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“THE WRESTLER”, di Darren Aronofsky, Usa (2009)

2 Ott 12

Di Rossella Valdre'

Scritto sul corpo……

polit

Ci sono poche parole, in The wrestler, pochi dialoghi, una storia semplice e lineare. E' il corpo che parla, che recita.

Come nei rituali di iniziazione della mafia ucraina, che ad ogni passaggio imprime un nuovo tatuaggio sul corpo del nuovo adepto per segnarne, a poco a poco, l'intera biografia, cosi' la vita di Randy, lottatore professinista in decadimento, si racconta attraverso il corpo.

La vita di Randy e' quella dello stesso Mickey Rouke, che interpreta se stesso in questa dolente ed epica, a suo modo, storia americana dei nostri tempi

Randy, il mitico "the Ram", campione di wrestling negli anni '80, vive oggi impoverito e solo, ridotto ai limiti della sopravvivenza in una roulotte negli spazi marginali del New Jersey, precocemente invecchiato, incapace di adattarsi ad altri lavori, di 'riciclarsi' come qualcuno dei suoi ex compagni di lotta e' riuscito a fare, quando gliene e' rimasta la forza e l'integrita' fisica. Randy no, non ce la fa.

Il suo unico luogo identitario e' il ring, quel palcoscenico particolare misto di violenza sadomasochistica e di spettacolo che e' il wrestling americano, uno speciale sottobosco umano e culturale poco conosciuto da noi, ma molto ben rappresentato nel fim di Aronofsky.

Ci fa simpatia, quel mondo, ci induce pena e tenerezza. Sembra che siano finiti li' gli sbocchi esistenziali di bambini deprivati che non hanno avuto dalla vita altro che il loro corpo, forte e muscoloso, come per le donne il dono della bellezza fisica. Ci fa simpatia, quel mondo, perche' intuiamo immediatamente che tutti sono delle vittime, bestioni malinconici ridotti in poverta', gonfi di anabolizzanti e segnati dalle botte, costretti a portarsi appresso un corpo altrimenti ingestibile nella normale vita sociale.


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Un corpo esageratamente grosso, grasso, tatuato, a volte menomato, sporco. Quale posto al mondo, per un corpo cosi' disumanizzato da ricordare, per contrasto, i corpi cachettici dei campi di sterminio?

Corpi incollocabili, che hanno perso umanita', a cui non resta che la continua recita di se' stessi, in una sorta di copione imprigionante.

E' un infarto nel dopo combattimento, in quell'attimo di riposo degli spogliatoi, a segnare a Randy che il tempo e' scaduto. Si deve fermare. Il by-pass e' incompatibile con le sostanze con cui ha nutrito il suo corpo feticcio; se vuole continuare a vivere, deve smettere.

Randy ci prova. Si mette a lavorare in un supermercato, si avvicina ad una spogiiarellista a cui vuole bene, che vorrebbe fare diventare "una donna normale" e dalla quale e' anche ricambiato, tenta maldestramente un riavvicinamento con la figlia adolescente, della quale non ha mai saputo occuparsi e di cui tuttora, nonostante l'immenso bisogno che la sua solitudine reclama, non riesce ad occuparsi. Randy non e' cattivo, non e' stupido, ma non regge la frustrazione, e' ompulsivo, dimentica le cose, vive alla giornata. Tutto quello che sa fare e' manipolare il suo corpo, addestrarlo, trasfigurarlo.

La macchina da presa ne segue nervosamente i movimenti, da dietro. Un corpo prevalentemente senza volto. Il povero giaccone scucito, le mani gonfie, l'enorme testa bionda tinta sono costantemente in primo piano. Mickey Rourke offre generosamente allo spettatore la sua biografia scritta sul corpo. Senza ostentazione, ma senza sottrarsi, li' troviamo i segni di un effettivo passato da pugile (come il padre, di professione body builder), degli eccessi alcolici e di ogni tipo, dei malriusciti interventi chirurgici che ne hanno alterato pateticamente le labbra, sproporzionatamente gonfie rispetto al piccolo naso di bambino, ai piccoli occhi persi.


