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“SORELLE MAI” di Marco Bellocchio (Italia, 2011) Working Through…

2 Ott 12

Di Rossella Valdre'

 La realtà non si forma che nella memoria…"
(Du coté de chez Swann, M. Proust)

polit

Molto difficile scrivere qualcosa su questo film. Tentazione affascinante, allo stesso tempo, quella di entrare in questo laboratorio aperto, in questo interessantissimowork in progress che Marco Bellocchio ha costruito per la sua ultima, intensa e poeticissima opera.

Bobbio, provincia di Piacenza. Casa natale del regista, dove visse fino alla giovane età e già teatro dell'ormai primo film-cultI pugni in tasca (di cui appaiono qua e là fugaci immagini), e tuttora casa delle vacanze estive dellla famiglia. Questo il set, il luogo in cui la scena si dipana attraverso sei episodi, sei tranches de vie in cui i vari personaggi si incontrano, si separano, fanno le loro scelte, nella calura immobile delle estati di provincia. Ma perchè parlo di working throught, o potremmo dire anche con una dizione meno psicoanalitica, work in progress?

Perchè il film è frutto di un lavoro collettivo, di un laboratorio svoltosi nel tempo, dal 1999 al 2008, con gli allievi della scuola "Fare cinema" che il regista tiene a Bobbio, sede appunto della casa di famiglia e pertanto divenuto oggi luogo della memoria, della sua personale recherche, di un'originale rivisitazione che qui non si accontenta del semplice ricordare o ri-narrare i fatti, quanto piuttosto li mescola all'inventato, alla fantasia, a quella soggettiva e privatissima elaborazione che rende ogni memoria, ogni esistenza unica, speciale.

Insieme agli allievi del corso di cinema e a pochi attori professionisti, a recitare sono gli stessi membri della famiglia di Bellocchio, i personaggi reali della sua biografia: il figlio Piergiorgio, la figlia minore Elena, il fratello nella piccola parte del preside, e soprattutto le due anziane sorelle, Letizia e Maria Luisa, a cui si deve il titolo, con cognome inventato, di Sorelle Mai. E tuttavia, nonostante queste personalissime presenze, il film sfugge ogni pericolo di semplice autobiografismo, non cede alla tentazione narcisistica del parlare-di-sè nè al documentarismo vero e proprio, e neppure è un'opera di pura fantasia poichè, come ne I pugni in tasca, il luogo, le persone, gli affetti, taluni accadimenti fanno parte della storia reale del regista.

Persone o personaggi, dunque? Realtà o finzione? Passato o presente?

Ricordare, ripetere, rielaborare.

 

Sorelle Mai è un film aperto, un dispositivo insaturo che, come qualcuno ha scritto, richiede la complicità dello spettatore, la sua disponibilità a lasciarsi andare contribuendo con la propria immaginazione a riempire i buchi della storia, i non detti, i pensieri non pensati o non ancora avvenuti, senza preoccuparsi troppo di dare un senso, una linearità ad una vicenda che è sì vicenda storica, ma soprattutto interiore, una recherche riattualizzata dove i giochi possono essere ancora aperti, dinamici, in movimento. Working through.

Frequentatore intimo, seppur con un suo percorso personale, della psicoanalisi, l'Autore si muove tra realtà e sogno, tra rimembranza (i flash de I pugni in tasca) e qui-ed-ora con molta maestria, direi con naturalezza; così che perde d'importanza, se riusciamo a lasciarci andare a questo gioco, cosa è reale e cosa no, cosa è avvenuto e cosa no, se abbiamo di fronte un personaggio, d'invenzione, o una persona.

 

