Chissà se Ken Loach, girando il suo ultimo film, pensava ad Umberto D.
Come nel film di De Sica e Zavattini, anche con Loach la storia di un pensionato indigente; al pari della pellicola italiana del '52 -nel titolo- pure in quella inglese, soltanto il nome proprio del protagonista.
Questa volta non siamo però nella Roma del dopoguerra, ma nella provincia inglese impoverita dei nostri giorni.
Newcastle: su al nord; lontanissima da Londra; un tempo sede di cantieri tra i più importanti al mondo e adesso, al pari di altre vecchie città industriali britanniche, focolaio di povertà e ingiustizie.
Daniel Blake ha sessantadue anni e quaranta li ha trascorsi facendo il carpentiere. Ma adesso, un infarto gli impedisce di lavorare.
Accedere al sistema di protezione sociale inglese però non è facile.
A valutare il suo status di malato non sta un medico, ma un più inintelleggibile “esperto di sanità”; a riconoscere la sua indennità di disoccupazione soltanto un burocrate, votato più ad espellere che ad includere.
Nell'ottusità e nella perfidia di un modello sociale che lascia per strada chi resta indietro, Blake -pur ridotto alla miseria- non rinuncia mai al riconoscimento dei suoi diritti; ma -arrivato ad un passo dal traguardo, novello Rolando Petris dei nostri tempi,- cade sfinito; lasciando agli altri solo il suo esempio e la sua testimonianza.
Per una volta Ken Loach abbandona la tipica coralità di tanti dei suoi lavori precedenti, senza svoltare -però- verso un solipsistico intimismo, ma semmai mettendo a fuoco la crudele solitudine delle vittime di quello che Luciano Gallino battezzò il finanzcapitalismo.
A questa solitudine Blake (e Loach) resiste costruendo pezzi e simulacri di una comunità frantumata e disomogenea: i giovani immigrati vicini di casa che sopravvivono, con una sorta di contrabbando 2.0, trafficando con un operaio povero dei lontani distretti industriali cinesi, che sa tutto dei campioni di football inglesi, ma senz'altro molto meno della quotidiana esistenza di un disoccupato europeo; i frequentatori dei centri per l'impiego d'Oltremanica stretti tra il groviglio di leggi prive di giustizia e l'umiliazione della carità; e soprattutto Kattie, la giovane donna costretta a lasciare la capitale e a salire lassù con i due figli Dylan e Daisy, frutto di due relazioni sbagliate.
Come il vagabondo Chaplin di Luci della città che incontra la fioraia cieca sotto il monumento che beffardamente celebra la Pace e la Prosperità, Blake e Kattie -sostegno uno dell'altra-, ritrovatisi nell'Inghilterra ingiusta ma ancora opulente di oggi, sperimentano e praticano briciole di mutualismo.
Se Blake è per Kattie l'esempio di una dignità da conservare, Kattie agli occhi di Daniel è la chance di un possibile riscatto. E quando Kattie pare cedere, barattando la sopravvivenza con il proprio degrado, restano sempre Dylan e Daisy, i due giovanissimi e complementari figli, per non spegnere l'ostinata speranza di un domani migliore. Daisy che impara l'insostituibile pratica della solidarietà, Dylan che svela il ribaltamento di senso nello scoprire le noci di cocco (ovvero, ciò che dovrebbe sostenerci) responsabili di più morti umane, di temibili predatori quali gli squali.
“Io, Daniel Blake” si è visto riconoscere -giustamente- la Palma d'Oro nell'ultima rassegna di Cannes; un festival -quello francese- che negli ultimi anni ha ospitato e promosso pellicole d'altrettanto impatto emotivo e sociale (il meravigliso “La legge del mercato” nel 2015 e il “Due giorni, una notte” degli ormai conclamati Dardenne l'anno precedente).
Larga parte della migliore cinematografia europea appare ormai consapevole dell'impossibilità di non scrutare (e denunciare) l'arretramento e il tendenziale tramonto di un'Europa riprecipitata ai racconti di Dickens piuttosto che alle prime denunce sul lavoro minorile inglese contenute negli studi di Engels e, più tardi, di Trevor Ropper.
Lampi di luce sulle ingiustizie odierne su cui sarà bene non serrare gli occhi.
Come nel film di De Sica e Zavattini, anche con Loach la storia di un pensionato indigente; al pari della pellicola italiana del '52 -nel titolo- pure in quella inglese, soltanto il nome proprio del protagonista.
