Nel secondo capitolo del suo acclamato lavoro The Capitalist Unconscious[i], Samo Tomšič nota come, in termini politici, l’opera di Freud presenti per così dire un doppio fondo. Superficialmente infatti, i suoi scritti si pongono come dichiaratamente impolitici. Più e più volte Freud ha ribadito che la psicoanalisi non deve essere destinata a nutrire un particolare discorso intellettuale, né tantomeno rinsaldare i limiti esterni dell’ideologia di turno. Eppure, considerando la tesi del filosofo sloveno secondo cui l’inconscio freudiano è costitutivamente politico, salta presto agli occhi come gli scritti antropologici (o comunque extra-analitici) su religione e cultura sembrino contraddire l’osservazione di partenza.
Ma prima di entrare nella discussione della tesi dell’autore, è lecito domandarsi: cosa vuol dire che l’inconscio è politico?
- In primo luogo, che esso non è una sostanza “privata”, ritirata in una prospettiva idiosincrasica e completamente disconnessa dalla realtà sociale
- Inoltre, che esso non è un contenitore universale di artefatti simbolici e di archetipi transculturali, stipati in un al di là predefinito e immodificabile (si veda l’inconscio collettivo di Jung)
A riguardo, per Tomšič il doppio fondo politico della strategia impolitica freudiana è rinvenibile nell’apparente omissione di due termini fortemente connotativi delle applicazioni radicali della psicoanalisi (si pensi alle teorie di Reich e Marcuse), che confermerebbe la tesi di Robinson secondo cui la propensione conformista di Freud (“uno dei maggiori antiutopisti dell’inizio secolo”[iii]), il suo pessimismo storico, si risolva in un rifiuto di adattarsi pacificamente all’ordine costituito. La prima di queste assenze rappresentative è il termine “capitalismo”, che per Tomšič deve essere rinvenuto nella scelta – solo apparentemente – più neutrale e mediata di “civiltà”, a sua volta in stretta associazione semantica con il termine “cultura” – devo dire che, sebbene non possa sviluppare qui un’adeguata contro-argomentazione, trovo questa associazione complessivamente insoddisfacente. L’altra sostituzione avverrebbe invece con il termine “ideologia”, la cui assenza viene rimpiazzata dall’equivalente Weltanschauung, letteralmente “visione del mondo”. Con questa parola passe-partout, Freud intenderebbe designare, ad un primo livello, le concezioni offerte all’uomo da arte, religione, filosofia e, dulcis in fundo, politica; secondariamente, essa farebbe riferimento a qualsiasi tentativo che pretende di totalizzare la realtà, di confinarla entro una particolare cornice di senso – o, come direbbe Laclau, in un’egemonia. A quale scopo? Letteralmente, per tappare i buchi del reale con le toppe del senso. Come scritto nella Lezione 35 dell’Introduzione alla psicoanalisi, una Weltanschauung è “una costruzione intellettuale che, patendo da una determinata ipotesi generale, risolve in modo unitario tutti i problemi della nostra vita e nella quale, per conseguenza, nessun problema rimane aperto e tutto ciò che ci interessa trova la sua precisa collocazione.”[iv]
Perciò, alla stregua di tante e disparate religioni[v], le Weltanschauungen fungono nella critica freudiana da vere e proprie matrici di senso che, sulla base dei propri assunti, si premurano di fornire risposte ultimative ai dubbi dell’uomo e indirizzarne le intenzioni verso i propri ideali. Insomma, per Freud l’ideologia è un tappabuchi che ha la risposta ad ogni possibile quesito.
Un lacaniano direbbe che le concezioni del mondo propinate dall’ideologia non sono altro che discorsi che, colmando con il senso il buco della verità, mettono in scena l’esistenza di un Altro (ad esempio, l’Io forte della psicologia dell’Io e delle dottrine liberaliste, il Mercato del Capitale, il Dio dei cristiani), la cui – vuota – essenza non ha che da essere tratta alla luce attraverso un progressivo adattamento alle condizioni della sedicente realtà da esso delineata (l’adattamento sociale, la produttività, la redenzione).
Ma al di là della psicoanalisi francese, per un fachinelliano – ammesso che sia lecito ricorrere ad una simile etichetta – non è forse questa la manifestazione più chiara ed esplicita della distinzione tra una psicoanalisi delle domande ed una delle risposte? Non è forse questo il senso ultimo del celebre scritto Che cosa chiede Edipo alla Sfinge?[vi], in cui Fachinelli critica le psicoanalisi prescrittive e dogmatizzate post-freudiane? Uno degli obiettivi del presente scritto è di sviluppare il potenziale della distinzione proposta da Fachinelli che, lungi dal ridursi ad una goffa forma di volgare freudo-marxismo, fonda le basi per una critica oculata tanto della psicoanalisi ortodossa quanto del marxismo “scientifico”[vii].
In secondo luogo, esso si propone di sviluppare proprio i rapporti che Fachinelli ha intessuto con le politiche marxiste, utilizzando come indispensabile strumento guida la sua produzione degli anni Settanta apparsa sulla rivista L’erba voglio. Se i contributi di Fachinelli alla rivista Il Corpo (1965-1968) ospitano i suoi scritti più vicini al marxismo (senza tuttavia mai abbandonarsi ciecamente ad esso), le pubblicazioni apparse sulla rivista fondata e diretta insieme a Lea Melandri possono essere ripensate come un esplicito confronto critico con esso, oltre che con la sua più intransigente messa in questione.
È bene però avanzare due considerazioni preliminari:
- Anzitutto, come accennato poc’anzi, i rapporti di Fachinelli con il marxismo non sono univoci e immediati, ma presentano alcune rilevanti criticità. Anzitutto, sembrerebbe che in Fachinelli vi siano due marxismi. Da un lato, quello recepito attraverso la lingua madre della psicoanalisi, la cui epitome è la riflessione compiuta in Materialismo dialettico e psicoanalisi di Wilhelm Reich (1965) e che funge da strumento puramente teoretico per tentare una riunificazione della dimensione individuale con quella sociale, secondo Fachinelli irreparabilmente scisse dopo il rifiuto operato nei confronti di Reich da parte sia della psicoanalisi, sia del comunismo. Dall’altro, c’è un marxismo più politico, che anzi viene inficiato e screditato dai suoi stessi presupposti teorici (l’incapacità delle classi di riassorbire il movimento studentesco, la subordinazione dei presupposti etici del comunismo alle logiche di dominio del partito) e che Fachinelli attacca duramente negli scritti non clinici degli anni Settanta. C’è inoltre da dire, per mantenere la dovuta obiettività, che Fachinelli non si è mai impegnato in una critica diretta dell’opera di Marx. Sebbene alcuni suoi scritti lasciano trasparire la frequentazione di alcune opere del filosofo tedesco – specialmente degli scritti del periodo giovanile –, egli ha sempre recepito ed elaborato le sue tesi da due diverse anticamere: quella della psicoanalisi e dei suoi tentativi di sintesi con il materialismo dialettico da una parte, quella della realtà sociale concreta e del partito, nonché del cosiddetto marxismo scientifico/insediato, dall’altra. Cercherò di sviluppare le conseguenze di questa mia riflessione a tempo debito.
