[Una redazione francese di questo testo — con il titolo "La vérité-évènement" – è stata appena pubblicata nel numero di ottobre 2009 su "Critique", la rivista mensile francese fondata da Georges Bataille: pubblichiamo qui la versione italiana dello stesso testo, con leggere modifiche e senza le note a fondo pagina (solo alcune note sono state riportate all’interno del testo). L’articolo è dedicato alla recente pubblicazione degli ultimi due Corsi di Foucault al Collège de France]
Gli ultimi due corsi al Collège de France — Le gouvernement de soi et des autres (corso del 1983) e Le courage de la vérité (corso del 1984, l’anno della morte), pubblicati per la prima volta da Hautes Etudes e Gallimard-Seuil (2008 e 2009) — rappresentano, senza alcun dubbio, un radicale rovesciamento della prospettiva teorico-politica di Michel Foucault. Chi aveva collocato Foucault sul versante di una concezione deterministica del soggetto — laddove cioè il soggetto poteva sostanzialmente apparire come esito, come prodotto, come articolazione dei dispositivi, delle istanze di sapere e di potere che lo definiscono — si troverà oggi decisamente spiazzato dopo la lettura di questi due volumi, che rappresentano, soprattutto il secondo, una sorta di testamento spirituale. Il corso del 1984, più breve degli altri (ha infatti inizio il 1° febbraio), viene tenuto nella piena consapevolezza della morte imminente, sopraggiunta solo tre mesi dopo l’ultima séance. Le courage de la vérité si interrompe con queste parole, sobrie e al tempo stesso commoventi: "Voilà, écoutez, j’avais des choses à vous dire sur le cadre général de ces analyses. Mais enfin, il est trop tard. Alors, merci". E il manoscritto del corso, a sua volta, si conclude con una frase densa, quasi programmatica: una chiusura, un congedo, e al tempo stesso la possibile apertura di un nuovo orizzonte di ricerca: "Mais ce sur quoi je voudrais insister pour finir c’est ceci: il n’y a pas d’instauration de la vérité sans une position essentielle de l’altérité ; la vérité ce n’est jamais le même ; il ne peut y avoir de vérité que dans la forme de l’autre monde et de la vie autre". Se il Foucault degli anni ’70 aveva privilegiato l’analisi del soggetto costituito, il Foucault degli anni ’80 ribalta l’impianto della sua indagine, assegnando una nuova centralità al soggetto costituente, o, per meglio dire — vista la sua consumata rottura con ogni posizione sostanzialista e con ogni metafisica del soggetto —, all’analitica dei processi di soggettivazione. Al centro della ricerca storica e filosofica, le "pratiques de soi": la capacità degli individui di costruire, in svariate forme, una "vie autre", un proprio stile di vita, una propria etica, una propria estetica dell’esistenza. La genealogia foucaultiana approda ad esiti non molto dissimili da quelli raggiunti da certi settori di punta della ricerca antropologica, orientati allo studio dei processi di antropo-poiesi — cioè di costruzione identitaria — fuori da ogni scorciatoia riduzionista [cfr. F. Remotti, Prima lezione di antropologia, Laterza, Roma-Bari 2001] Appare evidente una fertile contiguità tra genealogia e lavoro antropologico. Di più: appare evidente la curvatura antropologica che può caratterizzare, oggi, una ripresa critica e una riformulazione del percorso genealogico dell’ultimo Foucault, da noi avviata, tra l’altro, con una recente pubblicazione in lingua italiana [cfr. M. Galzigna (a cura di), Foucault, oggi, Feltrinelli, Milano 2008].
L’attività del pensiero viene dunque vista come forma di vita, come pratica individuale e sociale, come scelta d’esistenza proiettata sul "pubblico", sul mondo, sul Dehors (sul Difuori), cioè su uno scenario del tutto estraneo alla dimensione autosufficiente e solipsistica dell’homo interior di matrice agostiniana. Sia Gilles Deleuze che Judith Butler hanno correttamente sottolineato l’importanza teorica e politica di questa dimensione dell’esteriorità nell’ultimo Foucault.
