“Se vuoi essere felice, comincia”
(Lev Tolstoj)
(Lev Tolstoj)
Un piccolo, prezioso film da scoprire o riscoprire, questo Hotel Gagarin di Simone Spada (disponibile su Sky Cinema).
Cinque personaggi romani infelici e sbandati – un professore, una prostituta, un tossicodipendente, un elettricista e una dubbia donna d’affari – vengono spediti nella lontana Armenia da un sedicente produttore che, inizialmente d’accordo con la donna (Barbara Bobulova), li inganna promettendo di far realizzare un film su soggetto del ‘professore’ (Giuseppe Battiston), ma in realtà per accaparrarsi i soldi elargiti da un progetto europeo. Il film, a lungo sognato dal professore, unico tenero e colto personaggio del gruppo, avrebbe per location l’Armenia sulla scia dei vaghi ricordi d’infanzia di questi, ma rappresenta più in generale il sogno di fare un film, per lui che vive immerso in citazioni letterarie, ignorato da sciatti studenti di una scuola, quella italiana di oggi, che non sa più insegnare a sognare.
Raccattati facilmente gli altri quattro, tutta gente che non ha niente da perdere, lo strampalato e improbabile gruppo parte per un Paese sommerso di neve di cui non sa nulla, per arrivare all’Hotel Gagarin, dove alloggiano, luogo isolato, incantato, come sospeso nel nulla. Nessuno sa realmente cosa andrà a fare, ma spinti dall’irrinunciabile speranza degli esseri umani alla salvezza, si avventurano; a guidarli sarà un’autista incinta e una simpatica guida sempre ubriaca.
Bloccati da una guerra in corso, sono costretti a rimanere all’Hotel Gagarin, mentre rapidamente il piccolo progetto losco del produttore sarà smascherato: nessuno aveva mai letto il film, i soldi sono stati rubati, e a loro non resta che una convivenza forzata, inizialmente senza scopo e senso, nel luogo più sperduto nel mondo.
Su quest’esile premessa, si costruisce abilmente il crescendo poetico, immaginifico, in parte favolistico del film; tutto giocato sul crinale fantasia/realtà, Hotel Gagarin non si riduce però ad un gioco di pura fantasticheria, per declinarsi, col proseguo, in vicenda umana corale suggestiva, intimista e a tratti commovente. La svolta avviene quando improvvisamente, una mattina, l’improbabile troupe trova davanti all’Hotel tutto il paese che è accorso lì, sapendo che si gira un film, ciascuno a portare il proprio sogno. È questo il nucleo centrale e la cifra a suo modo geniale del film: il cinema come macchina dei sogni, e il sogno come unico luogo, freudianamente, in cui la vita si realizza. L’Hotel si popola di tutte le sperdute anime del villaggio che, unendosi ai cinque personaggi, fallito il progetto fasullo, iniziano a dar vita alla vera ripresa di un film. E’ il sogno, ad unire un’umanità che, sul piano della realtà, non avrebbe niente in comune; è l’inconscio, ad appartenere a tutti gli esseri umani. In parallelo, come in tutte le forzate convivenze umane, si snoda l’altro polo tematico del film: l’evoluzione dei personaggi. Nella seconda parte, caduto il velo dell’inganno e dell’autoinganno in cui ciascuno si celava, il personaggio diventa persona: nascono amori, si innesta in ciascuno la responsabilità di una scelta, si mettono in moto cambiamenti.
Compaiono qua e là personaggi, altrettanto fantastici, che sbucano dal nulla (il giocatore di scacchi, illusione ottica del ‘professore’), o emergono dalla neve, come l’italiano fuggito alla nostra precarietà per fare una piccola fortuna in Armenia. Sullo sfondo, infatti, il tratteggio di un’Italia immiserita dall’ignoranza e dalla povertà, di un Paese, il nostro, che ha perso luoghi identitari (la scuola), senza lavoro, che destina i suoi giovani alla precarietà o alla droga (Luca Argentero e Silvia D’Amico), di un Paese in cui si è soli se si vuole pensare (il professore), e senza possibilità di incontri autentici.
Le scene dell’hotel allestito come un intero set dove ciascuno recita il proprio sogno, e il poetico finale dove ognuno, anche se l’esperienza è formalmente terminata e si deve rientrare, realizza davvero quel sogno, valgono da sole tutto i film e compensano di qualche scontatezza e dell’esilità della trama.