- Come la rivista dimostra nel suo complesso, la riflessione di Fachinelli sul marxismo – che non si esaurisce in una discussione teoretica astratta, ma assume i tratti di una vera e propria critica sociale[viii] – non è un soliloquio, né una dissertazione ex-cathedra, ma risente di un reciproco modellamento, di una compenetrazione totale e proficua con altri significativi contributi. In tal senso, L’erba voglio non è stato semplicemente un contenitore passivo che si è limitato ad accogliere gli scritti dei suoi autori, ma un vero e proprio strumento di mediazione dialettica. Come vedremo più avanti, è come se alcuni dei testi trovassero il proprio compimento solo in contributi successivi, attraverso altre penne (tre su tutti: Il deserto e le fortezze, Mutilati volontari, L’infamia originaria), come in una sorta di ripresa propulsiva, o come negli spazi separati ma indistinti di una circolarità claustrofilica.
Freudismo e freudo-marxismo in Essi vivono (1983)
Dichiarando la psicoanalisi impolitica, Freud intendeva prima di tutto sottrarla all’utilizzo strumentale delle visioni del mondo, alle sue applicazioni ideologiche. Ma non solo essa non conduce a nessuna visione del mondo, piuttosto la sua posizione è direttamente opposta al lavoro dell’ideologia: stanare, non coadiuvare o mimare, il lavoro di tappabuchi delle Weltanschauungen. In che modo? Portando alla luce la particolare – e non immediata – relazione di queste costruzioni con il desiderio inconscio. La scoperta freudiana, il suo contributo alla critica dell’ideologia, sta proprio nello smantellare la natura pre-critica di queste ultime. Difatti, a prima vista, una particolare visione del mondo (ideologia) appare come un’interpretazione neutrale, una realtà oggettivata e costruita secondo una specifica ed imparziale prospettiva, che di volta in volta si impone come universale e necessaria. Eppure, per essere freudiani, non è sufficiente applicare la volgare soluzione demistificatoria (secondo cui ciò che ci appare come universale e necessario non è altro che l’imposizione egemonica di una realtà particolare, frutto di un discorso specifico e, pertanto fittizio), ma bisogna compiere un passo in più. È necessario evidenziare come il discorso particolare che regge la nostra realtà pseudo-universale non solo sia oggettivamente frutto di un fantoccio, ma soggettivamente sorretto dal lavoro (Arbeit) di un particolare desiderio inconscio. Per sostenere quanto sto dicendo, prendiamo un esempio cinematografico: in Essi vivono (1988), John Carpenter ci mostra come John Nada, il prototipo dell’average guy disoccupato e dissoluto, rinvenga degli strani occhiali da sole che, una volta indossati, gli mostrano che il suo mondo, la sua realtà, non è ciò che sembra. Attraverso le lenti, Nada scopre che l’ammiccante mondo che lo circonda (cartelloni pubblicitari, riviste, vetrine dei negozi) è la messinscena frutto di una propaganda totalitaria, il cui contenuto reale abbonda di messaggi consumistici e repressivi. L’interpretazione convenzionale del film vede in esso un messaggio puramente emancipatorio, simile alle distorsioni freudo-marxiste per cui le politiche repressive e totalitarie della società capitalistica devono essere sovvertite attraverso la liberazione totale del desiderio sessuale. Eppure, il problema principale di queste posizioni è che esse sono totalmente unilaterali e, vedremo, complessivamente pre-freudiane. Secondo le filosofie radicali ispirate o fondate sulla psicoanalisi, politica e sessualità sono intimamente legate: la repressione sessuale è uno dei principali meccanismi di controllo politico. Lo scioglimento di questi legami repressivi, che culminerebbe in un totale edonismo, condurrebbe l’uomo alla felicità e all’indipendenza. In tal senso, la soluzione offerta da Essi vivono apparirebbe puramente marcusiana (o per lo meno del Marcuse di Eros e civiltà): la realtà che mi circonda non è reale, ma il risultato complesso della codifica (oggettiva) del principio di prestazione, ovvero del modo in cui la civiltà moderna orienta e distorce le mie pratiche di soddisfacimento ai fini della produzione. Una lettura freudiana del film invece compirebbe un passo in più: direbbe che la realtà che John Nada percepisce senza le lenti speciali non è meramente il frutto della distorsione consumistica impostagli dalle truculente logiche di mercato (una semplice realtà oggettiva), ma una realtà oggettivamente soggettiva. La costruzione di ciò che egli vede quotidianamente non è il mero specchio del principio di produzione, ma il risultato di questa codifica più il desiderio inconscio. Anzi, la codifica di questo scenario è essa stessa il desiderio inconscio. Il lavoro dell’inconscio è ravvisabile proprio a questo livello: nella produzione di una soddisfazione allucinata, il cui materiale grezzo viene fornito a partire dalla realtà quotidiana. Come scrive Tomšič:
“la realtà sociale non si limita semplicemente a reprimere o a sopprimere il potenziale creativo del desiderio, della pulsione, della sessualità, ma funge da sua privilegiata articolazione, ne è la consistenza.”[ix]
Non a caso, trent’anni prima del discorso sulle Weltanschauungen, non era proprio Freud che riconduceva la soddisfazione di una tendenza inconscia attraverso la produzione di formazioni simboliche al sogno? Nel sogno è errato ricondurre il desiderio inconscio al contenuto latente, camuffato e da portare alla luce per mezzo dell’interpretazione. Esso è piuttosto il meccanismo stesso che deforma le scenografie reali, i resti diurni (Tagesreste), in un contenuto manifesto, contraffatto. Allo stesso modo, un’analisi che si voglia freudiana, per evitare di ridurre il soggetto ad un althusseriano effetto delle formazioni ideologiche, deve necessariamente prendere in considerazione la complicità inconscia di quest’ultimo nella strutturazione della realtà percepita, deve considerare tale oggettivazione come radicalmente soggettiva, ovvero codificata allo scopo di dirigersi verso la soddisfazione inconscia (ed asintotica) del desiderio.