Questa volta non siamo però nella Roma del dopoguerra, ma nella provincia inglese impoverita dei nostri giorni.
Newcastle: su al nord; lontanissima da Londra; un tempo sede di cantieri tra i più importanti al mondo e adesso, al pari di altre vecchie città industriali britanniche, focolaio di povertà e ingiustizie.
Daniel Blake ha sessantadue anni e quaranta li ha trascorsi facendo il carpentiere. Ma adesso, un infarto gli impedisce di lavorare.
Accedere al sistema di protezione sociale inglese però non è facile.
A valutare il suo status di malato non sta un medico, ma un più inintelleggibile “esperto di sanità”; a riconoscere la sua indennità di disoccupazione soltanto un burocrate, votato più ad espellere che ad includere.
Nell'ottusità e nella perfidia di un modello sociale che lascia per strada chi resta indietro, Blake -pur ridotto alla miseria- non rinuncia mai al riconoscimento dei suoi diritti; ma -arrivato ad un passo dal traguardo, novello Rolando Petris dei nostri tempi,- cade sfinito; lasciando agli altri solo il suo esempio e la sua testimonianza.
Per una volta Ken Loach abbandona la tipica coralità di tanti dei suoi lavori precedenti, senza svoltare -però- verso un solipsistico intimismo, ma semmai mettendo a fuoco la crudele solitudine delle vittime di quello che Luciano Gallino battezzò il finanzcapitalismo.
A questa solitudine Blake (e Loach) resiste costruendo pezzi e simulacri di una comunità frantumata e disomogenea: i giovani immigrati vicini di casa che sopravvivono, con una sorta di contrabbando 2.0, trafficando con un operaio povero dei lontani distretti industriali cinesi, che sa tutto dei campioni di football inglesi, ma senz'altro molto meno della quotidiana esistenza di un disoccupato europeo; i frequentatori dei centri per l'impiego d'Oltremanica stretti tra il groviglio di leggi prive di giustizia e l'umiliazione della carità; e soprattutto Kattie, la giovane donna costretta a lasciare la capitale e a salire lassù con i due figli Dylan e Daisy, frutto di due relazioni sbagliate.
Come il vagabondo Chaplin di Luci della città che incontra la fioraia cieca sotto il monumento che beffardamente celebra la Pace e la Prosperità, Blake e Kattie -sostegno uno dell'altra-, ritrovatisi nell'Inghilterra ingiusta ma ancora opulente di oggi, sperimentano e praticano briciole di mutualismo.
Se Blake è per Kattie l'esempio di una dignità da conservare, Kattie agli occhi di Daniel è la chance di un possibile riscatto. E quando Kattie pare cedere, barattando la sopravvivenza con il proprio degrado, restano sempre Dylan e Daisy, i due giovanissimi e complementari figli, per non spegnere l'ostinata speranza di un domani migliore. Daisy che impara l'insostituibile pratica della solidarietà, Dylan che svela il ribaltamento di senso nello scoprire le noci di cocco (ovvero, ciò che dovrebbe sostenerci) responsabili di più morti umane, di temibili predatori quali gli squali.
“Io, Daniel Blake” si è visto riconoscere -giustamente- la Palma d'Oro nell'ultima rassegna di Cannes; un festival -quello francese- che negli ultimi anni ha ospitato e promosso pellicole d'altrettanto impatto emotivo e sociale (il meravigliso “La legge del mercato” nel 2015 e il “Due giorni, una notte” degli ormai conclamati Dardenne l'anno precedente).
Larga parte della migliore cinematografia europea appare ormai consapevole dell'impossibilità di non scrutare (e denunciare) l'arretramento e il tendenziale tramonto di un'Europa riprecipitata ai racconti di Dickens piuttosto che alle prime denunce sul lavoro minorile inglese contenute negli studi di Engels e, più tardi, di Trevor Ropper.
Lampi di luce sulle ingiustizie odierne su cui sarà bene non serrare gli occhi.
un aspetto curioso e credo
un aspetto curioso e credo interessante del film è rappresentato dal fatto che il protagonista è interpretato da Dave Johns che di mestiere fa il cabarettista a dimostrazione dell’enorme fucina di talenti su cui può contare il cinema anglosassone.
Per altro io credo che questo sia il miglior film di Loach da sempre