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La mente ritrovata: il “Sottovoce agli psichiatri”

13 Mar 13

Di Sabino Nanni

I — La psichiatria del futuro

"Come se fosse una sommossa, una ribellione della natura, come se dicesse ‘mi volete sempre bella secondo i vostri criteri’, sole, calma, cielo azzurro, brezze sottili, e parole più che cose, che si usano in sé per il piacere di usarle, già a fine di agosto l’autunno si agita, tra scrosci d’acqua, ventate improvvise, cupi sfondi di cieli neri…" [4, pag. 297]

L’incipit di questo racconto fantascientifico-fantapolitico di stile "orwelliano" che Rossi ha inserito nel suo libro introduce, a mio avviso nel modo migliore, il tema centrale di "Sottovoce agli psichiatri": la "natura" si ribella, si rivela prima o poi per quello che è, a dispetto di tutti i tentativi di controllarla ingabbiandola in "criteri" e vuote "parole più che cose, che si usano in sé per il piacere d’usarle". Subito l’Autore ci chiarisce a quale aspetto della "natura" sta alludendo, e questo lo fa seguendo i pensieri della protagonista Sil, una specializzanda presso la scuola di psichiatria del San Josè Hospital in California che, affrontando il maltempo, sta raggiungendo in auto l’ospedale:

"… e si ha un bel dire ‘ma questo rinverdirà i prati ormai gialli di sole… bella la pioggia, bello il sole’ anche se per Sil è poca scelta, non ha nulla da scegliere, le piace il sole ed allora il suo stato d’animo è inquieto, turbato, allarmato e un po’ triste, come talora le succede, la stabilità dell’umore è un’altra di quelle parole dei farmacopsichiatri, PP come loro si chiamano, per distinguersi da PT, psicoterapeuti, se ancora ce n’è qualcuno…" [ibidem]

Ecco qual è la "natura ribelle" che qui c’interessa: la vita interiore, affettiva, per la quale "non si può scegliere" in modo velleitario perché procede per leggi proprie che non si può che riconoscere e rispettare; ed è inutile cercare d’ingabbiarla in "criteri" e "vuote parole". Notiamo, tuttavia che subito la specializzanda in "psichiatria del futuro" corregge le espressioni "stato d’animo inquieto, turbato, allarmato e un po’ triste", appartenenti al linguaggio della soggettività, traducendole con "stabilità dell’umore", ossia col linguaggio affettivamente asettico ed "experience distant" proprio dei "farmacopsichiatri". La psichiatria dell’epoca futura in cui vive Sil (siamo, qui, negli ultimi decenni del ventunesimo secolo), ha, infatti, privato di ogni valore la vita interiore e soggettiva del paziente e, di conseguenza, ignora la capacità di comprensione empatica come strumento conoscitivo e svaluta la cultura umanistica quale modello di linguaggio e fonte di suggerimenti utili per comprendere l’essere umano.