L’evidente parallelismo tra Weltanschauung e sogno dimostra come nell’inconscio e nella realtà sociale siano in atto le stesse dinamiche strutturali: ciò che in John Nada produce la “demistificazione” della realtà materiale, e che una critica freudo-marxista non coglie, sono esattamente le lenti, la struttura (inconscia) attraverso cui da un lato si staglia la realtà simbolica, eroticamente investita, e dall’altro non la realtà nuda e cruda, un presunto reale oggettivo e pre-simbolico, ma letteralmente il deposito di tutti i supporti attraverso cui (e su cui) il nostro desiderio inconscio scorre e, scorrendovi, produce lavoro. In Freud, ogni formazione ideologica mira essenzialmente alla soddisfazione di un desiderio.
A questo punto, riprendendo il discorso di apertura, notiamo come rispetto all’ideologia la psicoanalisi intervenga ad un altro livello:
“la sua funzione non è quella di fornire le condizioni per la soddisfazione [del desiderio], ma di smascherare i meccanismi che articolano il desiderio inconscio in uno specifico dispositivo di soddisfazione, rivelando così che dietro l’apparente conflitto tra il desiderio e la realtà sociale esiste una certa complicità tra il desiderio e l’interpretazione. Per questa ragione, la psicoanalisi non “libera il desiderio” ma trasforma, attraverso l’interpretazione, il formale meccanismo di soddisfazione, indirizzando il soggetto verso il nucleo problematico del modo di produzione inconscio.”[x]
Psicoanalisi delle domande e psicoanalisi delle risposte: margini etici
Leggendo quanto scrive Tomšič non si può non pensare al motto etico della psicoanalisi e alla sua problematicità interpretativa. Come mostra Sergio Benvenuto in Finale al femminile[xi], esistono due distinte letture del celebre adagio di fine analisi formulato da Freud, Wo Es war soll Ich werden, strettamente dipendenti dal tipo di traduzione cui ci riferiamo.
La prima, che alla lettera suona “Dove Cosa (Es) era, là io devo voler subentrare”, adattativista e discriminante le cosiddette psicologia positiva/cognitiva, implica un rafforzamento difensivo dell’Io. La seconda, che Benvenuto rende con “Dove Cos’era, là io devo voler addivenire” indica una lettura “dionisiaca”, per cui il soggetto “acced[e] al luogo dell’inconscio non diventando esso stesso inconscio, ma assumendone la vocazione originaria e singolare.”[xii] Insomma, come è noto, “sono possibili due ideali psicanalitici polari a seconda che si interpreti il mio dovere di subentrare al posto dell’inconscio, oppure di entrare nello spazio dell’inconscio.”[xiii]
È evidente qui come le letture si polarizzino in un modo tale da facilitare la nostra digressione.
La lettura post-freudiana, da un lato, massicciamente subordinata alle richieste del liberalismo economico, ha finito per degenerare in un’ortopedia che, orientata a reintegrare l’individuo nell’ordine sociale esistente e conformandolo alle esigenze produttive post-industriali, rispecchia la puntuale violazione dell’incompatibilità tra psicoanalisi e ideologia raccomandata da Freud. Che il soggetto debba rinforzare il proprio Io [ego] modellandolo su quello dell’analista, o che debba adattare le proprie esigenze alle aspirazioni sociali (e quindi capitalistiche), non vuol forse dire infarcire gli obiettivi del trattamento propinando un senso preesistente e idealizzato, estratto da una presunta morale della buona convivenza? Non vuol forse dire chiudere gli sbocchi realizzativi del trattamento ad un esito seriale, standardizzato? D’altro canto, non è forse la seconda lettura maggiormente in linea con il programma freudiano, per cui lo scopo dell’analisi è creare le condizioni affinché il soggetto possa produrre il proprio irripetibile atto trasformativo?
Come già anticipato, Fachinelli ha denunciato questa opposizione proponendo la distinzione tra una psicoanalisi delle risposte ed una delle domande. La prima consisterebbe nella “assunzione rigida di [uno] stile e modello di lavoro” favorito da “una canonizzazione dell’analisi”[xiv] per cui il lavoro analitico viene subordinato ad una pratica reazionaria e cieca al cambiamento, sempre più mirata al “controllo della devianza”[xv] e le cui fattezze aziendali vengono consacrate nelle dinamiche dell’analisi didattica. La seconda, che Fachinelli delineerà più chiaramente solo anni dopo, ormai alla fine della sua vita, si basa su di un indebolimento delle difese che non ha lo scopo di sostituire i meccanismi adattivi, non più efficienti per l’adeguamento del soggetto alla società e alle sue richieste, al contrario. Tale alleggerimento, necessario affinché si colga il supporto soggettivamente oggettivo della realtà, non chiude le possibilità al soggetto tentando di conformarlo ad un ideale pregresso, con il risultato di inchiodarlo ad un passato incoercibile, ma lo lascia aperto alla svolta. Tale apertura è la condizione necessaria, per Fachinelli, affinché si possa manifestare il desiderio, che non è mai un condizionamento aprioristico, ma sempre un’apertura al futuro.[xvi]
L’aperta lacerazione indotta da una psicoanalisi delle domande è esattamente lo spartiacque etico che, freudianamente, rimane fedele ad “un programma il cui adempimento è differito nel futuro”.[xvii]
Certo, Fachinelli non era così ingenuo da predicare una intransigente e riottosa eversione del desiderio. La molla etica della sua psicoanalisi però consisteva proprio in questo amalgama di realismo ed utopismo (che altrove ho definito utopismo non-utopistico), per cui si rimane fedeli a se stessi solo se si mantiene viva la fedeltà al proprio desiderio, alla propria domanda inammissibile e inopportuna, che non può trovare soddisfazione in nessuna risposta pregressa, formulata in anticipo.[xviii] Insomma, per Fachinelli l’etica consiste nel preservare – e con ciò far emergere – il proprio desiderio anche laddove il mondo offre un’insormontabile sponda di resistenza.[xix]
Ora, a mio avviso, questa sua persistenza è stata pervasiva per l’intero progetto che, dal ’71 al ’77 ha impegnato il collettivo riunitosi nella transitoria ma significativa iniziativa de L’erba voglio, probabilmente la più ricca e originale proposta editoriale emersa dal ’68. Nella Prefazione a Il desiderio dissidente. Antologia della rivista <<L’erba voglio>> (DeriveApprodi, 2018, 249 pp.), Lea Melandri scrive che Fachinelli “più di tutti aveva contribuito alla <<unitarietà complessiva>> della proposta teorica e politica” della rivista e ne esalta la “geniale lungimiranza”[xx], concettualmente espressa dalla sua logica del desiderio, vero e proprio catalizzatore etico dell’iniziativa. Non è da escludere dunque che sia stata proprio l’ostinazione di quel desiderio “inevitabile e imprevedibile”[xxi] da cui prende il nome la raccolta a fornire il terreno di coltura necessario alla diffusione di quelle pratiche che, tanto indigeste all’ortodossia della sinistra ufficiale, si riversarono anche in ambiti lontani dalla psicoanalisi (dall’antiautoritarismo alla pedagogia, passando per il femminismo, l’antipsichiatria, le lotte operaie e la controinformazione).
