigliola tedesca con il capofamiglia Rudolf Höß (Christian Friedel) comandante del campo di sterminio di Auschwitz, Hedwig moglie piccolo borghese arrivista e dedita al giardino (Sandra Hüller), tre figli piccoli che scorrazzano incuranti a pochi metri dalle atrocità protetti da un muro, una servetta costretta all’ubbidienza assoluta – compreso il piacere di Höß – pena la riduzione in cenere. E la madre di Hedwig che sembra l’unica a non resistere ai suoni mortiferi, tragici, costanti e martellanti che provengono al di là dal muro di cinta del lager. Tra l’altro, tutte cose che, pur filtrate dalla sceneggiatura, corrispondono a ciò che accadde nella realtà dei fatti: Rudolf Höß fu impiccato a fine guerra senza aver manifestato alcun pentimento.
Nel film emergono con maestria e grande nitidezza le psicologie di Rudolf e di Hedwig, indifferenti per diversi motivi alla tragedia che si svolge a pochi metri di distanza (il primo per ubbidienza gli ordini, la seconda per vantaggio personale). Ciò che mi ha colpito di più però è la forma con la quale il regista ha voluto comunicare il suo messaggio. Una forma in sottrazione, caratterizzata da assenze più che presenze: non si vedono mai scene crude, le vicende sono sempre accennate e mai esplicitate, come il rapporto sessuale tra Höß e la servetta (o quello tra Hedwig e il lavorante), gli incubi della piccola figlia (che paradossalmente il padre cerca di calmare raccontando di come viene bruciata la strega cattiva di Hansel e Gretel!), il messaggio che la madre lascia a sua figlia Hedwig e che lei legge ma il cui contenuto noi potremmo solo intuire, infine l’assenza di spiegazioni per la scena finale, dove Höß ha dei conati di vomito senza però espellere niente, forse significando così il rifiuto da parte del corpo di ciò che accade, in assenza di una mente che è capace solo di formulare pensieri di obbedienza. Potrei dire, un bell’esempio di psicosomatica.
Se molte cose ci sono precluse alla sguardo, nel film il sonoro è altrettanto o anche più importante della vista. Ci sono costanti i rumori e gli spari provenienti dal lager, la colonna sonora assillante, il suono che aumenta di forza quando il figlio più piccolo diventa attento a ciò che accade al di là del muro. “La zona di interesse” è in effetti innanzitutto un film sonoro, e questo spiazza lo spettatore che è abituato a vedere un film più che ad ascoltarlo.
C’è poi l’uso di tecniche virtuosistiche cinematografiche che evidenziano alcuni elementi cruciali in un’ottica non naturalistica. Tra questi, gli intervalli di schermo muto colorato uniformemente in nero o rosso per indurre lo spettatore ad una riflessione in assenza di immagini, e l’uso della termocamera con il viraggio in negativo della pellicola per farci vedere il lavoro notturno della servetta che di notte infila nella terra le mele che i prigionieri del lager potrebbero trovare al mattino. La riflessione è che, in un mondo alla rovescia, queste scene rappresentano un’inversione dei binomi usuali di luce-bene, ombra-male, dove gli orrori sono commessi alla luce del giorno, mentre la fanciulla che porta nutrimento è nell’oscurità.
La scelta del regista di concentrarsi sulle “assenze” piuttosto che sulle “presenze” è una potente strategia visiva e narrativa. Questa scelta può servire a enfatizzare l’indifferenza di chi, come Rudolf Höß e sua moglie, vivevano in prossimità del campo di concentramento, rimanendo sordi alle sofferenze altrui per obbedienza agli ordini o per vantaggio personale. Questo metodo di rappresentazione, evitando di mostrare direttamente la violenza e la crudeltà, lascia molto spazio all’immaginazione dello spettatore, il che può rendere il messaggio ancora più forte e disturbante, poiché costringe il pubblico a immaginare gli orrori non visti.
Le scelte tecniche del regista sono esempi eccellenti di come il cinema possa usare il linguaggio visivo e sonoro per creare una narrativa emotiva e intellettuale. Queste scelte artistiche sembrano mirate a sottolineare il contrasto tra la vita quotidiana della famiglia Höß e l’orrore inimmaginabile che avveniva a pochi metri da loro, così come a indurre lo spettatore a riflettere sui temi del film.
La scena finale aperta all’interpretazione può essere vista come un invito alla riflessione personale, spingendo gli spettatori a interrogarsi sul significato ultimo del film e sulle proprie reazioni ad esso. Il rifiuto del corpo come metafora del rifiuto della mente è un tema potente che suggerisce come l’indifferenza o la negazione di tali orrori sia una forma di complicità.
In conclusione, il film appare una meditazione profonda e provocatoria sulla natura umana, sul potere dell’indifferenza e sull’importanza della memoria storica. L’approccio scelto dal regista, incentrato più sulle reazioni psicologiche e emotive degli spettatori che sulla rappresentazione esplicita della violenza, sembra rafforzare il messaggio del film, rendendolo un’opera complessa e sfaccettata che invita a una riflessione continua.