Il punto che vorrei, come psicoanalista, mettere in evidenza è che il sognare, in questo piccolo film nostrano, è preso assolutamente sul serio: sognare è desiderio, ossia è motore del mondo, della vita.
Solo nel sogno siamo autentici, mentre non siamo che maschere nella realtà, nella miseria della vita diurna. Cosa permette al sogno la sua magica realizzazione? Il cinema, in primis, e l’incontro umano.
“I film sono come sogni, soggetti alla stessa incontrollabile dinamica. E viceversa, i sogni sono come i nostri film – ha dichiarato in un’intervista David Cronemberg – e l’arte è sovversiva perché è connessa all’inconscio. Come i sogni”. Lo stesso dirà Bernardo Bertolucci, i cui film, diceva, erano intessuti della sua analisi e viceversa “ (…) e dopo tutto non sono forse i film fatti della stessa materia del sogno?” Nessuna ‘macchina’ culturale, quanto il cinema, è un così potente creatore di sogni; nessuna consente una tale catarsi in chi guarda, una tale immedesimazione, una tale uscita da noi stessi. E analogamente, sappiamo dalla psicoanalisi che nessuna via è regia all’inconscio come il sogno, che il sognare in sé, al di là del suo contenuto, è di per sé realizzazione di desiderio, una precisazione freudiana che a volte si dimentica: non ciò che sogno, ma l’atto del sognare mi appaga.
L’altro polo – lo sviluppo di sé attraverso i rapporti umani – è debitore del primo: non ci sarebbero stati gli amori, i perdoni, le svolte, le scelte, se non ci fosse stata la possibilità, una volta nella vita, di realizzare il sogno. Perlomeno, di metterlo in scena, proprio come nel teatro onirico notturno, almeno una volta.
Siamo nel registro della commedia, e Hotel Gagarin si deve concludere con un delicato happy end, in cui ciascuno trova il suo posto nel mondo: due personaggi resteranno in Armenia, gli altri tornano, ma tornano cambiati.
L’Hotel Gagarin, metaforica massiccia costruzione sospesa nel cuore di uno dei Paesi più misconosciuti e tormentati nel cuore dell’Europa, dove si consumano guerre di cui siamo ignari, diventa set ideale della magia del cinema, dell’illusione, della speranza e del riscatto. Come a dire che solo in una momentanea sospensione dalla realtà, solo concedendoci con fiducia curiosa alla dimensione del sogno, la vita acquista dignità e senso, la vita che era vita allo sbando trova la sua autentica, naturale realizzazione.
Raccattati facilmente gli altri quattro, tutta gente che non ha niente da perdere, lo strampalato e improbabile gruppo parte per un Paese sommerso di neve di cui non sa nulla, per arrivare all’Hotel Gagarin, dove alloggiano, luogo isolato, incantato, come sospeso nel nulla. Nessuno sa realmente cosa andrà a fare, ma spinti dall’irrinunciabile speranza degli esseri umani alla salvezza, si avventurano; a guidarli sarà un’autista incinta e una simpatica guida sempre ubriaca.
Bloccati da una guerra in corso, sono costretti a rimanere all’Hotel Gagarin, mentre rapidamente il piccolo progetto losco del produttore sarà smascherato: nessuno aveva mai letto il film, i soldi sono stati rubati, e a loro non resta che una convivenza forzata, inizialmente senza scopo e senso, nel luogo più sperduto nel mondo.