E, a riguardo, non è un caso che la pervasività del desiderio inconscio freudiano sostenuta strenuamente da Fachinelli e adottata dal desiderio indistruttibile che chiude l’Interpretazione dei sogni rappresenti il paradigma etico-politico della rivista. Mi riferisco in particolare ad un passaggio riportato a pagina 34 dell’antologia, in una nota redazionale che segue L’apprendista e il fotoromanzo di Valentina Degano e che recita:
“Solo un agire che riesca a trasferire su di sé la capacità di mutamento che è ora del sogno, potrà eliminare la necessità di quei sogni; un agire che spezzi la separazione tra sogno (impossibile) e realtà (più che possibile).”[xxii]
Il cui riverbero, anni più tardi, ricorre anche nelle parole di Lea Melandri:
“Paradossalmente, è la curiosità spinta di un’intelligenza lucida a riconoscere, nella comparsa di “nuove barbarie” l’astuzia di Eros per salvare una civiltà esaurita (…); è la coscienza vigile a consegnare al sogno le esigenze radicali del presente, il possibile attualmente impossibile.”[xxiii]
Credo che l’attualità di Fachinelli e del discorso emerso, nel complesso, dall’esperienza de L’erba voglio stia, alla fin fine, essenzialmente in questo: nonostante sia la rivista, sia alcuni spunti teorici di Fachinelli siano pesantemente indebitati con situazioni strettamente contingenti (vedi il ’68 eccetera), il verificarsi di queste ultime ha sedimentato qualcosa di più resistente al mero trascorrere delle epoche storiche e, come vedremo più avanti affrontando il tema della rivoluzione e dell’intempestività del marxismo politico, di strettamente legato alla dinamica del sogno in termini di modo possibile di formulare, e quindi di chiedere, l’impossibile. Prima di arrivare a questo discorso, che costituirà la conclusione dello scritto, ritengo sia necessario spendere alcune parole su L’erba voglio.
L’erba voglio: la voce del desiderio dissidente
Sebbene Fachinelli avanzi inizialmente la sua distinzione della psicoanalisi delle domande e delle risposte durante un Convegno (il testo fu poi pubblicato sui Quaderni piacentini), il principale sviluppo di questa distinzione è ravvisabile nel corso dei suoi scritti apparsi su L’erba voglio, in cui la sua proposta, in odor di nexologia, trova spazio applicativo anche per una critica al marxismo ortodosso.
Non potrò dedicarmi qui ad una esaustiva trattazione dei rapporti tra Fachinelli e la critica dell’economia politica. Ciò che posso premettere però è che è un errore, a mio avviso, licenziare i rapporti dello psicoanalista trentino con la teoria marxista con un suo semplice e sbrigativo abbandono per insofferenza alle ortodossie. Certo, la dogmatizzazione di buona parte del marxismo italiano in quel periodo, all’indomani del fallimento del ’68, ha giocato un ruolo cruciale nell’opinione di Fachinelli. Ma ritengo che quello che solitamente viene letto come un rapporto duale, bilaterale (Fachinelli e il marxismo), meriti di essere riletto alla luce di una relazione triangolare (Fachinelli, marxismo e Marx), oltre tutto sempre aperta al dialogo con la psicoanalisi.
Nella postfazione del 1973 de Il desiderio dissidente inoltre, Fachinelli discute diffusamente le ragioni per cui la sua analisi della realtà sociale post’68 mancasse – come gli avevano prontamente fatto notare i marxisti – di un’interpretazione in termini di conflitto di classe. Egli ritiene che questa scelta abbia senso solo se i soggetti del conflitto vengono inquadrati esaustivamente all’interno di un sistema di produzione con parti e ruoli specificatamente definiti. Gli studenti, in tal senso, non erano inquadrabili in alcuna specifica posizione sociale e, pertanto, non solo per Fachinelli un’analisi del conflitto di classe era loro inapplicabile, ma viceversa la loro stessa inclassificabilità dimostrava una clamorosa falla nella cornice teorica marxista.
