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MARADONA di KUSTURICA

2 Ott 12

Di Francesca-Crivaro

Lo spettacolo non può essere compreso come un abuso del mondo visivo, prodotto delle tecniche di diffusione massiva delle immagini.Esso è invece una Weltanschauung divenuta effettiva, tradotta materialmente. E’ una visione del mondo che si è oggettivata.
(Guy Debord, La società dello spettacolo)

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L’ultimo film-documentario di Emir Kusturica, incentrato sulla figura di Diego Armando Maradona, è innanzitutto il racconto di un incontro tra due uomini (il regista stesso e il campione argentino) e tra le loro esperienze di vita, apparentemente lontane ma in realtà straordinariamente simili. Lo stesso Maradona spiega questa somiglianza: "Io ed Emir ci capiamo e siamo diventati amici perché veniamo dalle periferie del mondo, dal sud e dall'est. Argentina ed ex Jugoslavia sono unite dalla visione della libertà e dalla gioia di vivere". Il film nasce proprio dalla fusione di questi due vissuti, Maradona certo è il protagonista, ma Kusturica è presente in ogni fotogramma del documentario. E’ attraverso lo sguardo di Kusturica, attento e mai banale, che entriamo nella vita del calciatore accompagnandolo direttamente per due anni (dal 2005 al 2007) ma riuscendo grazie alle sue parole nelle interviste a ricostruire la sua intera esistenza. E’ un racconto che va ben oltre la freddezza di un documentario, carico di una forza emotiva straordinaria che colpisce e conquista. Senza seguire alcun ordine cronologico Kusturica ci mostra le immagini della vita del campione: il suo ritorno a Napoli dopo anni di esilio più o meno volontario (la folla acclamante davanti all’hotel è francamente impressionante), Diego da bambino che palleggia su un campetto polveroso della periferia di Buenos Aires e afferma di avere due soli sogni (‘’Il primo partecipare ai Mondiale con l’Argentina e il secondo vincerlo’’). E ancora i suoi ricoveri in ospedale dovuti alla dipendenza dalla cocaina e i soggiorni in clinica per la disintossicazione; Kusturica ci riporta indietro fino alle favelas di Villa Fiorito dove Maradona è cresciuto e poi ci catapulta velocemente dentro tutti i suoi incredibili gol. Lo ritrae a Mar del Plata quando partecipa a una manifestazione contro la colonizzazione economica del Sudamerica da parte degli Stati Uniti e contro la globalizzazione, riporta le sue dichiarazioni di affetto per Fidel Castro e il suo odio per l’Inghilterra unica responsabile secondo lui della guerra delle Falkland ("Il principe Carlo voleva incontrarmi, non ho voluto stringere la sua mano sporca di sangue"). Le idee politiche del calciatore sono centrali nel film, grande spazio è riservato al suo rapporto di amore con Cuba e alle accuse contro gli Stati Uniti, Kusturica indugia senza casualità sull’immagine del Maradona rivoluzionario. L’animazione che il regista sovrappone ai gol del campione (la Thatcher fumetto che viene decapitata dopo i gol di Maradona all’Inghilterra al Mondiale 1986, il Bush pistolero che cerca di colpire Maradona ma viene dribblato, scartato e umiliato) mirano proprio a ribadire lo pseudoruolo sociale del calciatore, che con il suo talento riesce a vendicare e a dare voce all’Argentina ed in generale a tutti i popoli oppressi, diventando così un punto di riferimento planetario nella lotta contro l’imperalismo. L’obiettivo di Kusturica sembrerebbe dunque chiaro: da una parte raccontare l’uomo Maradona (e in questo a nostro avviso riesce in maniera straordinaria con una profondità, una delicatezza e una sensibilità fuori dal comune) e dall’altra enfatizzare il ruolo social-politico che Maradona viene ad assumere.