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Scrive Freud (1922, L'Io e l'Es), che l'Io e' prima di tutto, innanzi tutto un Io corporeo. Noi siamo il nostro corpo. Non soltanto esso ci rappresenta, ci racconta, ci segnala cosa abbiamo dentro talvolta; ma cio' che noi siamo, e' li', nella mappatura corporea della nostra storia. Nel corpo hanno sede le pulsioni, gli istinti, il motore primigenio della vita psichica.

Bambini deprivati possono trovare, nel corpo, l'unica possibile espressione personale, l'unica risorsa, e nello sport violento, l'unica disciplina. Percio' proviamo tenerezza, in genere, per i pugiii e i lottatori; miserie emotive, economiche e sociali li hanno condotti li', dove poi diventera' difficile uscirne.

"Questo e' l'unico posto in cui non mi faccio del male", dice Randy sull'ultimo dei suoi ring, quasi per paradosso. Mi faccio del male fuori, di fronte a colpi che non so parare. Qui ho riconoscimenti, il mio pubblico, la mia famiglia. Qualcuno mi apprezza, mi riconosce. Con le parole, non so parlare. Con i gesti, con le attese, non so comunicare.

Randy dimentica l'appuntamento con la figlia, non ne ricorda i gusti, non ne intuisce le esigenze. Le vuole bene, si', ma non sa come si fa. E' come se mancasse un minimo alfabeto emotivo.


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Ho rivisto dentro di me gli adolescenti violenti di quando lavoravo in una Comunita' studiata apposta per loro. Piccoli Randy, amavano gli sport violenti, amavano allenarsi, i loro volti portavano gia' i segni delle loro giovani biografie, ragazzi di vita. Quando anche provavano dei sentimenti, dei buoni sentimenti, non li sapevano esprimere. Come Randy, erano senza parole. Allora, non restava che l'azione; meglio ancora, l'azione violenta, forte, capace di imporsi e di cortocircuitare immediatamente l'angoscia. Il mondo della deprivazione e' un mondo senza parole, dobbiano essere noi a darne.

C'e' una breccia di speranza in questo film, in questa umanissima vicenda? Si', c'e' la seconda chance. Quella di Randy, che dopo vent'anni accetta di tornare a combattere col suo storico avversario, sapendo che forse ne morira', il suo cuore non reggera', ma e' come se potesse scegliere, almeno, la morte adatta a lui, la morte che arriva vivendo, come diceva Ungaretti. In parallelo, c'e' forse la seconda chance dell'attore, che non ha solo fatto un film, ma certo si e' curato attraverso il film, o almeno anche atraverso il film. Sembra uno di quei casi riusciti, e felici per chi guarda, di arte che cura la vita, di persona e personaggio cosi' intimamente intrecciati da faticare a distinguerli, e ne' importa distinguerli. Si perde di vista, a tratti, chi e' l'attore e chi il personaggio, l'uno parla dell'altro, il corpo dell'uno e' il corpo dell'altro.


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Sembra che quando Rourke, ai primi cenni di una faticosa ripresa professionale, lesse il copione di The wrestler, volle andare subito a conoscere il regista per dirgli non solo che poteva farlo, ma che lui "era" Randy, lui "era", letteralmente, "the Ram".

 

"In the clearing stands a boxer and a fighter by his trade,
And he carries the reminders of every glove that laid him down,
Or cut him till he cried out in his anger and his shame,
I am leaving, I am leaving.
But the fighter still remains
." (1)

THE BOXER, Paul Simon 1970

Nota 1

"Nello spiazzo c'è un pugile, un lottatore di professione
E porta addosso i ricordi
D'ogni guantone che l'ha messo giù
E ferito finchè ha gridato forte
Con la sua rabbia e la sua vergogna,
"Me ne vado, me ne vado."
Ma il combattente ancora rimane."

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