L'elaborazione del lutto
The tree of life non è un film semplice, ma sicuramente lascia il segno. Mi è sembrato suddiviso in due parti. Inizialmente la storia si dipana attraverso lo sguardo di un bambino sulla famiglia O'Brian in Texas, dominata da un padre ossessivo (interpretato da Brad Pitt) e una madre affettuosa (Jessica Chaistain), ma impotente di fronte alla rigidità del marito. È una famiglia apparentemente “normale”, dove i figli sono sballottati in maniera drammatica e patologica tra gli ordini di un padre duro e l'amore di una madre dolce e tenera, ma debole. L'infanzia di Jack è resa confusa da due genitori che gli impartiscono regole contrastanti. Il fratello minore ha un'ammirazione sconfinata per lui e lo mette in difficoltà con una cieca obbedienza. Il protagonista pur rifiutando la figura paterna e opponendosi a lui, ne assume per passi successivi alcuni tratti con un meccanismo d'identificazione istintivo. Diventa autoritario e crudele con il fratello minore, approfittando della sua fiducia e della sua approvazione, sottoponendolo a riti d'iniziazione sempre più duri. Questa “cattiveria” non tocca la “fiducia” del fratello, che diventa l'agnello sacrificale. In questa crudele relazione tra uomini, la mamma affettuosa, non riesce a porre un freno al marito e nel figlio vede solo la parte debole e non coglie quanto avviene tra fratelli. La fede religiosa dei genitori è rituale e non allieva la sofferenza aleggiante nella casa. I conflitti scoppiano nei tragici e angoscianti pranzi familiari, dove il padre evidenzia i suoi fallimenti e la sua incapacità a provare emozioni e cerca di recuperare un ruolo e una dignità costringendo i figli a chiamarlo “signore”. In altri momenti ricerca il contatto fisico con i figli cercando di trasmettere loro l'amore per la musica, ma spingendoli unicamente alla ribellione. Il padre è destinato a fallimenti lavorativi e quando si allontana da casa per lavoro, come una maledizione o come un destino, le relazioni non migliorano e il comando e l'autorità viene esercitata in maniera crudele dal figlio Jack, mentre la mamma sempre più oblativa e amorevole, diventa sorella e lascia i figli soli con i loro fantasmi. Il destino si compie con la morte del fratello “fiducioso”, annunciata da un telegramma, senza che siano fornite spiegazioni sulle circostanze della stessa. La morte del ragazzo ha un effetto catastrofico sulla famiglia schiacciata dal destino e dalla colpa. Con un salto in avanti nel tempo vediamo il protagonista Jack, diventato adulto, con la faccia sofferente di Sean Penn. La tragedia familiare ha lasciato in lui un segno indelebile, con una tristezza e una perdita del senso della vita, che banalmente potremmo definire depressione. Vedendo questo film mi sono interrogato sul rischio di semplificare la depressione e l'elaborazione del lutto, senza tener nella giusta considerazione gli effetti profondi delle perdite. Per contrasto ho pensato ai frequenti contenziosi legali sul danno biologico e sul risarcimento del lutto per le persone che hanno perso un familiare. Nella cultura contemporanea sembra che ogni tipo di perdita possa avere un valore numerico e che possa o meglio debba essere risarcito con una somma di denaro. Fa parte del senso comune il nesso immediato tra perdita e risarcimento con una negazione della fatalità e una sovra valutazione della responsabilità degli altri nella tragica fine dei nostri cari. Esistono scale utilizzate da psichiatri e da medici legali, che valutano il grado di dolore e di gravità dei lutti, con sottili meccanismi di correzione che tengono conto delle variabili delle perdite. Chissà se questi meccanismi risarcitivi e tendenzialmente ossessivi servono a “elaborare” il lutto o le persone continuano a essere dominate dalla perdita di senso con un'espressione facciale simile a quella di Jack adulto, che non ostante un lavoro di successo si trascina tormentato nella vita. Mi sono sempre chiesto che cosa ne facessero dei soldi i genitori a cui un incidente aveva sottratto un figlio e se la causa in cui io ero il loro consulente era contro l'assicurazione o contro il Dio o il destino che avevano permesso l'incidente mortale. Che bella parola elaborare, ma chissà se riesce a confutare l'invocazione di Giobbe ”perché proprio a me Signore?”. E chissà quale può essere il nostro ruolo di fronte a perdite che sono vissute come definitive. Le opere d'arte, come il film di Malick, sono uno stimolo alla riflessione su concetti che nel tempo diventano stereotipati e ci lasciano profondamente insoddisfatti. Emanuele Severino (Corriere della Sera del 30/05/2011) citando Leopardi ci ricorda che nelle «opere di genio», «l'anima riceve vita, se non altro passeggiera, dalla stessa forza con cui sente la morte perpetua della cose e sua propria» (Zibaldone, 261). Da questa parte del film possiamo trarre riflessione sulla difficoltà di essere vicini a che ha subito una perdita e che sta cercando il significato e il senso profondo di un risarcimento impossibile.