Ma torniamo al racconto, che qui riassumerò brevemente per poi riprenderlo come guida alla comprensione dei concetti del libro. Raggiunto l’ospedale e la riunione dello staff che vi si sta svolgendo, Sil avverte subito un’atmosfera di tensione. Ne comprende i motivi quando, passati in rassegna i vari casi clinici, è la volta della discussione sulla signora Scedrin, una paziente sofferente di gravi problemi affettivi. Il dott. Ali Kahievi, un medico d’origine indiana che l’ha seguita, l’ha giudicata un "caso umano" e non psichiatrico e, con un atto inaudito di ribellione verso il dott. Upe, suo capo, ha omesso d’inquadrarla nelle categorie diagnostiche del DSM IX e di seguire nel trattamento le guidelines previste, cercando, viceversa, d’impegnarsi in una psicoterapia. Le conseguenze del non aver emesso la diagnosi — tuona il dott. Upe — la diagnosi di RULD (Recurrent Unhappy Love Disorder), e di non aver seguito il relativo protocollo terapeutico, sono state disastrose: la signora Scedrin, per non esser stata "avvisata della propria malattia", ha fatto causa all’ospedale e chiede il risarcimento dei danni prodotti dai suoi successivi amori infelici. Si pensa verranno richiesti circa cento milioni di dollari dalla paziente, più altri cento dallo stato della California per il rimborso delle prestazioni erogate. Tutto ciò — suppone Sil, ed i fatti le daranno ragione — comporterà l’allontanamento dal servizio di Ali e del dott. Upe, il responsabile, perché, "chi li vorrà più dei medici che costano milioni per non aver applicato banali guidelines?" Segue un’animata discussione tra il dott. Ali e il dott. Upe in cui quest’ultimo, contrapponendoli alle "fanfaluche" del suo subalterno, ribadisce i dettami della psichiatria "del futuro". Si evince chiaramente, dal suo discorso, che le finalità principali di questa pratica medica sono produrre una "normalizzazione" del paziente attraverso la soppressione di tutti i possibili sintomi di sofferenza (essendosi estesa la sua sfera di competenza dal MD (Mental Disorder) all’intera HC (Human Condition), e produrre prove (attraverso la rigida applicazione dei protocolli) che possano tutelare medici e istituzioni da possibili vertenze legali. Si ha poi un cambiamento di scena: ritroviamo Sil in compagnia del fidanzato George a cena in un ristorante sulla baia di S. Francisco. George, giovane attorney in law, ha chiesto a Sil di raccontargli la storia della signora Scedrin e della vertenza legale da lei intrapresa contro l’ospedale. La paziente ha ottenuto il risarcimento richiesto ed il giovane avvocato esprime tutta la propria ammirazione per come ha proceduto il legale della signora. Sil gli espone i fatti, ma la sua mente è altrove: già da tempo è esasperata per l’attaccamento morboso nei suoi confronti e per le smanie di controllo di George; prima di compiere il passo del matrimonio, vuole vederci chiaro sullo stato di salute mentale del fidanzato e alla fine, vincendo la paura d’offenderlo, si decide a chiedergli di scambiarsi i certificati sanitari tratti dalla "Public Diagnostic Check List", una sorta di schedatura globale delle persone in cui si trovano "diagnosticate" anche le caratteristiche della vita intima di ciascuno. George è disperato: agitandosi sempre di più, cerca di respingere la richiesta della fidanzata, opponendo alla "burocrazia sanitaria" la forza dell’amore che li unisce. Ma ormai dovrebbe sapere che Sil non è il tipo da cambiare idea. E qui, come nella tragedia antica (o nei film di buon gusto) in cui gli avvenimenti cruenti sono posti fuori della scena; qui la narrazione s’interrompe. Riprende subito dopo citando una fredda comunicazione del "San Francisco Chronicle" del giorno successivo alla cena:

"Il colpo è partito da una pistola calibro 22, (…) La ragazza è stata trovata morta subito fuori del ristorante… si tratta di una specializzanda in psichiatria al San José Hospital e non è stato difficile risalire all’omicida, che ha usato la calibro 22 che aveva in macchina. [George] è stato preso dalla polizia in piena notte… si è lasciato condurre via senza opporre resistenza…. il Chronicle non ha difficoltà a capire perché ha fatto questo, dato che la polizia ha subito esaminato il suo stato sanitario e vi ha trovato una IEPT e se ci fosse ancora Sil direbbe subito che si tratta di Instable Explosive Personality Trait, tipo dopaminergico, con attività HD2 superiore a 0,012" [4, pag. 304]

II — Soggettività, empatia, cultura umanistica: il "ponte" tra normalità e patologia

La fredda oggettività tecnica del linguaggio giornalistico con cui ci viene comunicato l’assassinio della povera Sil, oltre che renderci la notizia ancor più penosa, ci fa anche capire che in quel tempo futuro l’intera cultura, e non solo la psichiatria, tende ad ignorare il valore (o addirittura l’esistenza) della vita soggettiva. Il giornale, infatti, "non ha difficoltà a capire" perché è avvenuto l’assassinio, come se il riscontro di un "Instable Explosive Personality Trait, tipo dopaminergico, con attività HD2 superiore a 0,012" potesse essere una spiegazione esaustiva. Come se non avessero più nessuna importanza quelle ricostruzioni delle vicende interiori di assassino e vittima (come in "Delitto e castigo" o ne "I demoni") con cui l’ormai disprezzata cultura umanistica ha da secoli cercato di comprendere, affrontare e prevenire simili tragici eventi. D’altra parte, il dott. Upe l’aveva detto a chiare lettere: al dott. Ali che, per giustificare il proprio approccio terapeutico "anomalo", stava descrivendo quanto aveva colto nell’esperienza soggettiva della paziente, Upe così replica:

