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RECENSIONE: IL MIO GODARD

3 Nov 17

Di Redazione Psychiatry On Line Italia
Michel Hazanavicius è autore controverso, spesso poco amato dalla critica. Severi, per esempio, furono i giudizi per il suo The search, straordinario j’accuse contro i silenzi europei all’epoca degli orrori ceceni. Neppure il pluripremiato The artist fu indenne alle forche caudine della recensione; accusato di ammiccare più alla commedia sofisticata che al glorioso muto degli albori. Peggiori, e pressoché unanimi, i pareri per il suo ultimo Le redoutable (in sala in Italia dallo scorso fine settimana col titolo Il mio Godard).
Se Il Manifesto ha liquidato la pellicola definendola semplicemente “reazionaria”; per il colonnista di Sentieri Selvaggi, con Hazanavicius, “la borghesia si sarebbe” addirittura “vendicata di Godard”.
Macchiettistico, caricaturale, semplicistico, sono aggettivi che si sprecano nelle stroncature.
Un severo richiamo al rigore filologico ed all’ortodossia alquanto strano, se preteso per un film su un regista, Godard, che dell’anticonformismo e dell’irriverenza, ha fatto la sua principale cifra stilistica.
Con Le redoutable, invece, io credo che Hazanavicius firmi un autentico atto d’amore per il Godard uomo e per il Godard artista.
La vicenda si snoda tra il 1967 ed il 1969; tra la fine del montaggio de La cinese e la lavorazione, qui in Italia, protagonista Gianmaria Volontè, de Il vento dell’est. Il racconto è ispirato dalle pagine di Anne Wiasemsky, giovane musa e compagna di Godard allora, prematuramente scomparsa l’ottobre scorso.
E’ il periodo più irrequieto e dagli esiti più discussi del regista svizzero-francese. Neppure quarantenne ha già all’attivo oltre venti lungometraggi; A bout de soufflé con cui ha esordito lo ha immediatamente consacrato caposcuola dell’emergente Nouvelle Vague.  Godard è un’autentica icona. Lavora abitualmente con Belmondo e la Bardot e ne Il disprezzo si è persino concesso il lusso di dirigere il leggendario Fritz Lang.
Eppure Godard, come accade solamente agli artisti migliori, freme dal desiderio di chiudere quel suo primo periodo.
Ci si potrebbe cimentare con la pulsione di morte che serpeggia nella pellicola: tanto nel maldestro tentativo di suicidio nella stanza di un albergo italiano quanto in quel “Godard è morto” con cui, entusiasta, annuncia agli amici e alla compagna, la nascita del collettivo Dziga Vertov; quello che comunque è certo è che Godard, quel suo desiderio di innovarsi e trasformarsi, riterrà di poterlo cogliere nell’esplosione del maggio parigino.
Il situazionismo, la furia iconoclasta, il ribaltamento dell’ordine esistente, il simbolico parricidio che animano quelle settimane, non possono non fare breccia nei desideri, nella ricerca, nella incomprimibile volontà di movimento di Jean Luc. D’improvviso, la stessa avanguardia degli ex colleghi dei Cahiers gli appare ormai ingessata dentro le regole convenzionali dell’accademia. Di Truffaut, di cui è intimo amico, sentenzia: “fa solo film d’amore”.
L’invenzione del collettivo Dziga Vertov è il naturale approdo di quello stato d’animo. Come fu per il regista sovietico mezzo secolo prima –allora con l’avanguardia russa, adesso con quella francese- il rapido farsi scuola di una tendenza, lo obbliga alla diserzione e lo induce all’esplorazione di nuovi percorsi.
Il film di Hazanavicius termina qui; quando Godard –spogliandosi definitivamente delle prerogative e dei privilegi dell’autore- non solo smetterà di firmare le sue opere, ma accetterà di filmare come esige la trouppe, anche quando eventualmente lui non lo condivide.
Noi oggi sappiamo che quella stagione di cinema militante cesserà presto e che Godard smetterà per anni persino di fare film.
Tornerà all’inizio degli anni Ottanta con Passion, Prenom Carmen, Je vous salue Marie; acclamato e premiato da quelle stesse kermesse cinematografiche da lui un tempo tanto aborrite.
Ma non sarà né un tradimento, né una sconfitta. E di questo ne è convinto indubbiamente pure Hazanavicius.
Hazanavicius ci consegna un film che ostinatamente si rifiuta di farsi documentario o reportage. Hazanavicius fa cinema, semplicemente cinema, e non lo nasconde. Gioca con la sceneggiatura. Strizza l’occhio allo spettatore e gli ricorda: bada, stiamo soltanto recitando. Nelle sue scene accetta sovente che il teatro di posa si sveli. La messa in scena, per il regista transalpino, è talvolta la ragione stessa della messa in scena. E adora oltre misura la citazione con cui non nasconde i suoi debiti con tutti i padri nobili, compreso il Godard della sua fase maggiormente sperimentale.
Ed è in questo, forse, l’importanza de La redoutable: nel riconoscere la non vanità di tutte le ricerche del passato; di tutti gli scatti di sovvertimento; anche di quelli più maldestri e non riusciti. Nel concedere loro il lascito di un’impronta dalla quale i posteri possano comunque sempre provare a ripartire.

 

 
 
 

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