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Riflessioni sul senso del cinema: una metarecensione a “Dancer in the Dark” (von Trier, Dan 2000)

3 Ott 12

Di riccardopierodalleluche

Pur conoscendo bene von Trier, gli sviluppi senza alcun dubbio rivoluzionari del suo cinema, da “Epidemic” a “Breaking the Waves” a “Idiots”, quelle sue storie assurde e atroci presentate con una verosimiglianze che colloca lo spettatore dentro lo schermo, accantoagli attori, perfino nell'anima dei suoi protagonisti (e soprattutto delle sue protagoniste), non avrei mai pensato di soffrire tanto di fronte alla sua ultima, geniale e formalmente perfetta creazione, “Dancer in the Dark” , premiata questa primavera a Cannes con la Palma d'oro e col premio per la migliore attrice alla cantante islandese Björk.

Infatti, man mano che la storia si dipana (cioè man mano che von Trier, come mostra in una pseudo-ironica lezione in “Epidemic”, traghetta lo spettatore da un punto ad un altro col pretesto di una storia) la tradizionale “visione” cinematografica viene ad essere sostituita da una fastidiosa percezione emotiva, si sta nella sala, inchiodati sulla poltrona, bloccati da un'insostenibile angoscia. La straordinaria abilita' di von Trier e' quella di creare questa emozione, questo insopprimibile disagio, e portarlo al culmine nell'ultima scena, mediante una storia estrema ed improbabile, un melodramma insopportabile degno di un Douglas Kirk, una storia che sarebbe divenuta ridicola nella mani di chiunque altro regista; inoltre, come in“Breaking the Waves” le tappe di una tragedia venivano inframmezzati da siparietti musicali, questa apologia dell'atrocita' filmica viene ad essere spezzata da numeri di musical, reveriesdanzanti della povera protagonista cieca che, in questo suo fantasticare, ritrova la vista, il dominio dello spazio e il superamento di tutte le sue angosce, compresa quella del condannato a morte e dei suoi 107 ultimi passi. Tutto questo e' tenuto insieme da un integralismo morale che non ammette sbavature e che solleva nello spettatore più probo sentimenti di colpa originari, forse la colpa connaturata all'essere (il peccato originale?), e certamente quella di essere spettatori.

A questo punto sorge spontanea la sequenza di domande: e' von Trier (come in alcuni momenti del suo “Decalogo” Kieslowski) un sadico mascherato da moralista (in effetti dietro ogni sadico c'e' un moralista)? Quale colpa dobbiamo espiare allorche' decidiamo di pagare il biglietto per vedere un suo film? Ed ancora, siccome questi suoi film sono assolutamente perfetti, dalle immagini alle interpretazioni, dall'ambientazione all'uso della colonna sonora (ed in questo caso anche della coreografia), e' lecito utilizzare un talento indubbiamente straordinario per distruggere ogni valore dientertrainment al cinema?

La mia impressione e' che von Trier con questo “Dancer…” abbia superato ogni altro esperimento di “morte in diretta”, oltrepassando di gran lunga opere come “Nick's film” di Wenders, “Salo' e le 120 giornate di Sodoma” di Pasolini, “A Zed and two Noughts” di Greenaway, semplicemente per il fatto che il suo stile tende all'annullamento della distanza rappresentativa dai suoi contenuti a favore di una percezione diretta che abbassa la soglia di visibilita' di un film; temo che il risultato si avvicini a quello di uno snuff movie(non ne ho mai visti) ed anche che l'estetica “Dogma” si sia infilata in un vicolo cieco, sia giunta ai limiti estremi della propria applicabilita' e che si profili quindi il bivio tra la sua fine e il suo oltrepassamento.

Un ultima riflessione: nessun cronista e nessun critico ci aveva avvertiti; forse sarebbe stato meglio che all'ingresso di ogni sala dove si proietta “Dancer…” ci fosse stato scritto: “Lasciate ogni speranza, voi ch'entrate”.

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