"…questi termini del tipo dramma e infelicità umana si possono lasciare dov’è il loro posto, nella letteratura fiction dei secoli scorsi, dell’ottocento e novecento, … queste definizioni e questo modo di vedere le cose sono obsoleti e rovine di un’epoca di scarse cognizioni, in cui le parole appunto dovevano coprire la non conoscenza delle cause, ed ora quel che si deve fare è inquadrare i problemi nel DSM IX, eseguire le guidelines d’intervento…" [4, pag. 300]

Ecco qui ben definito il modo di vedere la malattia del dott. Upe, e con lui della psichiatria "del futuro" (del presente?): ciò che conta, nella diagnosi, sono solo i fatti comportamentali, oggettivamente rilevabili e riferibili agli items del DSM e non la vita soggettiva della paziente, che Ali aveva cercato di capire attraverso l’immersione empatica nel suo mondo. Svalutando, a questo modo, l’empatia e la soggettività, Upe azzera presuntuosamente anche il valore di secoli di letteratura, che hanno approfondito e sviluppato un linguaggio dell’esperienza vissuta attraverso cui la sofferenza psichica può essere descritta e compresa come "caso umano". Rossi, già nella "Premessa", ci spiega che questo modo di vedere la sofferenza umana, portato all’estremo nella "psichiatria del futuro", è già percepibile in quella del presente:

"La psichiatria… seguendo esigenze di evidence e di prevedibilità di risposta ai farmaci [o, in generale, ai trattamenti]… ha seguito vie schematiche e descrittive secondo le linee del comportamento rilevabile… lontano dal mondo interno e dal vissuto, [non "obbiettivabili" e] meno quantificabili. Ciò ha prodotto… un essiccamento della disciplina ed ha messo in ombra i vivaci e complessi coinvolgimenti con la realtà antropica più generale, dalla letteratura all’arte…" [4, pag. V]

Una "psichiatria", dunque, in cui la mente, nella sua fondamentale dimensione soggettiva, è posta in posizione marginale o del tutto trascurata, una mente "perduta": contro la "intossicazione" di questo modo di concepire le cose, il libro ci offre un prezioso "antidoto". Gran parte della patologia psichiatrica viene passata in rassegna attraverso una descrizione continuamente arricchita e "vivificata" dai suggerimenti offerti dal mondo della Letteratura e, in generale, dell’Arte. Non posso, qui, che descrivere per accenni alcuni "campioni" di quest’enorme lavoro. Ricordo, ad esempio, come la "dimensione impulsivo-compulsiva" viene chiarita, nella sua natura e nella sua genesi, attraverso il confronto tra due personaggi (due "casi clinici" emblematici) della letteratura russa ottocentesca: Oblomov. "l’esempio più significativo dell’ossessione pura, che si esprime con l’inerzia e l’apatia totale" e Dimitri Karamazov, dominato dalla "regola del tutto e subito", e in cui "l’agire è sempre in eccesso" [4, pag. 60 e seg.]. Altro esempio: i problemi dell’istituzione ospedaliera psichiatrica, delle modalità d’esprimersi e rapportarsi dello schizofrenico, delle reazioni emotive del "normale" di fronte alla psicosi, sono sviscerati e vivacemente illustrati seguendo il personaggio Clarisse, creato da Musil, nella sua "visita al manicomio" [4, pag. 72 e seg.]; parimenti, viviamo come "dall’interno", prendendo a prestito le acute capacità introspettive di Kafka, le esperienze schizofreniche di disintegrazione della vita soggettiva e "dissoluzione dell’Io narrante" [4, pag. 82 e seg.]. Il carattere creativo e riparativo dell’Arte ci consente di addentrarci anche negli argomenti più angoscianti, come la psicologia del suicidio, per il quale esistono potenzialità presenti anche nella vita affettiva normale. Rossi ci guida in questi territori con l’aiuto di Sofocle ("L’Aiace"), di Flaubert (Emma Bovary) di Tolstoj (Anna Karenina) [4, pag. 277 e seg.]. Riporto qui, come ho detto, un elenco incompleto e una sommaria descrizione per accenni dei temi trattati nel libro; e solo una lettura del testo può far capire quanto la Cultura Umanistica consente di penetrare nelle esperienze umane, molto più di quanto non facciano le sole descrizioni psichiatriche o le sole interpretazioni in termini psicodinamici. A questo proposito, si può ricordare, come viene detto nel libro, che il termine "empatia" con cui si designa la facoltà di comprendere la soggettività altrui, è la traduzione del termine tedesco "Einfuehlung", coniato originariamente per descrivere la capacità di entrare nello spirito dell’opera d’arte. È significativa l’estensione odierna del significato della parola; l’Artista, infatti, con la sua capacità di "distillare" gli elementi essenziali della vita emotiva, ci offre un modello di come comprendere i nostri simili. Ne consegue che, sebbene si tratti di una capacità innata, che non si può apprendere, l’empatia può essere notevolmente arricchita ed affinata dalla conoscenza delle opere d’arte e, in generale, della Cultura Umanistica.

