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SULLY: Clint Eastwood e l’epica del fattore umano

4 Dic 16

Di Redazione Psychiatry On Line Italia
La storia è nota: nel primo pomeriggio del 15 gennaio 2009 un aereo passeggeri appena decollato per un volo interno dall’aeroporto newyorkese “La Guardia” a causa dell’improvvisa avaria dei due motori avvenuta a bassa quota (700 metri circa) per l’impatto con uno stormo di uccelli effettuò un ammaraggio di emergenza nel fiume Hudson.
La decisione di effettuare questa eccezionale manovra che portò in salvo equipaggio e 155 passeggeri fu del Capitano del veivolo della US AIRWAYS Chesley “Sully” Sullenberger che valutò impossibile, ovvero destinato ad una catastrofe, un atterraggio in uno degli aeroporti di New York, come proposto dal Controllo Aereo e optò, nel pochissimo tempo che aveva a disposizione per prendere la decisione, basandosi sulla grande esperienza e sul suo grande coraggio per la manovra irregolare e apparentemente azzardata, ma frutto della sua enorme abilità, che lo rese un eroe agli occhi dell’intera nazione e del mondo.
Clint Eastwood ci racconta nel suo ultimo capolavoro questa storia o meglio più che la storia del mancato disastro ci racconta l’avventura umana del Capitano Sully che da eroe mediatico passa il rischio di venir bollato come imprudente e avventato improvvisatore che ha messo a rischio le vite a lui affidate visto che le simulazioni al computer dell’agenzia governativa NTSB dicevano che avrebbe potuto raggiungere un aeroporto per un atterraggio di emergenza.
Messo sotto inchiesta con rischio di perdere stipendio e pensione Sully, interpretato magnificamente da un Tom Hanks in stato di grazia, che era alla fine della sua quarantennale carriera di pilota, ne esce vincitore nel momento in cui riesce ad inserire la variabile del “fattore umano” nella valutazione del suo comportamento, ovvero il tempo necessario ad un essere umano a valutare la situazione e prendere la decisione: 35 secondi che spiegano e esaltano il suo aver fatto la cosa giusta contro ogni logica procedurale standard.
La filmografia di Clint Eastwood è intessuta di epica.
Quello che io considero il più grande regista americano, assieme a Woody Allen, dei nostri giorni pur partendo da posizioni apparentemente ideologicamente lontanissime (sono note le sue scelte politiche di destra) approda alla stessa poetica di Ken Loach dell’ultimo meraviglioso “Io, Daniel Blake”, con l’affermazione del valore dell’individuo e del suo “diritto” ad affermare la centralità del “fattore umano” nello svolgersi dei fatti della vita siano essi pubblici o privati.
Eastwood è davvero in questo senso figlio legittimo dell’ultimo immenso Sergio Leone di “C’era una volta in America” e in tutti i suoi film ritorna questo tema declinato in contesti e storie diverse ma sempre presente.
Per il vecchio Clint, che Dio ce lo conservi, siamo gli artefici del nostro destino nel bene o nel male il “fattore umano” trionfa sempre come motore delle esistenze e delle scelte, con tutte le nostre umane debolezze ma pure con tutte le nostre epiche capacità di decidere il nostro futuro in cui il caso esiste, certo, ma è una variabile imponderabile che può segnare un’esistenza ma non intacca il valore della centralità dell’uomo nella costruzione dei suoi futuri possibili.
Eastwood non ci racconta solo di eroi positivi (pensiamo a quella gemma che è “Mistic River”), non ci racconta solo storie private come in “Grand Torino”, affronta pure temi storici come nel dittico su Iwo Jima ma ce lo racconta sempre con la sua mirabile capacità di narrare usando stilemi cinematografici semplici ma di una efficacia mirabile non perdendo di vista l’uomo e la sua interiorità quale centro motore degli avvenimenti che lo riguardano e quale ragione profonda delle scelte che fa.
Eastwood ci racconta la vita per come è e di questo gli dobbiamo essere grati for ever.

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