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IRIS le Favole di Francesco Bollorino Recensione n° 2

17 Dic 20

Di Redazione Psychiatry On Line Italia

Come sottolinea Massimo Recalcati nella sua presentazione al libro di Francesco Bollorino, Iris, edito da Alpes (2016), uno degli elementi che caratterizzano maggiormente questo ricco (e per certi versi strabiliante) volume di “fiabe”, è il filo rosso della Tyche. L’avvenimento improvviso, l’incontro inaspettato cioè, capace di cambiare il destino dei personaggi che abitano i racconti qui presentati.
La Tyche ha il potere di spezzare la situazione di stallo che ognuno di essi in qualche modo vive, e quindi di trasfigurare le diverse realtà di ogni storia, esistenza, e i significati dei quali è intessuta ogni trama.
La realtà iniziale di ogni racconto, infatti, rischia di inghiottire la maggior parte dei protagonisti caratterizzati in queste pagine: principi poveri lacerati da dubbi immemori di fronte ad amori mai ricambiati; Re trafitti dai propri abissi di infelicità; Deità un po’ narcise – umane, troppo umane, per non ridere di se stesse tra le righe – e insoddisfatte del mondo creato, le quali si affannano affinché gli uomini, creature troppo complesse sfuggite all’onnipotenza creatrice, possano rendersi felici nonostante le contraddizioni e i conflitti che abitano il loro cuore.
Personaggi, quelli che tratteggia qui Francesco Bollorino, soprattutto, in cerca della propria autenticità e verità intima.