Oggi, una teoria materialista del soggetto non avrebbe difficoltà a definire le tesi di Fachinelli non abbastanza radicali: anziché assumere le conseguenze del revisionismo come non sufficientemente marxiste, si obietterebbe, egli è rimasto intrappolato in una sua critica interna, finendo per combattere l’inadeguatezza del concetto di “classe” attraverso i mezzi di un vitalismo crasso e universalista. Da parte mia, ritengo che sia possibile sottrarre – quasi del tutto – Fachinelli a questa critica ricorrendo alla sua strenua fedeltà a Freud: sebbene l’abbaglio del ’68 abbia aperto una parentesi nel suo pensiero in cui la negatività è per un attimo venuta meno, la trappola vitalista viene scongiurata dal fedele ricorso alla pulsione di morte, che aleggia sovrana in tutti i suoi scritti pre-’68 e che gli ha garantito una sufficiente profilassi critica anche sotto le luci accecanti dell’atmosfera rivoluzionaria. Diversamente dai freudo-marxisti inoltre, in Fachinelli non vi è una opposizione tra pulsioni e cultura unilineare (si veda L’ipotesi della distruzione in Sigmund Freud), ed il conflitto emancipatorio non trova sbocco in una semplice lotta alla normalizzazione, ma si svolge secondo dinamiche decisamente più complesse (si veda Il desiderio dissidente). Rimane comunque fermo che un inquadramento di Fachinelli nell’ottica vitalista costituisca già un passo in avanti – per quanto si riveli alla fine una falsa partenza -, in quanto implica un approccio alla sua figura anzitutto metapolitico.[xxiv]
Ad ogni modo, come già avanzato, svilupperò le premesse teoretiche di questo discorso in un lavoro a parte, conservando invece una sintetica discussione dei rapporti tra Fachinelli e la cosiddetta applicazione empirica del marxismo italiano per la fine di questo saggio. Per ora, basti dire che L’erba voglio è un progetto scaturito da presupposti del tutto sovversivi, come sovversive apparivano le parole depositate dalla penna del giovane Marx dell’undicesima tesi su Feuerbach:
“I filosofi hanno solo interpretato il mondo in modi diversi; si tratta però di mutarlo.”[xxv]
Per il giovane Marx si tratta di abbandonare le interpretazioni sul mondo (le sue Weltanschauungen, potremmo dire) e riversare il filosofare in una praxis, tradurre la dottrina in atto. A riguardo, la rivista fondata e coadiuvata da Fachinelli e Melandri deriva da una vera e propria messa in atto delle tesi antiautoritarie post- e peri-sessantottine, l’esperimento dell’asilo autogestito di Porta Ticinese su tutte. Come notano succintamente Conci e Marchioro, “la prassi teorica e politica [di Fachinelli] di quegli anni e del decennio successivo discende direttamente dal suo personale, coraggioso e originale confronto col fenomeno del ’68.”[xxvi]
Le radici di tale prassi divengono visibili nel 1969, in un commento a Walter Benjamin[xxvii], dove Fachinelli appoggia l’idea di una strategia educativa alternativa che scuota l’atteggiamento passivo indotto negli studenti. Quella dell’asilo di Porta Ticinese diviene così un’occasione per affiancare ai contributi teorici – e così facendo superarli tramite – una vera e propria prassi realista (nell’Introduzione al volume L’erba voglio di Einaudi, viene definito “realistico” ogni “impegno alternativo non castrato né frustrato dal confronto e ingabbiamento nella struttura scolastica sostenuta dal potere”)[xxviii].
Nonostante questa esperienza sia durata relativamente poco (circa due anni e mezzo), da essa sono scaturite iniziative altrettanto significative, prima fra tutte la conferenza sulle “Esperienze non autoritarie nella scuola”, tenutasi a Milano nel 1970, che sfociò nella pubblicazione de L’erba voglio. Pratica non autoritaria nella scuola, la cui prima parte si apre proprio con la presentazione/discussione dell’esperienza dell’asilo. Il successo dell’iniziativa sancì anche l’inaugurazione dell’omonima rivista (1971-1977)[xxix], così motivata da Lea Melandri:
“Le discussioni che sorgono un po’ dappertutto dopo la pubblicazione del libro coinvolgono anche molte persone estranee alla scuola e spiegano la sua altissima diffusione (5 edizioni in pochi mesi). [Inoltre] nel libro era inserita una cartolina: chi fosse stato interessato alle [sue] tematiche era pregato di rinviarla ai curatori. In pochissimo tempo ne arrivano circa tremila. Per rispondere a una tanto netta richiesta di collaborazione e per approfondire lo stile di lavoro delineato nel libro, nasce <<L’erba voglio>>, rivista bimestrale che esce ininterrottamente dal 1971 al 1977.”[xxx]
Come scrive Conci, la rivista “divenne il centro di promozione dell’attività a carattere emancipatorio di individui e gruppi collocati al di fuori della sinistra ufficiale”[xxxi]. Ma non solo. La rivista non si limitava a destinare uno spazio espressivo a delle voci non rappresentate secondo il “bestiario” politico ufficiale – se così fosse, sarebbe diventata a tutti gli effetti l’istituzione che si prefiggeva di scongiurare, il “ghetto della sinistra infelice”, deputato all’espressione di uno specifico e circoscritto gruppo di persone. In poche parole, una setta.[xxxii]
Il suo merito d’altro canto è stato proprio quello di offrire una controparte pratica agli antecedenti teorici ed interpretativi professati dai suoi ideatori. La sua fluidità editoriale rappresentava la cronaca e le dinamiche in atto di quella logica del desiderio repellente alla chiusura in “interni rassicuranti ed omogenei” che Fachinelli aveva già efficacemente descritto nella coppia di articoli che compongono Il desiderio dissidente. Pertanto, se il rifugio nell’istituzione non è altro che il bisogno di scartare dalla propria esperienza aspetti oscuri, pericolosi e tristi, un’idea di politica veramente radicale dovrà tenere alla luce del sole questi aspetti angosciosi e perturbanti, anziché insabbiarli goffamente. In questo Fachinelli era non fraintendibile sin dalla chiusura di Gruppo chiuso o gruppo aperto?[xxxiii]: l’accomunamento non è un processo che, una volta innescato si propaga spontaneamente. Esso va attivamente sostenuto, perché “rischia continuamente di capovolgersi (…) nel processo opposto.”
Inoltre, come nota Melandri, la radicalità del programma portato avanti dalla rivista non doveva cedere a compromessi: con le parole del Fachinelli del ’73, “non erano possibili mediazioni”. L’incapacità della politica di essere vicina a chi doveva rappresentare veniva biecamente coperta da asfissianti strati di moralismo. Il suo isolamento in “aristocratiche fortezze al limite del deserto”[xxxiv], insieme con la professione di una propaganda “solo verbalmente liberatrice”[xxxv] fecero sì che si dovesse sin da subito dare voce ad esigenze angosciose, la cui via espressiva era stata vincolata agli “inceppi del quotidiano” e alla “vitalità del corpo”, i soli ad offrire “una sponda di resistenza”, attraverso canali comunicativi nuovi, inediti.[xxxvi] Le riflessioni post-’68 sul riflesso di chiusura e settarizzazione, il tentativo finalmente formulato dalle donne di uscire dall’alienazione maschile, la critica aperta alle derive reazionarie di psicoanalisi e marxismo e alla loro incapacità di rispecchiare la realtà sociale del movimento studentesco senza distorcerla o ricondurla a schemi pregressi, rigidi (logiche del complesso edipico da un lato, concetto di classe dall’altro) prospettavano uno scenario inedito, in cui “il vecchio tipo di rivoluzione non interessa più” e quello che ci vuole è “una pratica politica diversa” e per questo “difficile”.[xxxvii]
Antologia e struttura de L’erba voglio
Dividendosi in cinque sezioni, l’Antologia fornisce la chiave di lettura essenziale dell’intera rivista. È infatti proprio questa compattezza logica a giustificare l’apparente anacronismo dei contributi e a rivelarne l’impianto sincronico, che fa dialogare le parti senza pretendere di ridurle ad un’unica voce.