Scrive Deleuze, nel suo grande libro su Foucault, del 1986, laddove riprende e riarticola la lettura di Blanchot: "Le dedans comme opération du dehors: dans toute son œvre, Foucault semble poursuivi par ce thème d’un dedans qui serait seulement le pli du dehors, comme si le navire était un plissement de la mer" [cfr. G. Deleuze, Foucault, Les Éditions de Minuit, Paris 1986, p. 104]. Scrive Butler, che aveva seguito l’attività americana di Foucault, soprattutto a Berkeley, durante i primissimi anni ottanta: "La manifestazione del sé dissolve la propria interiorità e si ricostituisce in un’assoluta esteriorità". E ancora: "Foucault dimostra come la persona debba sostituire al proprio sé interiore la manifestazione di sé" e "ribadisce" anche "come la relazione con il sé sia un fatto sociale e pubblico" [cfr. J. Butler, Giving an Account of Oneself: A Critique of Ethical Violence, Fordham University Press, New York 2005 (trad. ital. di F. Rahola: J. Butler, Critica della violenza etica, Feltrinelli, Milano 2006; per i due passaggi citati cfr. pp. 151-153). Cfr. anche J. Butler, Retour sur les corps et le pouvoir, "Incidence", 4-5, 2009, pp. 103-116]. Primato dell’esteriorità, dunque. Primato della filosofia intesa come vita filosofica. Della vita filosofica intesa come scandalo della verità. Questo il nucleo forte — e insieme la scommessa teorico-politica — dell’ultimo corso al Collège de France.Afferma Foucault, nella sua lezione del 14 marzo 1984: "S’il est vrai que la question de l’Être a bien été ce que la philosophie occidentale a oublié et dont l’oubli a rendu possible la méthaphysique" (p. 218) — evidente, qui, il riferimento critico a Heidegger — è altresì vero che un altro oblio gravido di conseguenze ha scandito molti momenti del pensiero filosofico occidentale: l’oblio della vita intesa come scandalo della verità, l’oblio della filosofia concepita, alla maniera dei cinici, come vita filosofica, come preparazione alla vita. La filosofia viene dunque presentata nel suo rapporto privilegiato con la vita, con l’esperienza: con l’esistenza più che con l’essere, diversamente da Heidegger. "La question de la vie philosophique" ha subìto un pesante "oubli", una "négligence" gravida di conseguenze: "cette négligence a rendu possibile que le rapport à la vérité ne puisse plus se valider et se manifester maintenant que dans la forme du savoir scientifique". Il pensiero — messo in scena dall’ultimo Foucault, ad esempio nella lezione del 5 gennaio 1983 — si configura come ingrediente fondamentale di un processo antropo-poietico e al tempo stesso come "foyer d’expérience": una pregnante espressione, questa, che può forse rinviare alla presenza di una sotterranea e non dichiarata istanza di carattere fenomenologico. In altri termini, ci sembra che riaffiori, qui, la tematica husserliana dell’occultamento della Lebenswelt precategoriale: cioè del mondo della vita inteso come dimenticato fondamento di senso della verità scientifica. Modi di vita ed esperienza vissuta, dunque, all’origine di ogni conoscenza possibile. Come dire, mutando il lessico: la Lebenswelt precategoriale come matrice e come fondamento del conoscere, della verità e del dire-il-vero (dire-vrai). L’evidente attivazione, qui, di una problematica fenomenologica, si afferma, in ogni caso, fuori da ogni ipostasi sostanzialistica di un soggetto sovrano e fondatore e perciò fuori da ogni riproposizione di un soggetto concepito, more phaenomenologico, come struttura a priori: come struttura priva, quindi, di una sua specifica capacità di trasformarsi,6 proprio perché pensata a prescindere dalle trame della sua costruzione e della sua costituzione.