 
L’accadimento improvviso e fortuito, la Tyche dunque, indipendente dalla volontà e dall’intenzionalità, si interseca qui con l’altro insegnamento che, le fiabe, intendono tessere rispetto alla pedagogia che fa da sottotraccia ad ogni racconto. La mancanza interiore, scavata da una situazione incresciosa, traccia una via possibile di azione e di rivolta contro l’ordine presente. Affinché possa essere colmato un bisogno, una verità ricercata, un desiderio non del tutto compreso ma anelato.
Non vi è nessuna garanzia in questo. E anzi vi è qualcosa di irrazionale nell’azione dei protagonisti, i quali, seppure rischiando di complicare ancora di più la realtà sono spinti da questo irrazionale a smuovere la propria esistenza, verso un altrove carico di speranza e di soluzioni auspicabili.
La motivazione al viaggio che a volte viene intrapreso da questo fitto stuolo di caratteri, di personalità, all’interno di cornici staccate dal tempo e dallo spazio, così come si conviene al genere favolistico, infatti, nasce da una insoddisfazione interiore radicale. Un vuoto che può isolarli sì dal resto della comunità in cui vivono; ma al tempo stesso può permettergli di accedere a una realtà più profonda della propria anima. Uno dei punti essenziali questo del libro di Bollorino, a mio avviso, e della “morale” intrinseca della fiaba.
Emblematico a proposito è il caso del Re protagonista del racconto “Sul ripido crinale del chissà”, il quale, seppure ricco e benestante, amministratore di un regno senza guerre, dopo essere stato privato da piccolo (così narra l’Autore) della “buona opinione di se stesso”, da parte di un Mago crudele, avverte dentro di sé una tale solitudine, un tale abisso nel cuore, da arrischiarsi in una ricerca solitaria verso il proprio tesoro perduto.
È di qualcosa di immateriale, in fondo, che nelle fiabe si va in cerca. Perché, come dice la volpe al Piccolo Principe in un’altra storia famosa, “L’essenziale è invisibile agli occhi”. È con il cuore infatti, con l’amore appassionato, tragico ma fiducioso per l’ignoto, che è possibile squarciare il velo della ripetizione e dell’oblio da cui tutti noi veniamo, o dell’impossibilità apparente della felicità che spesso sembra sopraffarci.
Ed è così che, piccoli eroi dalla personalità apparentemente minuscola ma al tempo stesso ricca e profonda (l’usignolo che voleva da Dio una voce per farsi ricordare), si alternano in queste dense righe a grandi, fragili e caparbie figure.
Esseri mitologici capaci di com-muovere con il loro amore imperituro altre persone, e di spronarle a un atto di generosità che, da solo, può generare interi popoli, paesaggi, lingue. È il caso del Gigante che amava la sua meravigliosa sirena. Gli amanti ingelosiscono a tal punto il potente Re del Mare da far si che questi li separi (in modo apparentemente irreparabile, appunto), lei sulla luna, lui su un’isola deserta. L’amore – sentimento immortale e instancabile per eccellenza, se autentico – farà si che il Gigante riesca a comunicare con la sua bella nel cielo attraverso uno stratagemma e che, a partire da questo suo afflato indomito, il Re del Mare li benedica, e nasca dalla loro unione il popolo dei sardi, i quali abitano l’isola in cui il Gigante fu recluso. Le Domus de’ Janas (questo è il titolo della fiaba), come le chiamano i sardi, sono appunto le grotte del Gigante, nelle quali egli proteggeva la sua amata sirena durante i loro incontri d’amore segreti.
L’estrema significatività della fiaba grazie al suo linguaggio analogico, maneggiato magistralmente dall’Autore, si svolge a più livelli, slitta su diverse superfici e piani di senso, ed è capace in questo modo di ridare linfa vitale a persone e cose; ma anche radici collettive multiformi, a parole oramai consunte dall’abitudinarietà. Nella quale, a volte, la vita degli uomini con la sua ripetizione e stanchezza, le confina.
Le favole possono così ri-educare alla speranza eterna del cuore e alla forza dirompente della fantasia: che sblocca l’impasse della ragione, la quale si ferma sovente alla superficie dell’incomprensione problematica.
Aprono, come si può vedere qui, alla gioia di vivere, alla spensieratezza del sogno e alla libertà creativa dell’immaginazione. Ma soprattutto, ed è questa la mia impressione fondamentale dopo aver letto il libro di Francesco Bollorino, possono dischiudere la mente al riconoscimento di orizzonti interiori, orientare alla gestione degli stati emotivi, e, più in generale, indicare il senso e i significati dell’anima che desidera scoprire se stessa.
Nel futuristico racconto “N.U.P. quarta favola di Natale”, ad esempio, il protagonista, Gigi, vive in uno stato teocratico che si è ripromesso di garantire la felicità del popolo a suon di chimica. Così, assuefatto dalla molecola NEU-77, un elemento capace di indurre una “felicità senza desideri”,  un giorno si ribella a questa piattezza emotiva, e scopre che la tristezza che prova fa male, ma gli permette di vedere la realtà per come è, e di ricordare il suo passato. Al di là della felicità raggiungibile, realizzabile o irrealizzabile, e che rappresenta solo una parte dell’essere umano, ciò che conta davvero è che egli ora si senta “felice di essere libero di essere infelice”. Si apre, rischiando, a una realtà più ampia capace tuttavia di rivelarlo a se stesso.
Iris è un libro che, in questo senso, rappresenta un sorta di elogio del potere affabulativo della parola, e della forza immaginifica della fantasia, la quale stabilisce relazioni, crea contatti, instilla consapevolezze improvvise e gesti imprevedibili, spesso impensabili: in un fitto intreccio di azioni, di paesaggi e oggetti misteriosi, da una parte, e di scelte ed emozioni interne, intenzioni, valori, dall’altra. Un intreccio che, affastellandosi senza soluzione di continuità mediante il potere analogico del simbolo, alza il velo su un aspetto assoluto della dimensione umana e non solo: “Come dentro, cosi fuori; come fuori, cosi dentro” dice Ermete Trismegisto.
Il processo primario, la fonte originaria dell’esperienza, il sostrato di tutte le cose, è dato dalla continuità indissolubile tra pensiero, azione, emozioni, mondo e immaginazione creatrice.
