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Introduzione

25 Apr 13

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Guai a giudicare il '68 da coloro che nel '68 hanno  trovato il loro primo trampolino verso il successo. Parleranno molto, nel '98, costoro, e sarà bene non prenderli troppo sul serio: nuova classe dirigente, colonne della società, come può conciliarsi il loro oggi con il loro ieri?  
Goffredo Fofi (Un sessantotto di pochi mesi, Il Sole 24 ore, 7 dicembre, 1997) 

La mole delle ricerche storiche e sociologiche sul '68 – probabilmente a causa dello schiacciamento prospettico provocato dal corto respiro del tempo trascorso – non riesce ancora a dare conto della complessità del periodo, tende ad alimentare immagini stereotipate e non consente di stabilire nessi convincenti tra ciò che accadde in quegli anni e le conseguenze che ne derivarono. Oggi, a ridosso del trentennale, viviamo una situazione che per molti aspetti ha del paradossale, come alcuni critici notano:  
dovendo parlare di quel periodo siamo in grado di produrre un discorso compiuto per i relativi significati da attribuirgli (anche in relazione alla copiosa bibliografia), mentre abbiamo meno parole da spendere quando dobbiamo indicare i passaggi storici, la concatenazione degli avvenimenti, il loro inquadramento nel contesto sociale e geopolitico, le trasformazioni strutturali e culturali e del costume di cui l'evento fu il prodotto e che contribuì a produrre.  
(D. Giachetti, M. Schiavino, Per il Sessantotto, Centro di Documentazione Editrice, Parma, 1998, p. 7). 
È importante sottolineare che il ventennale della legge 180 si iscrive quindi  in questo contesto di rievocazione storica, poiché molti degli eventi che lo produssero trovano le sue radici all'interno del conflitto sociale e di classe che ebbe inizio negli anni '60 in Italia. Come è noto, del decennio 1967-77, che ha provocato sviluppi contradditori, crescita e modernizzazione della società civile, irreversibili svolte nelle forme della politica, della cultura e della comunicazione – il tutto accompagnato da una protesta sociale diffusa –  resta ancora viva la memoria come periodo  irripetibile. Anche perché – come ha scritto Umberto Eco – a partire da allora "i rapporti tra padroni e operai, studenti e insegnanti, perfino tra genitori e figli non sarebbero mai più stati gli stessi".  
Per l'approfondimento storico  rimando pertanto all'ottimo studio dell'inglese Robert Lumley, Dal '68 agli anni di piombo. Studenti e operai nella crisi italiana, Firenze, Giunti, 1998, che ha il pregio, tra gli altri, di offrire un punto di vista distaccato rispetto agli avvenimenti di casa nostra.  
  

Per tornare ai temi specifici della psichiatria, devo precisare che i testi qui proposti non sono certo novità editoriali, e a parte la  recente riedizione del testo di Franco Basaglia Che cos'è la psichiatria, richiedono al lettore la pazienza di frequentare i cataloghi delle biblioteche. Ma questo lavoro diretto sui testi ripaga sempre il paziente lettore, perché impedisce la rievocazione frettolosa di stampo prettamente giornalistico e, costringendolo a sfogliare gli archivi bibliografici, gli permette di riordinare i fatti nella memoria.   
C'erano molti testi che  cominciavano a circolare in quel periodo, delle assolute novità per l'Italia degli anni '60: per esempio L'uomo ad una dimensione di Herbert Marcuse, Marx e Freud di Erich Fromm, L'Ordine del discorso di Michel Foucault, oltre ovviamente ai primi libri di psicoanalisi di Freud e Jung che circolavano in edizione economica. Qualcuno mi segnalò all'epoca – non senza qualche commento sprezzante sulla 'psicoanalisi come ideologia borghese' – i testi di Reich, l'allievo trasgressivo di Freud che con la teoria orgonicae con quella della rivoluzione sessuale trovava un certo credito anche nei salotti borghesi. E non possiamo dimenticare gli ormai celeberrimi  testi dell'antispichiatria anglosassone come La morte della famiglia di David Cooper o L'Io diviso di R.D. Laing del 1959, ma pubblicato in Italia solo nel 1969 da Einaudi.  