La prima e più ampia sezione (Contrappunto) ad esempio, che mutua il suo titolo da un termine musicale, designa “la non subordinazione dei diversi linguaggi incontrati nella realtà (…) a un momento centrale, predominante”[xxxviii]. E quale miglior rappresentante si può trarre da questo denso elenco di scritti dei tre momenti de Il deserto e le fortezze (poi rinominato Il paradosso della ripetizione[xxxix])? Al di là delle letture tradizionali di questo acuto trittico (l’analisi dei tre tipi di ripetizione, l’anticipazione della “femminilizzazione intrigante” che seguirà Fachinelli fino al suo ultimissimo lavoro, ecc.), e per quanto mi interessa qui portare alla luce, credo che il suo contenuto sia imprescindibile per chiunque voglia impegnarsi in una lettura critica di Fachinelli. Questo perché, per la prima volta, lo psicoanalista trentino arriva a pensare quella forma di negativo necessario (l’”immensa esperienza negativa”) in un modo che si rende indipendente dalla psicoanalisi freudiana (questo ruolo era stato precedentemente affidato alla pulsione di morte e all’astuzia di Eros), senza il quale “rimarremmo sempre nell’ambito di una coppia concettuale, che è essa stessa all’origine delle difficoltà che intendiamo superare.”[xl]
Detto altrimenti, l’approfondita analisi di ripresa, replica e riduzione, che non è altro che il modo in cui la differenza – tra la realtà in cui si sono costituite le regole e la realtà propriamente detta, ritagliata[xli] – viene inscritta nel piatto vitalismo post-freudiano, è un risultato che viene reso possibile solo dalla precedente assunzione della negatività che tiene unite la storia da un lato, la struttura dall’altro. Anzi, è proprio qui che Fachinelli pronuncia “il senso e il limite di tutti i tentativi di marx-freudismo, o di freudo-marxismo”[xlii] come l’incapacità di far uscire il pensiero dalla rigidità binaria delle precedenti soluzioni. Questa negatività “irriducibile a ciascuno dei termini della coppia”[xliii] è un nesso che isola un ambito reale non esauribile dai poli della biologia e della storia: il tempo. “Un ritmo temporale peculiare, che s’intreccia (…) con il tempo tartaruga del supporto biologico e con il tempo-freccia della società storica.”[xliv]
Il tempo, che nei successivi lavori egli frammenterà prima (La freccia ferma), dilaterà poi (Claustrofilia) è il fondamento dell’antropologia filosofica di Fachinelli.
Nella seconda parte (Chi siamo), sono raccolti dei tranci che, per quanto frammentari e stringati, sono fondamentali per preservare la natura estima della rivista, il suo appartenere alla categoria dei periodici pur essendo decisamente non convenzionale (per argomenti, linguaggio, ma anche per il modo di relazionarsi con il lettore), il suo essere sostanzialmente politica pur non riconoscendosi in alcun programma politico tradizionale/parlamentare. Non a caso, il contributo redazionale del febbraio 1972 avanza proprio le ragioni per cui il comitato non si debba formalizzare in un partito, cioè adottare “la via percorsa da decine di <<avanguardie>> che si sono puntualmente ritrovate, alla fine, a dividersi lo spazio del ghetto – il ghetto della sinistra infelice, battuto dal vento della rivoluzione lontana, e gelato nella propria impotenza.”[xlv]
Il non costituirsi partito, ma il rimanere un gruppo autonomo, sganciato da posizioni di potere istituzionale, e anzi in netta opposizione con esse – è la condizione necessaria affinché la rivista rimanga in piedi. Non a caso, è proprio questo che nel febbraio-marzo 1977, tra motivazioni economiche (la difficile divulgazione), politiche (l’ingresso del PCI nell’area del potere) ed etiche (non ridurre la voce della rivista ad eco, ritualismo, parola d’ordine) conduce la redazione a pronunciare una sorta di atto di dissoluzione (“dobbiamo dire che questo tipo di lavoro ci sembra oggi concluso”[xlvi]).
La terza parte (La vispa e il focoso) porta il femminismo dentro il dibattito antiautoritario per scuotere la realtà sociale di quegli anni “dalla paralisi che le istituzioni avevano prodotto [sui corpi e sulla] immaginazione”[xlvii]. Scrive Lea Melandri:
“Se l’autonomia che le donne chiedevano per uscire da un’<<alienazione>> che le aveva espropriate della loro vita (…) appariva condivisibile <<come misura volta a dare la parola a ciò che non ha mai finora potuto parlare in presenza, o meglio sotto, i maschi>>, più discutibile sembrava la separazione radicale di prospettiva tra l’universo femminile e quello maschile>>, la tendenza ad attribuire al gruppo di sole donne un’ideale omogeneità e coesione interna. La presenza mia e di Luisa Muraro nella redazione (…) ha voluto dire assicurare fin dall’inizio ampio spazio alle scritture (…) legate all’autocoscienza, alla pratica dell’inconscio e a una inusuale socialità tra donne allargata al quotidiano.”[xlviii]
Insomma, anche il femminismo si rivela un prezioso strumento per combattere “il salmodiare inascoltato” della liturgia marxista. Ma è bene qui apporre un punto critico, perché come il marxismo, la psicoanalisi e – come del resto insegna Fachinelli – ogni altro gruppo, è biologicamente provvisto di un riflesso di chiusura, di una pulsazione settaria, anche lo stesso femminismo deve essere passato al vaglio del suo degenere ortodosso. Come spiega Benvenuto, è noto che la redazione dette molto spazio alle femministe, ma ben presto emersero “aspetti millenaristici, catastrofisti, settari”[xlix] – Benvenuto ricorda in particolare una critica dalle tinte escatologiche recapitata in redazione a firma “Le streghe romane” -, che rischiavano di divenire essi stessi, al pari della denunciata costituzione fallocentrica dell’assetto culturale occidentale, ideologia (“radicalismo messianico femminista”) – e come sappiamo, un’ideologia non vale tanto per la sua essenza fittizia, ma per i suoi effetti reali.