È il simbolo che permette di discernere e di riunire gli strappi creatisi all’interno di questo tessuto connettivo.
Meravigliosamente alluso nelle diverse figure che risuonano archetipicamente in queste pagine, esso è ciò che unisce il visibile all’invisibile, il desiderio al desiderato, l’uomo al mondo e il conscio all’inconscio, come insegna Jung: e quindi rappresenta un ponte di collegamento dialogico tra l’Io e il Sé.
Ogni storia infatti, per quanto breve, come accennato, non rappresenta altro a mio avviso che un piccolo processo di individuazione fiabesco, attraverso il quale i protagonisti diventano coscienti di se stessi a partire dalla scoperta (di nuovo) di una complessità e ulteriorità che li sopravanza.
Le “Montagne della solitudine”, i “Deserti della conoscenza”, la “valle della Consapevolezza”. I luoghi si animano grazie a linguaggi analogici e immagini archetipiche. Simboli in sostanza, i quali altro non sono che “precipitati in immagine degli Archetipi”, come dice la Jacobi. Punti energetici trasformativi inviolabili questi ultimi, i quali si rendono manifesti, e quindi discernibili, mediante immagini archetipiche, simboli appunto, capaci di indicare indirettamente l’abissalità di ciò che da loro forma.
Re, profeti, Giganti, bambini, streghe, maghi, fate, eremiti, cavalieri, lune e soli: figure archetipiche che risuonano in profondità nel cuore e nella mente. Persino “Qualità e Quantità”, concetti filosoficamente opposti ma complementari, si incarnano qui in due gemelle dalle caratteristiche diversissime le quali, tuttavia, non riescono a smettere di parlare tra loro, risolvendo la storia della loro vita in un senso di totalità e di continuità perenne, voluta da Dio, che desidera la loro unione persino al di là del tempo e dello spazio.
Ma anche le cose, assumendo caratteristiche umane grazie alla estrema sensibilità, capacità identificativa e finezza poetica dell’Autore, agevolano questo processo di consapevolezza e di formazione di sé, che attraversa a mio avviso tutto il libro.
È il caso del fiammifero protagonista di quella gemma fiabesca rappresentata dal racconto “Favola di Natale”.
“[…]i fiammiferi” dice l’Autore “voi lo sapete, sono dei «doveristi», se non vengono usati, intristiscono e pian piano muoiono”. Rinchiuso nella sua scatola per così tanto tempo, il fiammifero ignorato vede i propri compagni demoralizzarsi al punto tale da diventare secchi, e quindi rendersi inutilizzabili: non sono più buoni per attendere al compito per cui, fin dalla nascita, erano stati creati. È l’impossibilità di poter esprimere il proprio daimon, in sostanza, la propria essenza originaria, a far si che, anche un fiammifero, si deprima e si senta inutile.
Francesco Bollorino ci accompagna così in un universo polimorfo e senza tempo, popolato da “eroi, Dio compreso,” che “cercano loro stessi nel mondo”, come dice acutamente Sarantis Thanopulos nella illuminante ‘Guida ragionata ad una seconda lettura finale’.
Per cui, grazie alla narrazione fiabesca, allusiva, archetipica, il lettore – piccolo o grande che sia – ha l’occasione di gettare dei ponti tra le diverse parti della sua anima: e articolare tra loro, organizzandola in un ordine dotato di senso, l’esperienza stessa che ha di queste parti. Chi legge si trova così a “giocare”, mediante immagini fantastiche – incarnazioni di forze sia materiali che spirituali, sia interne che esterne, come insegna Jung quando parla degli archetipi come elementi “psicoidi” –, con i propri desideri, attese, emozioni e visione del mondo.
La fiaba alimenta in questo modo l’autoesplorazione e invita, attraverso l’assurdo e l’irrazionale, all’esperimento psichico e all’immedesimazione rispetto a mondi e significati altri i quali, ovviamente, sono sempre i propri.
Il Re protagonista del racconto “Sul ripido crinale del chissà”, sa bene che il rischio della solitudine intesa come carenza spirituale, il quale subentra nella indifferenza di sé, è ancora più grande del rischio del distacco dal proprio regno sicuro e sconfinato. In questo senso, la consapevolezza della separazione dal proprio ruolo sociale, dalla “persona” come dice Jung, indica la strada della maturazione e della crescita spirituale attraverso l’introversione nella propria anima. Inizia quindi una ricerca solitaria di sé, nel mondo, senza alcuna maschera capace di assicurare al regnante una qualche protezione. La sua solitudine viene attraversata quindi da pericoli, ostacoli, dubbi e impedimenti i quali, infine, permetteranno all’eroe di ritornare dal suo viaggio carico di nuove scoperte su se stesso, e quindi di nuove risorse e capacità personali.
Il vuoto che scava la sua anima, dopo aver atteso alle responsabilità politiche esterne del suo regno, lo porta a una solitudine esteriore capace forse, dopo l’incontro con diverse figure archetipiche, a ritrovare il proprio tesoro: ovvero, la sua autostima.
Ma è difficile, se non impossibile, dirimere la fitta rete di significati e trame che emergono da questi racconti così suggestivi. La vita e la morte, la solitudine, il senso del destino, l’impossibilità di stare insieme e di stare divisi: tutto questo e molti altri temi riemergono nella loro sovrabbondanza di significati, secondo allusioni e prospettive derivanti dalla mitologia, dalle scienze antropologiche, psicologia e filosofia. Il tutto è condito dalla narrazione personalissima di Francesco Bollorino, carica di pungente audacia e trafitta da lampi di rinfrescante ironia.
Non ho osato avventurarmi in un dialogo con la visione dell’Autore, o peggio ancora con i suoi vissuti, carattere, passioni, abitudini, i quali si riannodano indissolubilmente alla sua terra di origine; dialogo intrapreso invece con sensibilità e leggerezza da Roberto Maragliano nella ‘Guida ragionata ad una seconda lettura’, al termine del libro.
Semplicemente perché non conosco di persona Francesco Bollorino, ma sono onorato di poter scrivere per la sua prestigiosa rivista.
Mi sono lasciato trascinare così dal bambino che abita in ognuno di noi, rapito dalla ricchezza straordinaria di personaggi, luoghi e storie incredibili, i quali attraversano questo testo in modo mirabile e fecondo.

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