“ …l’idillio è, per sua essenza, un mondo per tutti…”
(M. Kundera, Il libro del riso e dell’oblio)
Non è facile parlare di questo film, tentare di descriverlo: l’unico modo per saperne qualcosa è farne diretta esperienza, vederlo, sentirlo, lasciarsene trascinare.
Se si conosce la filmografia del regista ci si sente finalmente a casa: si ritrovano in questa sua ultima opera, frammenti e richiami di tutte le precedenti, dalla nuotata di Palombella rossa (1989), alla magnifica danza de La messa è finita (1985), all’ossessione per le scarpe e i dolci di Bianca (1984), alla trasposizione in alter ego registici (Mia madre) (1998), in una sorta di autobiografico e onirico pastiche che mescola con leggerezza e densità insieme gli ultimi settant’anni di storia italiana e le vicende della vita di un uomo.
Di un regista, Giovanni, alle prese col suo ultimo film; regista, Nanni Moretti stesso naturalmente, che con la moglie collega Paola (la fedele Margherita Buy) ha sempre condiviso tutto e un’affiatata troupe di attori; si realizza così un film nel film, l’arte si intreccia continuamente alla vita, perdiamo i confini di dove comincia l’una e dove finisce l’altra, e proprio in questa squisita, volutamente imperfetta miscela sta uno degli intenti più brillanti del film. Metafora riuscita, divertente, ironica, che non declina verso la disperazione come in Mia madre, ma gioca ancora con la speranza.
Giovanni-Moretti costretto nella sua permalosa coerenza, non vuole cedere ad un mondo irrimediabilmente cambiato, dove “niente è più come prima”, niente è più come era; altrettanto fa fare al suo personaggio nel film, impersonato da Silvio Orlando, segretario di una sezione locale del partito comunista nel ’56. Il PCI, guidato da Togliatti, è al suo apice in Italia, e non si riconosce con la violenza totalitaria del regime di Mosca ma, quando l’Ungheria viene assediata dai russi e la sezione di Silvio Orlando ne ospita una compagnia circense, nasce il conflitto su da che parte stare: fedeltà al partito o appoggio ai disertori ungheresi?
Il sol dell’avvenire, che avrebbe dovuto illuminare il futuro di tutti i lavoratori, e infine dell’umanità, non si è realizzato; sulla disillusione della sinistra in Italia si è giocata gran parte, se non tutta, la narrativa più intima del cinema di Moretti (come dimenticare quel ‘D’Alema, dì qualcosa di sinistra!’ in Aprile del ‘98).
Ma Moretti è un artista, un vero artista, ed ha saputo fare della disillusione politica, che così profondamente ha segnato la sua generazione, metafora umana della caducità di ogni cosa, del ridicolo che vena ogni certezza, dell’odio per ogni gregarietà e banalizzazione, privilegiando sempre il paradosso e l’ironia.
Come il genio di Milan Kundera nel suo romanzo d’esordio, Lo scherzo (1967), fa intuire al suo giovane protagonista tutta la farsa dei regimi: “L’ebbrezza che vivevamo è generalmente chiamata ebbrezza del potere, ma con un po’ di buona volontà potrei chiamarla ( potrei trovare parole meno severe): eravamo stregati dalla Storia: ci ubriacavamo all’idea di essere saltati in groppa alla Storia e di sentirla sotto di noi; certo, tutto per la maggior parte si era poi rivelato una brutta sete di potere” (p.90).
Si ride e ci si commuove, in questo “Otto e mezzo” morettiano, caleidoscopio che si offre, come un’interpretazione insatura, a molte letture: riflessione sul tempo, sulla caduta delle ideologie, sulla vita dentro l’arte e l’arte dentro la vita, sulla crisi del matrimonio, infine come atto d’amore verso il cinema. Numerosi e godibilissimi i riferimenti al cinema, così come gli stacchi musicali, tipici di Moretti che non tollera i tempi morti nei film, sono tra i momenti più felici.
A quest’ultima voce, l’amore per il cinema, darei particolare rilievo: la Storia non si può rifare nella realtà ma si può rifare nella fantasia, di cui tutti disponiamo, e nella magia del cinema, che il regista ci consegna. “Chi ha detto che con i se non si può fare la storia? Invece si può fare”: Giovanni-Moretti con la sua troupe possono riprendere il loro gioco, il film che rifà la storia come sarebbe dovuta andare. Non si tratta di una negazione, ma della bonifica che l’arte può operare sulla vita, sulle mancanze, sull’errore.
Et voilà: il finale può cambiare. Intriso di intelligente amarezza, Il sol dell’avvenire è uno di quei film che hanno fiducia nello spettatore, giocano con lui, lo lasciano immaginare, con i suoi ‘se’ e suoi ‘ma’, che muovono veloci, diverse identificazioni in ciascuno, che non impongono trame eppure tutto sembra tornare, sembra quadrare, che premiano la fantasia e il lavoro del ‘come se’: facciamo come se fosse andata diversamente.
L’arte al posto della vita, tra la sofferenza e la vita.
Come in analisi, è il ‘come se’ a fare la differenza, ma in questo film stratificato complesso divertente triste sarcastico geniale, c’è molto di più di tutto questo.
Bibliografia
Kundera M. (1967): Lo scherzo. Adelphi, Milano, 1986
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