Un argomento, trattato nel capitolo "Solo un’occhiata alla schizofrenia" [4, pag. 67 e seg.], merita particolare attenzione. Qui, seguendo la narrazione di Musil, raggiungiamo Clarisse in un momento particolare della sua visita al manicomio. Il dott. Friedenthal, un medico dell’istituto che fa da guida, dopo aver accompagnato i visitatori in ambienti privi di luce, li conduce ad una porta che dà in un cortile del manicomio. Clarisse, in quel momento, è immersa in riflessioni critiche sul modo con cui la malattia mentale è considerata e trattata in quell’ambiente. A questo punto:

"Quando [la guida] ebbe aperto, un chiarore abbagliante avvolse i visitatori; essi uscirono dal riparo della casa e nello stesso tempo echeggiò un grido lacerante e spaventoso come Clarisse non aveva mai udito in vita sua; nonostante il suo coraggio, ella diede un balzo. "È solo un cavallo!" disse il dottor Friedenthal e sorrise" [4, pag. 75]

Sentiamo cosa ci dice Rossi a questo proposito:

"Siamo nel bel mezzo di una complessa considerazione filosofica di Clarisse, che comporta una competente critica del concetto di degenerazione moreliano e lombrosiano…, col riferimento di Nietzsche alla naturalezza dell’aspirazione umana all’orrido, il problematico, il terribile. Ma il filo dell’intellettualizzazione viene interrotto dalla realtà sensoriale: la ragione cede, ed anche l’interpretazione della percezione fallisce, ed entra in scena il preconcetto, in tutta la sua corporeità" [ibidem]

Clarisse è una persona emotivamente ben disposta verso i malati di mente ed è provvista di un eccellente "equipaggiamento" culturale: una "progressista", come verrebbe definita ai nostri giorni. Eppure l’improvvisa ed inattesa irruzione di un’intensa realtà sensoriale provoca la subitanea trasformazione di solidarietà e comprensione in rifiuto e paura. Rossi così lo spiega:

"Clarisse… proietta all’esterno tutte le istanze di libertà dall’inibizione… e tutte le fantasie [cariche d’angoscia] di prorompere coll’urlo (il Grido dipinto da Munch): ed una volta proiettato all’esterno, l’urlo diventa paura, soprassalto, angoscia. Il grido dunque prorompe con le sue caratteristiche ferine e bestiali, e diventa preconcetto: il nitrito del cavallo è subito inteso come il perturbante e minaccioso grido del pazzo (…) visto che i nostri desideri proiettati e scorporati da noi si fanno, una volta visti all’esterno e non riconosciuti come nostri, ripugnanti ed angosciosi…" [ibidem]

Anche nella persona più acculturata ed evoluta, esistono, nelle zone più profonde della sua vita interiore, modalità difensive primitive che, in particolari momenti, possono riemergere. Si tratta dei meccanismi di scissione e di proiezione delle istanze autodistruttive e disgregatrici che, risvegliate dalla presenza dello psicotico, minacciano l’integrità dell’Io. È questa la base emotiva dell’emarginazione del malato, cui, secondariamente, possono sovrapporsi anche motivi di ordine sociale e culturale. Abbiamo, qui, un importante spunto di riflessione: la ricerca di una possibilità di comprensione empatica, di un "ponte" che unisca la soggettività "normale" a quella dello psicotico (soprattutto del grave schizofrenico), è molto più ardua di quanto tenda a credere l’ingenua persona di buona volontà. Essa deve affrontare potenti resistenze che nascono dagli strati profondi della mente di ciascuno. Non si tratta di semplici preconcetti, ma di modi estremi per salvaguardare l’equilibrio interiore. Si può, perciò, meglio comprendere come il "ponte" gettato verso i malati all’epoca basagliana allo scopo di superarne l’emarginazione, il velleitario "embrassons nous, siamo tutti uguali!", fondato su puri assunti ideologici, sia stato facilmente spazzato via dal riflusso culturale. L’emarginazione è forse, come ci dice Rossi, "una realtà umana non eliminabile, né ovviabile oltre certi limiti" [4, pag. 75]. Un suo pur parziale superamento, infatti, richiederebbe da parte dei terapeuti, oltre alle cure usuali, una lunga ed impegnativa "immersione empatica" nel mondo del paziente grave, seguita da una non meno impegnativa elaborazione di ciò che si è compreso. Richiederebbe anche, da parte della società, un sostegno (che si concretizzi anche in investimenti per strutture, personale e formazione professionale) che attualmente essa non riesce a dare. La consapevolezza di tutto questo è sconfortante, ma almeno ci risparmierebbe la mistificazione e l’ipocrisia (le strutture, in realtà, preposte alla "normalizzazione" ed all’emarginazione mascherate da entità "terapeutiche"), che nuocciono al malato ed a noi stessi non meno dell’inadeguatezza delle cure.