Estati che si susseguono nel corso di alcuni anni, abbiamo detto. A scandire il passare del tempo, le figure ai poli opposti delle età della vita: la piccola Elena, che da bimba paffutella diventa pre-adolescente e si fa portavoce di chi pone le domande, di chi interroga la realtà; e all'altro polo le due inseparabili Sorelle Mai, anziane e mai maritate perchè "a volte si nasce nella famiglia sbagliata", chuse nel mondo protetto della loro propietà e dei loro riti (la tavola, il solitario), del tutto silenziosa e forse un pò autistica una, che così affida all'altra il rapporto col mondo. Tra questi due poli che abitano la casa di Bobbio, tornano nelle estati i due figli, entrambi desiderosi di diventare attori, ma abitati da diverse inquietudini: lui più irrisolto e tormentato, lei più capace di scelte autonome, sempre meditate e sofferte. Amico fedele e consigliere sempre a fianco delle zie, il fidato ragioniere Gianni, che nella sua dolce solitudine vive a fianco delle sorelle e della nipotina come figura quasi irrinunciabile nella grande casa; non c'è decisione importante, non c'è scena che comporti uno snodo emotivo che non lo veda presente. Apparentemente a latere, è tuttavia a questa malinconica e affettuosa figuria di "ospite" che il regista affida il finale inatteso, bellissimo: un suicidio che definerei poetico, in un impianto scenico vagamente felliniano…..Ed ancora la breve apparizione di personaggi estemporanei, come le insegnanti nello scrutinio di fine scuola, tutti portatori di una loro singolarità, soggettività non banale e nel contempo non troppo definita….

Sul contenuto della storia, piuttosto esile e irrilevante in sè, non abbiamo molto da aggiungere. Solo il senso della morte sembra percorrere tutto il film, fino alla sua rappresentazione finale, attraverso il parlare ripetuto e quasi ossessivo delle Sorelle: la cappella mortuaria che tanto le preoccupa, il racconto dei bambini bocciati suicidi, i fatti sanguinari di cronaca… Ma è una morte parlata che non sembra avere alcun senso del tragico, del drammatico; è anzi un pò ironica, qualcosa che deve arrivare e che richiede una dimora (la cappella), o anche frutto improvviso di una libera scelta (il suicidio), di un'ulteriore libertà del soggetto e dei suoi mascheramenti (il frac).


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Laboratorio che potrebbe ancora evolvere, modificarsi. Nulla è dato per sempre. Il mosaico della vita rivede, riposiziona, ricolloca, come se attraverso differenti après-coup il regista rimettesse mano, con lo spettatore, alla propria storia, la rimaneggiasse continuamente. L'oggi non è allora, e tuttavia oggi è anche l'allora, ma dove possiamo sempre inserire un cambiamento, un coup de téatre…

"Il campo – scrive Antonino Ferro (1999) – coincide con la narrazione che ne viene fatta, che è già superata nel momento stesso in cui viene portata a compimento, perchè nuovi personaggi e forze emotive sono continuamente 'in cerca di autore'…." (corsivo mio). Sottolinenando, come è noto, l'importanza dell'insaturità che deve mantenere l'intepretazione psicoanalitica perchè il campo condiviso tra analista e paziente non risulti troppo ingorgato da ciò che l'analista rischia di mettervi dentro, Ferro, sulla scia di Bion e con molti altri AA, suggerisce una chiave molto vicina all'anima di questo film. Insaturo, unfinished, eppure a suo modo compatto, coeso.

Ma come potremmo evocare l'insaturità, al di fuori della seduta psicoanalitica? Mi sorgono due immagini, le due Pietà di Michelangelo, la Vaticana e la Rondanini: sono entrambe sublimi, ma l'una possiede una bellezza finita, completa, alla quale il nostro sguardo non può aggiungere più nulla, mentre l'altra, lavorata per nove lunghi anni fino alla morte dell'artista, ci consente di immaginare, sognare, partecipare, come se sui tratti mancanti potessimo anche noi contruibuire con la nostra creatività. L'insaturo, pur apprentemente meno perfetto e talora sconcertante, ci offre l'opportunità di partecipare alla costruzione del campo, soggetti attivi o, per dirla con le parole del critico, ci richiede complicità.


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Sempre Ferro (ib, p 9), citando gli studi narratologici di Umberto Eco, ricorda come le interpretazioni possibili, seppure all'interno di un'ampio ventaglio, non sono tuttavia infinite: esiste pur sempre l'intenzione del testo.

Il testo, vale a dire, ha qualcosa da dirci, possiede una sua spinta interna che nelle pur mille congetture possibili, urge per essere letto, possiede davvero una sua intenzione. L'intenzione di questo film, di questo testo scritto nel tempo (nel tempo storico e nel tempo interno) a me è parsa quella digiocare winnicottianamente con la memoria e con la realtà, di fornire così un canovaccio simile al sogno, che segua regole 'altre', di una realtà 'altra', per darci la benefica illusione di maneggiare lo scorrere del tempo, e rappresentarci la morte come un'uscita di scena teatrale, personale, la cuimessa in scena ciascuno, alla fine, può esser libero di inventare da sè.


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