È questo il caso dello scambio tra Fachinelli e le Lilith del gruppo Demau, avvenuto nel 1974. Per quest’ultime, la dilatazione della figura di madre onnipotente era da imputare ad una incapacità dell’uomo di percepire, al di là della madre, “il corpo muto della non madre”, pensabile solo come figura negativa del corpo del padre, suo supporto biologico. Per Fachinelli invece, che rispondendo alle femministe avanza anche una critica a Lacan, le minacce di riassorbimento, agglutinamento e divoramento sono da situarsi in uno scenario “molto precedente e più primitivo dell’immagine fallica”. Più precisamente, per Fachinelli le Lilith, con la loro “operazione fallocentrica così scoperta e limitante”[l], non comprendono che i fantasmi preverbali e del linguaggio del corpo, lungi dal ridursi a “semplici premesse” (in Lacan, la retroazione dell’Edipo sulla sessualità parziale e polimorfa) o ad addossarsi sulla china di una presunta potenza fallica, sono il terreno entro cui non solo questo fantasma di madre divorante si situa, ma presso il quale la stessa immagine del potere fallico viene articolata.[li]
La parte quarta (L’occhio storto), professando la necessità di conservare uno stabile strabismo, ovvero mantenere “un occhio anche di fuori” per “non alienar[si] nella rivista”, ribadisce gli intenti non settari dell’iniziativa, ma stavolta in maniera rovesciata: non più facendo uscire articoli dalla redazione, ma accogliendo contributi ad essa totalmente (ed apparentemente) estranei, non immediatamente – seppur questo nesso sia solo superficiale – affini.
La quinta e ultima parte (Il detto e il non detto), che reca l’eloquente esergo “Ciò di cui non si parla abitualmente – la vecchiaia, la follia, la morte – e ciò di cui, per varie ragioni, non si può parlare e che parla allora in altri modi”[lii] è importante per due principali ragioni.
Prima di tutto, perché concentrandosi su temi non ancora strumentalizzati e politicizzati (vecchiaia, follia, morte) offre una prima e non banale riflessione su quella che diventerà successivamente l’annosa e tutt’ora problematica questione della biopolitica. Significativo è il contributo di Lea Melandri, L’infamia originaria, che delinea l’inganno dell’ideologia capitalistica nel finto schermo della naturalità dell’economia e della politica, rinvenendo nelle crepe dell’organico e nelle resistenze della corporeità l’abolizione di quella “falsa solidità” che il sociale cerca di propugnarci come realtà oggettiva. Ciò che l’ideologia capitalista rimuove sin dall’origine è l’unione indistinta di sopravvivenza economica e sopravvivenza affettiva e la cui separazione “è il segno di un’alienazione profonda”, infame.[liii]
In secondo luogo, perché rivela “l’impossibilità ormai storica del marxismo insediato di rappresentare nei suoi termini ciò che Marx giovane chiamava la passione dell’uomo”[liv]. Il riferimento di Fachinelli al Marx umanista (il primo) trova subito una facile sponda nella psicoanalisi, riportando a galla quel desiderio indistruttibile ed infinito che pulsa al di là delle pareti del marxismo ortodosso e ne rompe i sostegni. Due sono, in questo scritto, per Fachinelli le smagliature del marxismo “insediato”: 1) l’incapacità di accogliere (e quindi di tenere a bada) gli antagonismi concreti che brulicano sotto il quadro ideologico del partito 2) la radicale eterogeneità del desiderio a qualsiasi logica interpretativa, che persiste sotto forma di “resti notturni” e riemerge puntualmente a decretare l’inadeguatezza schiacciante del programma (ideologico) marxista.
Contro il marxismo scientifico: il soggetto politico del Fachinelli degli anni ‘70
Ad oggi, uno dei pensatori che più si è scagliato contro la propaganda reazionaria della sintesi e dell’equilibrio è Slavoj Žižek. In un’intervista rilasciata a Yong-june Park dice:
“Non mi piace l’approccio per cui abbiamo due estremi e dobbiamo trovare un equilibrio, perché tale principio è per me troppo astratto. Possiamo per esempio dire che alcuni paesi non hanno democrazia e altri ne hanno troppa, si può sempre sostenere che abbiamo bisogno di un equilibrio. Ma la rivoluzione reale consiste nel cambiare l’equilibrio medesimo: la misura della bilancia.”[lv]
Probabilmente Fachinelli si sarebbe trovato d’accordo, per lo meno in linea generale, con questa affermazione. Del resto, avvicinando le parole di Žižek a Il desiderio dissidente, non ritroviamo forse nell’ideale di equilibrio qui proposto la tendenza regressiva del gruppo ad arroccarsi nella logica del bisogno, svalutando così la molla etica di fondo dell’accomunamento, ovvero il desiderio stesso? Nella celebre distinzione tra gruppo chiuso e gruppo aperto, nella continua tendenza del primo a reiterare paranoicamente l’ideale di gruppo attraverso espulsioni e frammentazioni, non ritroviamo forse una prima, lucida critica di Fachinelli alla politica marxista? E inoltre, non è forse proprio il tentativo asintotico, mai veramente attuabile di raggiungere un punto omeostatico (fittizio), di conformarsi ad un equilibrio astratto e non tangibile, il principale meccanismo di autodistruzione del gruppo? Nell’identificazione stringente al leader (che può essere sostituito dalla reificazione del Partito) quale “unico e ultimo bene” Fachinelli vede riproporsi gli schemi di sicurezza (conformisti e prevedibili) marxisti.