La trascendenza: i dinosauri sono empatici?
Ma allora siamo impotenti e senza speranza? Jack/Sean Penn sembra segnato per sempre dalla tragedia familiare. Da questa descrizione nasce il secondo film contenuto nell'opera di Malick. Con una serie d'immagini bellissime, ma anche un po' noiose, Malick fa una specie di riassunto dell'evoluzione del mondo, a partire dal big bang alla comparsa degli esseri viventi. Questa narrazione per immagini che ha inizialmente un tono didascalico e freddo, si risolleva e ha un momento di poesia nell'incontro tra due dinosauri di specie differenti. Uno dei due è indifeso e sofferente e alla mercé dell'altro. Secondo le teorie di Darwin ci si aspetterebbe che il sauro sano dia il colpo di grazia e si mangi quello dolente e sdraiato al suolo. Dopo averlo toccato, come se provasse comprensione, il dinosauro lo risparmia e si allontana. L'evoluzione o meglio la natura non è solo indifferente, solo dettata dalle leggi dell'adattamento all'ambiente, ma con la comprensione intesa come la sintonizzazione con l'altro e quindi con l'empatia da origine a un senso superiore e trascendente. Questo è il secondo tema del film: il trascendente inteso come una deviazione, uno scarto nel cammino predestinato della natura.
Ritornando alla vicenda di Jack, lo vediamo sempre più disperato affacciarsi alla finestra e piombare in uno spazio tempo in cui si ritrovano il padre, la madre e il fratello morto. In questa rappresentazione dell'al di là termina il film con la madre che porge/offre a cielo e ai suoi il figlio morto. Avvicinarsi al sacro per Malick è limitare l'indifferenza della natura e creare una sorta di alleanza con la natura/dio. Perché possa instaurarsi questa sintonia, si deve entrare in una nuova relazione di vicinanza con gli aspetti più profondi dell'essere. Nell'aldilà Jack ritrova non solo il fratello morto, ma anche il padre e la madre. Il collegamento con il film di Eastwood, Hereafter, è evidente. I punti di contatto sono nel lutto e della perdita come motore della ricerca del trascendente, della realtà concepita come “ulteriore”, "al di là" rispetto a questo mondo. Nella recensione di Rossella Valdré al film di Eastwood si cita un libro Mancia sull'inconscio precoce come luogo (si fa per dire…) del dopo vita, io ho pensato al recente libro di D. Stern(Le Forme vitali. Raffaello Cortina Editore 2011) sulle forme vitali e sulla presenza di una struttura cerebrale presimbolica permeata dalla “capacità innata di aprirsi alla mente degli altri”. Non voglio entrare nel dibattito tra chi pensa che l'idea di Dio sia una funzione cerebrale del pensiero e chi pensa che l'esistenza di questa funzione sia la prova che esiste un disegno “divino” che permea l'evoluzione della nostra razionalità. Mi preme invece rilevare che nel film di Malick e in quello di Eastwood è la perdita che mette in moto la comunicazione con l'aldilà. Nei due film siamo in unasituazione-limite (il dolore, la colpa, la morte), in cui i protagonisti fanno esperienza dello scacco che si subisce nel tentativo di superare e di comprendere la perdita. A niente servono i meccanismi scientifici di fronte allo scacco non solo della morte, ma della perdita di senso. In ambedue i film, la comunicazione con l'aldilà avviene con meccanismi d'identificazione empatica (il sensitivo Matt Damon con il bambino nel film di Eastwood) e presimbolici e prelingistici. Jack/Sean Penn parla poco e unicamente per esprimere la sua incapacità di comunicare in un film tutto basato su immagini (per questo forse così eccessivamente belle e insistite) e suoni. Nella scena finale è rappresentato l'aldilà o il raggiungimento di un senso nella memoria di Jack, che riesce a rappacificarsi con se stesso e con i suoi familiari. L'empatia è una possibilità, ma è sicuramente incerta e non definitiva.
Le opere d'arte sono tali perché non danno una risposta definitiva. Come diceva Leopardi, danno vita “ma passeggera”.
0 commenti