Individuare, come ha fatto Foucault, le matrici esperienziali del conoscere — e quindi la "vérité évènement", la "vérité-foudre", la "vérité-rituel" come condizioni di possibilità della "vérité-ciel", della "vérité-démonstration" [M. Foucault, Le pouvoir psychiatrique, Hautes Etudes, Gallimard / Seuil, Paris 2003 p. 238], assunta nella sua presupposta universalità — significa muoversi entro uno scenario alternativo a quello allestito da Heidegger. Già nel corso del 1973-1974 — Le pouvoir psychiatrique — leggiamo infatti un passaggio molto significativo, che rinvia alla tematica heideggeriana dell’"oubli" con accenti critici molto vicini a quelli rilanciati nella lezione del 14 marzo 1984: "Il y en a qui ont l’habitude de faire l’histoire de la vérité en termes d’oubli de l’Être, c’est à dire que ces gens, à partir du moment où ils font valoir l’oubli comme catégorie fondamentale de l’historie de la vérité, se placent d’entrée de jeu dans les privilèges de la connaissance, c’est à dire que ce n’est que sur fond du rapport admis, posé une fois pour toutes, de la connaissance que quelque chose comme l’oubli peut se produire". Alla verità universale, "qui se constate", Foucault contrappone, senza esitazioni, una "vérité discontinue": e dunque una "vérité-foudre par opposition à la vérité-ciel". E ribadisce con voluta insistenza questa dicotomia, fino al punto da far derivare un termine dall’altro: "Je voudrais faire valoir la vérité-foudre contre la vérité-ciel, c’est à dire: montrer […] comment cette vérité démonstration […] dérive en réalité de la vérité-rituel, de la vérité-événement, de la vérité-stratégie".
La tematizzazione heideggeriana dell’oblio dell’essere, dell’abbandono dell’essere (Seinsverlassenheit), implicava dunque l’idea di una verità disincarnata: una "vérité apophantique" — così veniva denominata nella lezione del 23 gennaio 1974 — concepita come constatazione e come dimostrazione. Per Foucault è invece importante comprendere analiticamente un certo modo di produzione della verità, al di là di ogni possibile definizione dei suoi valori oggettivi e universali. Contro una verità ipostatizzata, contro una "ragione epistemica", per dirla con Yehuda Elkana, occorre riabilitare le prerogative di quella che lo stesso Elkana chiamò una "ragione inventiva" — definendola anche "ragione metica", ispirata cioè alla metis greca — pienamente attiva, nelle sue specifiche modalità produttive, grazie alle sue matrici empiriche e all’Erlebnis che la rende possibile [cfr. Y. Elkana, Antropologia della conoscenza, con prefazione di A. Gargani, Laterza, Roma-Bari 2000_]. Questa vérité-évènement, cara a Foucault, deve essere in grado — alla pari della ragione inventiva valorizzata da Elkana — di mettere a fuoco il pensiero, in quanto attività complessa e stratificata, attraverso la varietà dei suoi linguaggi e delle sue concatenazioni. Questo pensiero — abitato dall’evento e dal concetto, dalla teoria e dalla credenza, dalla pratica discorsiva e dalle pratica non discorsiva — diventa accessibile solo attraverso la thick description, la descrizione densa: espressione che Elkana prende a prestito dal filosofo Gilbert Ryle e dall’antropologo Clifford Geertz e che ben si adatta agli scenari allestiti nei due ultimi corsi di Foucault. Lungo questa strada, capire una situazione complessa significa mettersi nelle condizioni di stabilire connessioni tra àmbiti diversi e comunicanti: teorie scientifiche, culture, pratiche discorsive, condotte, eccetera. Solo ponendo attenzione a questa trama di dimensioni interconnesse sarà possibile comprendere quelli che Foucault, a più riprese — dalla lezione inaugurale al Collège de France (1970) fino al corso del 1984 —, concepisce come i processi di formazione dei discorsi: le loro condizioni di apparizione, di crescita e di variazione e quindi i modi di produzione della verità, variabili nel tempo e nello spazio, ai quali di volta i discorsi stessi appartengono. I processi di soggettivazione — analizzati soprattutto nei due ultimi corsi al Collège de France — vengono messi in primo piano nel momento stesso in cui Foucault scopre "l’impasse où nous met le pouvoir lui même, dans notre vie comme dans notre pensée". Si potrebbe uscire da questa impasse, secondo Deleuze, solo "si le dehors était pris dans un mouvement qui l’arrache au vide, lieu d’un mouvement qui le détourne de la mort". Emerge qui "un nouvel axe, distinct à la fois de celui du savoir et de celui du pouvoir". Un asse — questa la sorprendente lettura deleuziana — già presente "dès le début", cioè fin dentro le movenze dell’approccio genealogico, allo stesso modo in cui "le pouvoir était présent dès le début, dans le savoir": allo stesso modo, quindi, in cui la genealogia era già presente, fin da principio, nell’archeologia e nell’analitica dei saperi. Un "Dehors", quindi, concepito come nuovo asse, distinto e indipendente dal sapere-potere. Un "Dehors" che Foucault ha più volte messo in scena, nei suoi differenti abiti espressivi — ad esempio la parola letteraria, poetica o filsofica —, come frattura, come strappo, come lacerazione: la cruda nudità del desiderio, nel monologo ossessivo di Sade; l’assenza scintillante e tragica degli dei, nella poesia di Hölderlin; l’irruzione violenta del corpo e del grido, la sofferenza e lo strazio della carne, nel linguaggio torturato e nella parola sonora di Artaud; la figurazione, il pensiero del limite, la soggettività spezzata della trasgressione, nella lingua di Bataille…In queste sue molteplici figure, il pensiero del difuori, in quanto esteriorità dispiegata, scopre, per Deleuze, "le dedans comme opération du dehors". Potremmo dire, con un linguaggio differente: scopre la mondanità di ogni dimensione tradizionalmente considerata come interiore; scopre, in altri termini, la sua esteriorità, la sua appartenenza al mondo, la sua indipendenza dal soggetto che la veicola: dallo stesso soggetto che la considera, erroneamente, come sua creatura esclusiva, singolare, irripetibile. La novità dei Greci, per l’ultimo Foucault, consiste proprio in questo privilegio accordato alla costituzione di sé, al rapporto a sé, che si realizza grazie a un duplice sganciamento: il rapporto a sé si emancipa e si distacca dall’asse potere-sapere, cioè dal potere concepito come rapporto di forza e al tempo stesso dal sapere inteso come istanza composita, come codice della virtù. Questo duplice distacco proietta la costruzione di sé entro un’esteriorità irriducibile, entro un "Dehors" indipendente dalle cifre psicologiche dell’interiorità e dai percorsi dell’intenzionalità messi a fuoco dalla fenomenologia. Come sintetizza Deleuze: "le rapport à soi prend de l’indépendance". I processi di costituzione del sé imprimono una determinata forma alla percezione e al "riconoscimento" di se stessi, come direbbe Judith Butler. E il terreno su cui diventa possibile un riconoscimento di sé viene definito da un regime di verità, entro il quale si realizza "la scena del riconoscimento". Entro il quale si sviluppano i processi autoformativi e le dimensioni possibili della soggettivazione. Ma le norme che appartengono ad un regime di verità e che "presiedono il riconoscimento" — ci sembra questo lo snodo fondamentale — "possono essere sfidate e trasformate", come scrive Judith Butler. Ancora Judith Butler, che ha colto pienamente la svolta teorica dell’ultimo Foucault: "L’esame di sé diventa una pratica di auto-esternazione o di pubblicizzazione del sé", e questa "manifestazione del sé dissolve la propria interiorità e si ricostituisce in un’assoluta esteriorità". Di conseguenza, "io divento questo sé solo attraverso un movimento e-statico, che mi sposta fuori da me, in una sfera in cui sono espropriata di me stessa e contemporaneamente costituita come un soggetto".In questa prospettiva il pensiero stesso, come lo definisce Foucault nella lezione del 5 gennaio 1983, si configura — mi preme ribadirlo — come "foyer d’expérience", estraneo alle strettoie