Si tratta di un testo di riferimento importante per la precisione e la ricchezza dei dati forniti, per la grande attenzione alle sfumature emotive legate all’universo femminile e, sebbene non recentissimo, rimane uno dei pochissimi volumi nell’ambito della frammentaria e carente conoscenza della detenzione femminile.
Obiettivo del testo è quello di fornire elementi di conoscenza circa le condizioni delle donne in carcere e individuare gli strumenti più idonei per migliorarne le condizioni. Offre l’opportunità di riflettere sulla funzione della pena detentiva a partire dall’esame di quali donne vanno in carcere, per quale reato e per far che cosa.
L’Istat registra un aumento minimo ma costante della popolazione penitenziaria femminile dal 1976 al 1989.
L’immagine della detenzione femminile tracciata da questa ricerca mette in luce come oggi le donne vadano in carcere prevalentemente per reati connessi agli stupefacenti; molte sono straniere; moltissime tossicodipendenti. Per quelle di nazionalità italiana i reati connessi agli stupefacenti e le rapine si accompagnano all’esperienza della tossicodipendenza e ai processi di ostracizzazione che comporta, marginalità e illegalismo. Le straniere in carcere per detenzione e spaccio sono in prevalenza corriere della droga, al primo impatto con la giustizia.
La maggioranza delle donne oggi in carcere vi passa periodi brevi, ma ripetuti. L’esperienze della detenzione contribuisce così a radicalizzare modalità di vita sempre al limite della legalità.
Gli autori affrontano quindi una serie di problematiche legate alla pena detentiva che si pongono in primo piano per la loro delicatezza e centralità nel mondo femminile.
La situazione familiare rappresenta il punto di intersezione di percorsi, di influenze e di condizioni particolarmente significative per le donne detenute, ma allo stesso tempo sembra essere una risorsa ambivalente ed incerta: la sua positività non sembra costituire un elemento capace di alleviare il disagio legato alla quotidianità della detenzione ma, al contrario, un riferimento che di quest’ultima esalta la negatività; risulta inoltre incerta in quanto l’appoggio del partner si rivela spesso una promessa mancata.
Centrale per la donna in carcere è il problema dei figli, i quali rischiano di rappresentare una perdita reale e simbolica. Per i bambini che vivono in carcere vi è un alto grado di deprivazione relazionale in una fase decisiva dello sviluppo, e tale deprivazione è a doppio livello, nel senso che non investe solo i bambini ma anche le madri. Per quanto riguarda l’influenza che la detenzione esercita sul rapporto tra i figli e le madri detenute, come scrive Campelli nel titolo del suo capitolo, si tratta di "storie interrotte". Poche donne tra le intervistate hanno accettato di parlare di questo problema; ciò sembra emblematico del grande dolore di fronte ad una comunicazione bloccata, ad un distacco, una perdita con la consapevolezza del disorientamento dei figli e con un grande senso di umiliazione e vergogna.
Certamente non secondario è il problema della salute della donna in carcere e più in generale del rapporto con il proprio corpo: molti fattori infatti, si intrecciano intorno a quello principale del trascorrere della pena e alcuni di essi colpiscono innanzitutto il corpo. Si ha a che fare con un tempo che si aggrappa inesorabilmente al corpo per riprodurne i suoni e i silenzi, le mutazioni e le permanenze. L’impatto con l’istituzione rende il corpo nudo, lo spoglia degli elementi che gli erano più familiari, lo costringe allo sguardo dell’altro, lo mette in contatto con tutto quanto possa esserci di più estraneo. Disagio della reclusione viene immediatamente registrato da tutti i sensi, dagli arti, dal corpo nel suo complesso. Lo stato di detenzione mantiene il corpo in bilico tra salute e malattia.
La sofferenza all’interno del carcere sembra connaturata non tanto all’istituzione quanto alle persone che vi sono recluse, non alla pena in sé, ma alle donne che tale pena si trovano ad affrontare.
La domanda che più volte sorge spontanea durante la lettura del testo è se sia possibile ripensare la pena della reclusione in una prospettiva che tenda ad uscire dalla spirale marginalità-stigamtizzazione-maggiore marginalità e suggerimenti per un dibattito vengono forniti nella parte finale.
La precisione e la ricchezza dei dati raccolti sono completate ed integrate all’interno di una struttura narrativa che racconta, senza mai cadere nel dato freddo, puramente numerico, la complessa vita della donna in carcere; lo stile è vivace e molti sono gli stimoli per approfondimenti ed eventuali confronti con dati più recenti.
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