A quanto è già stato scritto io vorrei aggiungere qualche riflessione su come il tema dell’indifferenza al male è stato trattato da un punto di vista cinematografico. La vicenda è nota: c’è una famigliola tedesca con il capofamiglia Rudolf Höß (Christian Friedel) comandante del campo di sterminio di Auschwitz, Hedwig moglie piccolo borghese arrivista e dedita al giardino (Sandra Hüller), tre figli piccoli che scorrazzano incuranti a pochi metri dalle atrocità protetti da un muro, una servetta costretta all’ubbidienza assoluta – compreso il piacere di Höß – pena la riduzione in cenere. E la madre di Hedwig che sembra l’unica a non resistere ai suoni mortiferi, tragici, costanti e martellanti che provengono al di là dal muro di cinta del lager. Tra l’altro, tutte cose che, pur filtrate dalla sceneggiatura, corrispondono a ciò che accadde nella realtà dei fatti: Rudolf Höß fu impiccato a fine guerra senza aver manifestato alcun pentimento.
Nel film emergono con maestria e grande nitidezza le psicologie di Rudolf e di Hedwig, indifferenti per diversi motivi alla tragedia che si svolge a pochi metri di distanza (il primo per ubbidienza gli ordini, la seconda per vantaggio personale). Ciò che mi ha colpito di più però è la forma con la quale il regista ha voluto comunicare il suo messaggio. Una forma in sottrazione, caratterizzata da assenze più che presenze: non si vedono mai scene crude, le vicende sono sempre accennate e mai esplicitate, come il rapporto sessuale tra Höß e la servetta (o quello tra Hedwig e il lavorante), gli incubi della piccola figlia (che paradossalmente il padre cerca di calmare raccontando di come viene bruciata la strega cattiva di Hansel e Gretel!), il messaggio che la madre lascia a sua figlia Hedwig e che lei legge ma il cui contenuto noi potremmo solo intuire, infine l’assenza di spiegazioni per la scena finale, dove Höß ha dei conati di vomito senza però espellere niente, forse significando così il rifiuto da parte del corpo di ciò che accade, in assenza di una mente che è capace solo di formulare pensieri di obbedienza. Potrei dire, un bell’esempio di psicosomatica.
Se molte cose ci sono precluse alla sguardo, nel film il sonoro è altrettanto o anche più importante della vista. Ci sono costanti i rumori e gli spari provenienti dal lager, la colonna sonora assillante, il suono che aumenta di forza quando il figlio più piccolo diventa attento a ciò che accade al di là del muro. “La zona di interesse” è in effetti innanzitutto un film sonoro, e questo spiazza lo spettatore che è abituato a vedere un film più che ad ascoltarlo.
C’è poi l’uso di tecniche virtuosistiche cinematografiche che evidenziano alcuni elementi cruciali in un’ottica non naturalistica. Tra questi, gli intervalli di schermo muto colorato uniformemente in nero o rosso per indurre lo spettatore ad una riflessione in assenza di immagini, e l’uso della termocamera con il viraggio in negativo della pellicola per farci vedere il lavoro notturno della servetta che di notte infila nella terra le mele che i prigionieri del lager potrebbero trovare al mattino. La riflessione è che, in un mondo alla rovescia, queste scene rappresentano un’inversione dei binomi usuali di luce-bene, ombra-male, dove gli orrori sono commessi alla luce del giorno, mentre la fanciulla che porta nutrimento è nell’oscurità.
La scelta del regista di concentrarsi sulle “assenze” piuttosto che sulle “presenze” è una potente strategia visiva e narrativa. Questa scelta può servire a enfatizzare l’indifferenza di chi, come Rudolf Höß e sua moglie, vivevano in prossimità del campo di concentramento, rimanendo sordi alle sofferenze altrui per obbedienza agli ordini o per vantaggio personale. Questo metodo di rappresentazione, evitando di mostrare direttamente la violenza e la crudeltà, lascia molto spazio all’immaginazione dello spettatore, il che può rendere il messaggio ancora più forte e disturbante, poiché costringe il pubblico a immaginare gli orrori non visti.
Le scelte tecniche del regista sono esempi eccellenti di come il cinema possa usare il linguaggio visivo e sonoro per creare una narrativa emotiva e intellettuale. Queste scelte artistiche sembrano mirate a sottolineare il contrasto tra la vita quotidiana della famiglia Höß e l’orrore inimmaginabile che avveniva a pochi metri da loro, così come a indurre lo spettatore a riflettere sui temi del film.
La scena finale aperta all’interpretazione può essere vista come un invito alla riflessione personale, spingendo gli spettatori a interrogarsi sul significato ultimo del film e sulle proprie reazioni ad esso. Il rifiuto del corpo come metafora del rifiuto della mente è un tema potente che suggerisce come l’indifferenza o la negazione di tali orrori sia una forma di complicità.
In conclusione, il film appare una meditazione profonda e provocatoria sulla natura umana, sul potere dell’indifferenza e sull’importanza della memoria storica. L’approccio scelto dal regista, incentrato più sulle reazioni psicologiche e emotive degli spettatori che sulla rappresentazione esplicita della violenza, sembra rafforzare il messaggio del film, rendendolo un’opera complessa e sfaccettata che invita a una riflessione continua.
0 commenti