Ho scelto quindi dalla vasta bibliografia del periodo alcuni testi significativi, che suscitarono allora accesi dibattiti nelle assemblee degli studenti e degli operatori psichiatrici. Nel '61 uscirono contemporaneamente in Francia Histoire de la folie di Foucault, tradotto due anni dopo in Italia e Asylums di Goffman negli Stati Uniti, tradotto in italiano nel '68 a cura di Franca Ongaro Basaglia: si trattava di testi fondamentali , insieme all'opera di J.P. Sartre e L. Binswanger,  che ispirarono gran parte dei protagonisti del gruppo di Gorizia e Trieste. Trent'anni fa infatti Basaglia iniziava l'intensa e fondamentale esperienza di Gorizia che successivamente veniva documentata nel libro L'istituzione negata pubblicata da Einaudi nel 1968.  Era il periodo infatti della riscoperta della parola, e le discussioni infinite nelle assemblee e nei luoghi di dibattito politico ne erano la prova tangibile.   
Diceva a questo proposito Foucault:  
Esiste, nella nostra società, un principio di esclusione: non più un interdetto, ma una partizione (partage) e un rigetto. Penso alla opposizione tra ragione e follia. Dal profondo del Medioevo il folle è colui il cui discorso non può circolare come quello degli altri: capita che la sua parola sia considerata come nulla e senza effetto, non avendo né verità né importanza, non potendo far fede in giustizia, non potendo autenticare un atto o un contratto…È curioso constatare che per secoli in Europa la parola del folle o non era intesa, oppure, se lo era,  veniva ascoltata come una parola di verità. O cadeva nel nulla – rigettata non appena proferita; oppure vi si decifrava una ragione ingenua o scaltrita … La follia del folle si riconosceva attraverso le sue parole; esse erano il luogo in cui si compiva la partizione;  ma non erano mai accolte né ascoltate. (L'ordine del discorso, p.14)
Era dunque giunto anche in Italia – con notevole ritardo rispetto al resto d'Europa  – quel particolare vento di rinnovamento culturale che rendeva possibile dare ascolto alle parole della follia. Quasi coetanei, Basaglia e Foucault compirono quasi contemporaneamente un percorso parallelo attraverso la crisi della psichiatria istituzionale, che segnava il trapasso dalla psichiatria storica ad una pratica di psichiatria sociale di segno decisamente opposto. Secondo Racamier infatti "…dopo aver sofferto di una malattia da ricovero le nostre istituzioni cominciano a soffrire di una malattia contraria, la malattia antiricovero, segnalando inoltre che ancor oggi uno scarto più o meno ampio separa le conoscenze scientifiche dalle applicazioni tecniche: e nella psichiatria questo scarto rischia di avere proporzioni allarmanti."(Dalla relazione di Racamier al convegno Psicoterapia e Scienze Umane, tenuto a Milano nel 1970). Parole veramente profetiche queste di Racamier, ancora oggi di grande attualità, anche tenendo conto delle debite differenze tra il modello francese – già ispirato allora alla costruzione delle comunità terapeutiche, e quello italiano. 

Questa malattia antiricovero segnalata da Racamier, viene poi confermata dalle crisi e dalle difficoltà incontrate, ma mai forse comprese e rivelate appieno, nel passaggio dall'istituzione manicomiale alla creazione dei nuovi servizi territoriali e dalla ricerca di un ideale di cura praticabile per i malati psichiatrici – finalmente liberati dai vincoli istituzionali – al di là dei tecnicismi e dei paradigmi medici.   
A differenza di quello che accadeva in Francia o in Inghilterrra, si era ben lontani dall'individuare luoghi di cura possibili per i pazienti, che furono in molti casi poi abbandonati al loro destino o restituiti, quando questo era possibile, alle famiglie. 

Ho qui tracciato a grandi linee un percorso culturale di notevole complessità che ha unito, in vario modo e a vari livelli, persone ed esperienze e che ha lasciato  tracce profonde nelle istituzioni psichiatriche del paese e nell'esperienza personale di chi vi ha operato. Molti interrogativi e molte contraddizioni – per usare il gergo dell'epoca – sono rimaste irrisolte. Molta strada rimane ancora da percorrere.  

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