Nella sua ottica, il desiderio dissidente è la sola e unica manifestazione slegata dalle logiche della sinistra insediata ed indipendente dalla morsa procustea del concetto di classe. Al contrario, egli identifica nel bisogno reazionario la principale arma di condizionamento nelle mani del partito comunista (che qui, ripeto, assume una coincidenza totale con la figura di “leader”) per canalizzare gli interessi dei singoli nelle dinamiche di partito. Ma così facendo, l’ideale di equilibrio propinato dalla sinistra ufficiale, di un adeguamento facilmente tacciabile di revisionismo, preclude ogni possibile apertura rivoluzionaria. Per Fachinelli, le logiche di potere che essa porta avanti a dispetto delle masse sono evidenti prima di tutto nel modo in cui essa si relaziona ai propri seguaci, invitandoli a fare richieste plausibili, a negoziare ragionevolmente. È a questo livello che la portata eversiva del movimento giovanile fa implodere il revisionismo marxista: la sua inclassificabilità secondo i costrutti empirici e contingenti di classe ne rendeva le richieste incomprensibili, impossibili da ricondurre alla “vecchia logica” dei bisogni. La ragione per cui Fachinelli si appella all’eversività, alla novità assoluta portata dal movimento studentesco, non ricade in una semplice e sbrigativa fobia del potere (come qualcuno è arrivato a dire). La sua vicinanza al collettivo studentesco non è stata un colpo di fulmine, ma un gesto di altissima fedeltà, perché cedere sull’intransigenza, ovattare l’iniziale “NON BASTA” con il compromesso, insomma optare per una scelta moderata, è già da subito una radicalizzazione operata in direzione contraria: il gruppo semi-aperto è già chiuso. Sulla stessa falsariga, Fachinelli smonta anche la concezione marxista di rivoluzione: per alcuni marxisti (ortodossi) la propaganda rivoluzionaria agisce attraverso un sommovimento delle masse prodotto dalla frustrazione dei bisogni, immediatamente appropriati e ri-codificati dalle esigenze di partito in termini di potere. Dunque, il partito per Fachinelli non solo produce la falsa aspettativa della rivoluzione (intraprendendo nel frattempo negoziazioni del tutto reazionarie), ma parimenti soffoca sul nascere il manifestarsi di ogni autentica occasione trasformativa. Ecco perché nei suoi scritti dei primi anni Settanta, se si può arrivare a formulare un vero concetto di rivoluzione, ciò può avvenire solo fuori dal partito, “in quei punti [in cui] emerge con violenza una rappresentazione del reale apparentemente spontanea, che di fatto si rifà a modelli storico-culturali diversi, preesistenti o laterali al marxismo.”[lvi] In definitiva, l’equilibrio offerto dalla storia del marxismo non è che, nella sua misura empirica effettiva e concreta, una falsa sintesi incapace di mediare al suo interno gli antagonismi storici concreti che, periodicamente, ritornano come “resti notturni”, con “l’assolutezza e l’intensità di un rimosso infantile”[lvii]. Questi scarti, apparentemente inconciliabili con la realtà (l’inclassificabilità degli studenti), costituiscono il ripresentarsi, nel quadro ideologico, di sogni e fantasie rimosse, inadatte alla storicizzazione. È il desiderio che, tornando a chiedere l’impossibile, rivela l’incapacità della Weltanschauung di turno di fornire adeguata risposta a tutti i quesiti dell’individuo.
Perché quindi, in conclusione, è così importante, anche quando la Rivoluzione è sotto scacco, continuare a chiedere l’impossibile?
Possiamo avvicinarci alla risposta attraverso Mutilati volontari, in cui Luisa Muraro fornisce il giusto rovescio della prospettiva equilibratrice finora analizzata, mostrando che dietro le liturgie disciplinari del partito, dietro l’apparente consistenza burocratica del marxismo insediato, si cela una fondamentale scissione, una specie di (deleuzianamente parlando) soggetto schizofrenico:
“Alle masse si preferisce sempre attribuire desideri e volontà che non coincidono mai con i propri desideri e le proprie volontà: il compagno che passa il suo tempo libero a ciclostilare e distribuire volantini, può anche cercare il piacere di essere con altri, alle masse invece chiede di mobilitarsi contro il decretone; il compagno festaiolo amante della buona compagnia griderà nel comizio del I° maggio: questa non è una festa, questa è una giornata di lotta.”[lviii]
Ciò che emerge da questo discorso non è solo il fatto che una teoria “che proiett[a] immagini e figure sopra l’esperienza particolare”[lix] è per definizione antirivoluzionaria, come nota Muraro quando descrive il modo in cui l’ipertrofia ideologica del linguaggio teorico ricopre fino a sopprimere un’esperienza specifica. Ciò che più è importante notare è come il “per tutti” professato da certe dottrine pseudo-rivoluzionarie (“tutti siamo uguali, quindi tutto ci è permesso”) non è che l’altra faccia di un individualismo radicalizzato che agisce, prima di tutto, producendo una “schizofrenia” soggettiva, una separazione netta e profonda tra la capacità di pensare il possibile e quella di formulare l’impossibile. Mi spiego meglio: ciò che la giustificazione ideologica dell’atomismo sociale – nel suo schiacciamento sulla logica del bisogno – riesce ad avanzare con successo è proprio l’idea di una apparente libertà manifesta, di un permessivismo simil-edonistico che, professando la libertà per tutti perché tutto è possibile, recide proprio la prefigurazione di ciò che è impossibile, irrealizzabile, ovvero del sogno come soddisfazione allucinata di un desiderio. Per quanto possa sembrare banale, credo proprio che sia questo il punto più alto toccato dalla conclusione della nota redazionale che ho citato poco fa: “per poter veramente lavorare con la gente, per poterla concretamente toccare, bisogna passare, e non è ironia, proprio attraverso i sogni.”[lx]
Bibliografia
Benvenuto S.,
- Finale al femminile, in Aut Aut, ottobre-dicembre 2011, n- 352, Elvio Fachinelli. Un freudiano di giudizio, Il Saggiatore, Milano.
- La <<gioia eccessiva>> di Elvio Fachinelli, in Conci M., Marchioro F., Intorno al ’68. Un’antologia di testi, Massari, Viterbo 1998
Conci M., Elvio Fachinelli: a profile, in Journal of European Psychoanalysis, n. 3-4, 1996-97, pp. 157-162.
Conci M., Marchioro F., Intorno al ’68. Un’antologia di testi, Massari, Viterbo 1998
Fachinelli E., Il bambino dalle uova d’oro, Adeplhi, Milano 2010.
Fachinelli E., Muraro L., Sartori G.,
Freud S., Introduzione alla psicoanalisi, Boringhieri, Torino 1978.
Marx K., Scritti filosofici giovanili, La nuova Italia, 1976.
Melandri L. (a cura di),
- Il desiderio dissidente. Antologia della rivista <<L’erba voglio>>, DeriveApprodi, Roma 2018
- L’attualità inattuale di Elvio Fachinelli, IPOC, Milano 2014.
Tomšič S., The Capitalist Unconscious: Marx and Lacan, Verso, London 2015.
Žižek S., Chiedere l’impossibile, Ombre Corte, Verona 2013.
In futuro, sarà utile analizzare i rapporti tra questo desiderio inopportuno ed eterno e la gioia eccessiva.
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