Su quest’esile premessa, si costruisce abilmente il crescendo poetico, immaginifico, in parte favolistico del film; tutto giocato sul crinale fantasia/realtà, Hotel Gagarin non si riduce però ad un gioco di pura fantasticheria, per declinarsi, col proseguo, in vicenda umana corale suggestiva, intimista e a tratti commovente. La svolta avviene quando improvvisamente, una mattina, l’improbabile troupe trova davanti all’Hotel tutto il paese che è accorso lì, sapendo che si gira un film, ciascuno a portare il proprio sogno. È questo il nucleo centrale e la cifra a suo modo geniale del film: il cinema come macchina dei sogni, e il sogno come unico luogo, freudianamente, in cui la vita si realizza. L’Hotel si popola di tutte le sperdute anime del villaggio che, unendosi ai cinque personaggi, fallito il progetto fasullo, iniziano a dar vita alla vera ripresa di un film. E’ il sogno, ad unire un’umanità che, sul piano della realtà, non avrebbe niente in comune; è l’inconscio, ad appartenere a tutti gli esseri umani. In parallelo, come in tutte le forzate convivenze umane, si snoda l’altro polo tematico del film: l’evoluzione dei personaggi. Nella seconda parte, caduto il velo dell’inganno e dell’autoinganno in cui ciascuno si celava, il personaggio diventa persona: nascono amori, si innesta in ciascuno la responsabilità di una scelta, si mettono in moto cambiamenti.
Compaiono qua e là personaggi, altrettanto fantastici, che sbucano dal nulla (il giocatore di scacchi, illusione ottica del ‘professore’), o emergono dalla neve, come l’italiano fuggito alla nostra precarietà per fare una piccola fortuna in Armenia. Sullo sfondo, infatti, il tratteggio di un’Italia immiserita dall’ignoranza e dalla povertà, di un Paese, il nostro, che ha perso luoghi identitari (la scuola), senza lavoro, che destina i suoi giovani alla precarietà o alla droga (Luca Argentero e Silvia D’Amico), di un Paese in cui si è soli se si vuole pensare (il professore), e senza possibilità di incontri autentici.
Le scene dell’hotel allestito come un intero set dove ciascuno recita il proprio sogno, e il poetico finale dove ognuno, anche se l’esperienza è formalmente terminata e si deve rientrare, realizza davvero quel sogno, valgono da sole tutto i film e compensano di qualche scontatezza e dell’esilità della trama.
Il punto che vorrei, come psicoanalista, mettere in evidenza è che il sognare, in questo piccolo film nostrano, è preso assolutamente sul serio: sognare è desiderio, ossia è motore del mondo, della vita.
Solo nel sogno siamo autentici, mentre non siamo che maschere nella realtà, nella miseria della vita diurna. Cosa permette al sogno la sua magica realizzazione? Il cinema, in primis, e l’incontro umano.
“I film sono come sogni, soggetti alla stessa incontrollabile dinamica. E viceversa, i sogni sono come i nostri film – ha dichiarato in un’intervista David Cronemberg – e l’arte è sovversiva perché è connessa all’inconscio. Come i sogni”. Lo stesso dirà Bernardo Bertolucci, i cui film, diceva, erano intessuti della sua analisi e viceversa “ (…) e dopo tutto non sono forse i film fatti della stessa materia del sogno?” Nessuna ‘macchina’ culturale, quanto il cinema, è un così potente creatore di sogni; nessuna consente una tale catarsi in chi guarda, una tale immedesimazione, una tale uscita da noi stessi. E analogamente, sappiamo dalla psicoanalisi che nessuna via è regia all’inconscio come il sogno, che il sognare in sé, al di là del suo contenuto, è di per sé realizzazione di desiderio, una precisazione freudiana che a volte si dimentica: non ciò che sogno, ma l’atto del sognare mi appaga.
L’altro polo – lo sviluppo di sé attraverso i rapporti umani – è debitore del primo: non ci sarebbero stati gli amori, i perdoni, le svolte, le scelte, se non ci fosse stata la possibilità, una volta nella vita, di realizzare il sogno. Perlomeno, di metterlo in scena, proprio come nel teatro onirico notturno, almeno una volta.
Siamo nel registro della commedia, e Hotel Gagarin si deve concludere con un delicato happy end, in cui ciascuno trova il suo posto nel mondo: due personaggi resteranno in Armenia, gli altri tornano, ma tornano cambiati.
L’Hotel Gagarin, metaforica massiccia costruzione sospesa nel cuore di uno dei Paesi più misconosciuti e tormentati nel cuore dell’Europa, dove si consumano guerre di cui siamo ignari, diventa set ideale della magia del cinema, dell’illusione, della speranza e del riscatto. Come a dire che solo in una momentanea sospensione dalla realtà, solo concedendoci con fiducia curiosa alla dimensione del sogno, la vita acquista dignità e senso, la vita che era vita allo sbando trova la sua autentica, naturale realizzazione.
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