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Ma se la spettacolarizzazione di una esistenza, se il caricare un uomo e il suo talento di un ruolo di rivalsa sociale per un’intera nazione avessero in sé rischi troppo alti? Questa è la domanda che ci siamo posti uscendo dal cinema e ancora di più leggendo una dichiarazione che lo stesso Kusturica ha rilasciato su Maradona durante la conferenza stampa che ha seguito la proiezione del film al festival di Cannes: "Abbiamo bisogno di leader in questo mondo , di persone che dicano le cose come stanno senza padroni. Perché non lui?" . Questo modo di approcciarsi alla vita di Maradona contribuisce suo malgrado e probabilmente involontariamente da parte dello stesso regista ad alimentare due pericoli: uno di ordine più generale che potremmo forse definire di natura sociale e l’altro più legato all’esistenza stessa dell’uomo Diego.

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Il primo rischio del presentare mediaticamente Maradona come vendicatore delle umiliazioni subite dalla popolazione argentina e con essa da tutte le popolazioni dell’America Latina è paradossalmente di indurre concretamente ad una mancata partecipazione del popolo argentino al proprio destino. Umberto Galimberti in una sua opera bellissima e complessa, ‘Psiche e techne’, ci aiuta meglio a comprendere questo pericolo: "La prima figura compromessa dai media è la partecipazione…il monologo collettivo dei media istituendoci come spettatori e non come partecipi di un’esperienza ci consegna quei messaggi che, per diversi che siano gli scopi a cui tendono, veicolano eventi che hanno in comune il fatto che noi non vi prendiamo parte, ma ne consumiamo soltanto le immagini". La spettacolarizzazione di Maradona finisce per divenire funzionale al sistema che si vorrebbe combattere, il simbolo Maradona caricato delle nostre umiliazioni e delle nostre speranze può farci credere di essere presenti attraverso di esso agli avvenimenti del mondo. Drogati dalla convizione di poter trovare il nostro riscatto sociale attraverso la sua figura, rischiamo di cullarci in questa pericolosa illusione e di cadere nella trappola mediatica della non partecipazione. Con questo meccanismo finisce per essere cancellato il concetto stesso di Dasein e il nostro essere-nel-mondo viene limitato alla rappresentazione del mondo stesso. La costruzione dell’identità che dovrebbe essere innanzitutto un processo privato e personale diviene un processo pubblico e collettivo.E’ la popolazione argentina che attraverso il calcio trova un’identità e non il singolo: così all’individuo è tolta la possibilità di percepirsi come identità autonoma.

Dunque la deidentificazione individuale è forse il vero pericolo che deriva dalla spettacolarizzazione e dalla divinizzazione (particolarmente interessante nel film è il la parte riguardante la creazione in Argentina di una vera e propria chiesa maradoniana) dell’eroe Diego Armando Maradona, ma paradossalmente la deidentificazione è il vero pericolo anche per lo stesso uomo Maradona. Sempre Galimberti in ‘Psiche e Techne’: "All’individuo è tolta fin dall’inizio la possibilità di percepire sé al di fuori della propria funzione, e quindi la possibilità di un ritorno all’essenza umana non funzionalizzata".


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Sarebbe troppo superficiale e semplicistico pensare che da questo derivino tutti i problemi di Maradona con la cocaina e tutte le sue difficoltà relazionali. Quello che è certo è che il leitmotiv delle parole del campione in questo documentario è la colpa. Una colpa privata che deriva dal non aver potuto a pieno vivere il rapporto con le sue bambine perché troppo offuscato dalla cocaina ma soprattutto una colpa pubblica: "Emir, che grande giocatore sarei stato senza la cocaina?". Anche nel vivere un sentimento tragico e corrosivo come la colpa, che Borgna nelle ‘Figure dell’ansia’ definisce splendidamente come "l’angoscia originaria della condizione umana che riemerge nelle sue dimensioni di sofferenza" c’è dunque l’incapacità di pensare alla propria esistenza al di fuori della propria funzione e questo proprio perché abbiamo caricato questa funzione di un ruolo di riscatto sociale collettivo che un calciatore o meglio una persona non deve e non può tollerare.

"Sembra che la colpa di tutto il mondo si riunisca per rendere colpevole l’individuo oppure che egli, diventando colpevole, si senta reo della colpa di tutto il mondo."

(Kierkegaard, Il concetto dell’angoscia –La malattia mortale)

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