solipsistiche dell’agostiniano homo interior: un focolaio di esperienza in cui si articolano, le une sulle altre, "le formes d’un savoir possibile", "le matrices normatives de comportement pour les individus, et enfin des modes d’existence virtuels pour des sujets possibiles". Dal pensiero, dunque, in quanto focolaio di esperienza, emergono le forme del sapere, le matrici del comportamento, la "constitution de modes d’être du sujet". Tra questi modi di essere Foucault privilegia, lavorando sui Greci, la parrêsia, il "vrai dire", il "franc parler", e quindi "le courage de la vérité", concepito come fondamento etico della democrazia ateniese.Lo ripeto: le pratiche parresiastiche e i processi di soggettivazione a cui appartengono si sviluppano, per Foucault, in una cornice che non è quella disegnata dalla relazione tra sapere e potere; maturano insomma entro uno spazio di una "extériorité rétive", come leggiamo nel corso del 1983: una esteriorità, un Dehors, dove vengono costruiti, attraverso pratiche di sé, percorsi di antagonismo e itinerari di resistenza. Lo spazio di soggettivazione, nella misura in cui non è la figura speculare dei dispositivi di sapere e di potere, si configura come uno spazio altro. Esterno. Parallelo. Indipendente. Quel che Deleuze ha capìto, e che noi teniamo a sottolineare, è proprio questa possibilità, offertaci da Foucault nei suoi due ultimi corsi, di mettere in primo piano una resistenza che non sia l’esito e l’articolazione dei vecchi dispositivi. Ma vorremmo anche aggiungere: non si tratta più di una resistenza individuale e bruciante, a volte sorda e sotterranea, come quella della follia; non si tratta più di un antagonismo solitario ed estremo, come quello del crimine, ma di un’opposizione che si sviluppa sul terreno dell’agora, della dimensione pubblica. Un’opposizione capace di conquistare, se così si può dire, la serenità del positivo, come dimostra esemplarmente la vicenda di Socrate, che paga con la vita la sua irrevocabile opzione parresiastica. Un’opposizione che afferma e che non nega. Che si realizza come "extériorité rétive", caparbia ed autonoma. Certo, questa dimensione dell’esteriorità è stata pensata e ricostruita: non solo, tuttavia, sul piano teorico, ma anche sul terreno modesto — e non per questo meno incisivo — delle analisi storiche concrete, dalle quali Foucault prende sempre le mosse. Per il filosofo, in ogni caso, praticare la parrhēsia come capacità di dire il vero assumendosi dei rischi significa mettere in gioco la propria vita: sembra proprio questo il lascito decisivo della filosofia antica, alla luce del quale Foucault propone di ripensare l’intera modernità filosofica occidentale. In questa prospettiva, la vita stessa diventa, soprattutto nel corso del 1984, scandalo della verità. Ed è in questa stessa prospettiva, dove vita e verità si coniugano, che Foucault colloca la sua vita personale, la sua esistenza individuale: egli vive così, per tutti coloro che lo hanno letto, studiato ed amato, come maestro di verità e al tempo stesso come "maître d’existence". E’ sorprendente, in questo contesto, l’analisi del cinismo storico adombrato come forma aurorale del militantismo, laddove la vita filosofica, in quanto "extériorité rétive", viene concepita come vita rivoluzionaria e come forma radicale dell’impegno politico. Sembra quasi che lo studio del cinismo storico, al di là delle sue dettagliate articolazioni analitiche — esemplare, in questo senso, la lettura del ventiduesimo capitolo del terzo libro degli Entretiens di Epitteto (lezione del 9 marzo 1983, prima ora) dove la professione del Cinico viene trattata come una vocazione — serva a Foucault per tracciare il profilo di una genealogia del militantismo inteso come "stile di vita" e come vita rivoluzionaria. Decisiva, in questo senso, la "promenade" dedicata alla posterità religiosa, politica ed estetica del cinismo, nella straordinaria lezione del 29 febbraio 1984 (seconda ora): dai cinici all’ascetica cristiana