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Il sogno di Dostoevskij. Come la mente emerge dal cervello

9 Apr 13

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Già nel sottotitolo l’autore dichiara la propria posizione emergentista e la sua vicinanza alle tesi organiciste, d’altronde compatibili con punti di partenza di tipo materialista-dialettico.

E’ una lettura piacevole, poiché il testo è ricco di proposte e di riferimenti e in fondo pervaso di un ottimismo abbastanza insolito tra gli studiosi della mente che, spesso, mettono in maggiore evidenza gli aspetti inspiegabili rispetto a quelli comprensibili.

L’esposizione inizia con un esame delle teorie riduzioniste della scuola neurofisiologica russa — e segnatamente di I. M. Sečenov (1829-1905) Ń basate sullŐipotesi riflessologica, che verrˆ ulteriormente precisata e sviluppata da I. P. Pavlov (1849-1936).

In netta polemica con queste idee F. M. Dostoevskij (1821-1881) sviluppò una sua teoria pre-freudiana dell’inconscio sostenendo, soprattutto in Memorie del sottosuolo, l’irriducibilità dei fenomeni mentali a puri e semplici "riflessi encefalici". A sostegno di ciò egli anticipò l’esistenza di quella che oggi si chiama capacità autopoietica della mente: cioè di un sistema molto più complesso di un puro e semplice apparato razionale. La capacità peculiare di rinascita e di cambiamento che ha l’uomo è la qualità più irriducibile di un io costituito da razionalità, irrazionalità e costante interazione con il mondo esterno.

Il sogno di Dostoevskij fu quello di capire la relazione tra gli influssi del mondo esterno e la nascita della coscienza individuale.

Divertente il fatto che, nella sua polemica con Sečenov, il grande autore dei Fratelli Karamazov accusi il fisiologo, ma anche gli scienziati in genere, di scarsa cultura, poiché essi sanno ben poco al di fuori del loro argomento specialistico. E questo nel 1864. Figuriamoci che cosa potrebbe dire oggi!

L’attenzione dedicata dall’autore all’ambiente pietroburghese del secondo 800 e in particolare all’interesse che vi era in esso per la malattia mentale è molto significativa. Egualmente significativa è la valutazione dello spiritualismo dostoevskiano trasfigurato nella creazione letteraria come contrappeso al materialismo positivista che dominava in quel periodo.

L’analisi del problema mente/cervello sviluppata da Tagliagambe fa riferimento a tutte le ipotesi più significative espresse in questi ultimi anni da autori come Damasio, Parisi, Boncinelli, Edelman, Zeki, Crick, nel tentativo di mantenere una posizione intermedia: una sorta di terza via tra gli estremi della tradizionale antinomia riduzionismo/dualismo.

La mente, in quanto produttore di conoscenze e teorie, è considerata come una sorta di interfaccia tra il mondo fisico e quello della conoscenza. Quest’ipotesi, in realtà, non permette alcun superamento del dualismo; anzi, in un certo senso lo consolida, rafforzando il concetto di discontinuità e separazione tra due realtà che in fondo era stato eliminato dalla teoria riflessologica. Per quest’ultima, infatti, non vi sono discontinuità tra uno stimolo che proviene dal mondo e una risposta proveniente dal sistema nervoso individuale che al mondo ritorna.

Il dualismo metodologico di matrice popperiana viene estesamente discusso nel corso del libro e particolare attenzione viene rivolta da Tagliagambe alla descrizione dei correlati biologici delle funzioni mentali. Questo atteggiamento biologistico viene però controbilanciato dai ricorrenti riferimenti alle tesi di Dostoevskij, per il quale i fatti psichici non si possono identificare con il conscio e l’io è piuttosto assimilabile a ciò che ciascuno di noi si porta dentro e che ci è quasi sconosciuto. Per il grande scrittore russo i processi mentali non sono sempre e comunque risposte a situazioni esterne, ma emergono dall’intimo degli individui come atto creativo perpetuamente rinnovato.

Tagliagambe parte dalle premesse della filosofia hegeliana e kantiana ed esplora dettagliatamente l’approccio scientifico alla mente, specie quello che riguarda la biologia, ma non solo. I suoi riferimenti si estendono dalla matematica alla fisica relativistica, dall’informatica alla Computer Science, ma come loro contrapposto "dialettico" vengono prese in considerazione anche le posizioni mistico-teologiche di P. A. Florenskij (1892-1943). La ricchezza e la diversità inconciliabile dei temi trattati spinge talvolta il lettore a chiedersi dove l’autore voglia arrivare e quale sia, a parte l’evidente infatuazione per la scienza, la sua effettiva posizione epistemologica.

Nella conclusione del testo vi è un riferimento alla hegeliana "natura anfibia" dell’uomo, che da un lato è "impigliato nella materia" e dall’altro possiede capacità che lo innalzano "ad un regno del pensiero e della libertà". Tale duplicità può essere un’apparenza o un dato di fatto e, in quanto antinomia, può essere superata usando una mediazione che può essere costituita dal linguaggio. La mente, con i suoi contenuti e prodotti non viene più basata "sulla centralità dei processi psichici, ma sul riferimento privilegiato ai contenuti oggettivi del pensiero e della struttura logica dell’azione e sulla preminenza della razionalità oggettiva che regola l’uso del mentale sul piano dell’interazione sociale". La definizione, qualsiasi cosa voglia dire, è un esempio di "filosofese" che, come il linguaggio dei gesuiti, afferma e nega al tempo stesso.

L’idea di mente come interfaccia tra mondo fisico e mondo della conoscenza trova il suo miglior sostegno, secondo l’autore, negli studi neurochimici relativi alle funzioni del neurotrasmettitore dopamina. Il fatto che gli antipsicotici agiscano a livello molecolare riducendo il rilascio della dopamina e bloccandone i recettori, mentre le anfetamine hanno effetti opposti, viene correlato con l’azione inibitoria degli antipsicotici che rallentano i processi mentali "svuotando la mente", e con gli effetti eccitatori delle anfetamine. L’ipotesi del Nobel Carlsson sulla funzione della dopamina viene così accolta entusiasticamente e, se mi è permesso, alquanto acriticamente. La relazione tra fatti molecolari centrali e comportamenti non è infatti diretta, ma comporta una cascata di amplificazioni che al momento è del tutto sconosciuta. Quella che viene identificata come una relazione di causazione lineare che parte da un neurotrasmettitore e termina con una risposta comportamentale è in realtà un processo ciclico che inizia e si conclude nell’ambiente. Collegare, come fa Tagliagambe, la molecola dopamina con il "senso della realtà", qualsiasi cosa esso sia, e con il rapporto organismo/ambiente è un’operazione viziata da parecchie arbitrarietà.

Rimaniamo comunque, per quanto riguarda questo discorso, nell’ambito del riduzionismo più puro, se pure in presenza di diversi "distinguo" e di mediazioni epistemologiche formulate in modo elegante ed accattivante.

Un’idea interessante e del tutto condivisibile, almeno per quanto mi riguarda, è quella del confine tra mente e mondo, che non è netto ma sfumato, anche se essa contraddice quella di interfaccia che, per definizione, implica una separazione netta tra due sistemi.

Se questo libro regala al lettore qualche certezza finale essa non si riferisce certamente all’irriducibilità della mente.

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