e alle sette ereticali; dalle società segrete ai sindacati e ai partiti; dal gauchismo ai partiti comunisti; dai movimenti nichilisti e anarchici fino al terrorismo. In questa vertiginosa "errance" — in questa complessa e incompiuta genealogia — si intrecciano strettamente configurazioni costanti e dimensioni variabili, che portano Foucault a considerare il cinismo, oltre che come cinismo storico, anche come cinismo trans-storico: cioè "comme attitude récurrente à travers toute l’histoire occidentale" [cfr. M. Foucault, Le courage de la vérité, Hautes Études, Gallimard-Seuil, Paris 2009, p. 218] Sembra quasi che Foucault, nella fase terminale del suo itinerario, voglia chiedersi, come testimonia Judith Butler, "se esista una storia della ragione che possa rendere conto dell’emergere di un soggetto trans-storico". Il "survol" di questa straordinaria lezione offre a Foucault la possibilità di mettere in evidenza il suo specifico modo di porsi nei confronti non soltanto del pensiero cinico, ma anche, tout court, nei confronti dell’attività filosofica e della produzione culturale. Le posterità del cinismo — quella religiosa, quella politica, quella estetica — mettono in movimento quella che potremmo definire un’istanza anti-culturale. Un’istanza particolarmente evidente nel caso dell’arte moderna. "Il y a à opposer — afferma Foucault, in un passaggio di forte efficacia e pregnanza espressiva —, au consensus de la culture, le courage de l’art dans sa vérité barbare. L’art moderne, c’est le cynisme dans la culture, c’est le cynisme de la culture retournée contre elle-même". Foucault non ha mai smesso di spiare, entro la trama di ogni produzione discorsiva e di ogni realizzazione artistica, il "foyer d’expérience", cioè il livello di soggettivazione che la rende possibile, che la mobilita: l’ "attitude" più che la "doctrine", la "manière d’être" più che l’opera compiuta o il sapere costituito. Duplice, qui, il circuito della soggettivazione messo in evidenza: la soggettivazione propria del filosofo e dell’artista — di chi produce discorso, di chi crea l’opera — e al tempo stesso la soggettivazione di Michel Foucault, che fa suo il discorso, che fa sua l’opera. Entro il folgorante circuito di questa duplice soggettivazione affonda le sue radici quello che già altrove avevo definito lo stile-passione di Foucault [Mi sia consentito questo rinvio: M. Galzigna, Conoscenza e passione. Proposte di ricerca genealogica, in P. A. Rovatti (a cura di), Effetto Foucault, Feltrinelli, Milano 1986, pp. 141-152]. Un linguaggio della passione, uno stile-passione, rappresenta uno degli strumenti essenziali di un pensiero a-categoriale, a-dialettico, che dice sì alla divergenza, che opera attraverso disgiunzioni: un pensiero dell’affermazione, della molteplicità nomade e dispersa, spesso centrato sull’avvenimento e sulla sua messa in scena. Lo stile-passione di Foucault, il suo lirismo, troppo spesso trascurato o frainteso nei commenti universitari, emerge più facilmente nel testo scritto ed è forse meno presente nel linguaggio dei corsi, maggiormente ancorati a un paziente lavoro sui testi e a necessità espositive tipiche di una comunicazione orale, scandita da una certa lentezza e pacatezza argomentativa. L’ultimo corso, in questo senso, rappresenta però un’eccezione. Al pathos dell’addio, allo strazio silente del congedo, alla malinconia dell’ultima parola, si unisce un altro potente vettore di intensificazione espressiva: la più volte ribadita sottolineatura del legame necessario e imprescindibile tra "manifestations de la vérité" e "formes d’existence". La parola riconquista così, in assoluta coerenza con i motivi portanti della genealogia, la sua natura di evento. All’interno di questo orizzonte, il velo di una verità asettica e disincarnata viene continuamente squarciato dall’urgenza delle pratiche, dalle ragioni dell’esistenza, dalla fisionomia irriducibile e pre-categoriale dell’evento.
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