III — L’evitamento fobico-ossessivo dei rischi nei rapporti.

Ritorniamo al racconto. Un tema che lo percorre è la caratteristica che accomuna medici, pazienti, mentalità dominante e leggi: la totale intolleranza ai rischi che i rapporti umani comportano. La signora Scedrin, chiedendo un risarcimento all’ospedale per i danni procurati dai suoi amori infelici, sembra aver in mente un modello di cura che la tuteli del tutto dai rischi delle sue stesse scelte e che in questo non debba mai sbagliare. I medici, a loro volta, si tutelano dal rischio d’insuccessi, nei loro interventi di "normalizzazione", inserendo tra le guidelines per il Recurrent Unhappy Love Disorder, la "controindicazione o diffida a stabilire legami affettivi e/o sessuali", una sorta d’intimazione alla rinuncia [4, pag. 300]. L’una e gli altri trovano conferma e sostegno al loro atteggiamento nella mentalità comune e nelle leggi. Questo modo di concepire le cose produrrà, nella signora Scedrin, conseguenze tragiche: ritrovandosi sola, provvista di un lauto risarcimento, ma del tutto priva di un sostegno terapeutico (oltre che della fiducia di poterlo ancora trovare), la paziente finirà i suoi giorni in un incidente che ha tutta l’aria di un suicidio sub-intenzionale o mascherato, come si verrà a sapere alla fine del racconto. Solo il temerario tentativo del dott. Ali avrebbe potuto salvarla, ma si trattava di un tipo d’intervento difficile che, coinvolgendola nella complessità di un rapporto umano, avrebbe comportato fin dall’inizio il rischio d’insuccessi: proprio quello da cui la paziente e la mentalità dominante rifuggono. Qualcosa di molto simile coinvolge anche la protagonista Sil: in lei l’illusione di trovare nella "Public Diagnostic Check List" uno strumento che la preservi da rischi e incognite nel suo rapporto d’amore (oltre che la sua "cultura" fatta di items e di guidelines), le fa "disimparare" ad usare la propria capacità di comprensione empatica, ossia l’unico modo possibile, anche se imperfetto, con cui avrebbe davvero compreso l’animo del fidanzato. Sil, nel rapporto con George, sbaglia tutto: non capisce la profondità delle angosce del fidanzato, pur di malavoglia lo asseconda nelle sue smanie di controllo e poi, di colpo, gli chiede quel certificato che, rivelando brutalmente l’impossibilità della loro unione, provocherà la reazione violenta dell’altro.

La stessa intolleranza nei rischi dei rapporti umani e la stessa pretesa illusoria di prevenirli attraverso un rigido sistema di controlli, sembrano prevalere sempre più anche nella psichiatria del presente. Qui il privilegiare i comportamenti rilevabili ed i dati biologici, rispetto al mondo interno ed ai vissuti del paziente, rispecchia solo secondariamente una scelta di ordine teorico e clinico; prima ancora, c’è l’esigenza di presentare a giudici, periti ed amministrazioni, in caso di vertenze legali e di controlli, dati obbiettivabili e quantificabili e, perciò, più convincenti. Gli eventi del mondo interno e della sfera soggettiva non hanno carattere di evidence e comportano, perciò, rischi che la mentalità corrente tollera sempre di meno.

L’esempio forse più eloquente dei danni che comporta l’intolleranza ai rischi dei rapporti umani ci è offerto da Rossi nel paragrafo del 6° capitolo: "Il nemico perfetto: pedofilia e dintorni" [4, pag. 188 e seg.]. Qui, attraverso un’analisi della psicologia del pedofilo, comprendiamo anche il perché della "pedofilo-fobia" e la natura dei danni che quest’ultima può provocare. Anche qui, la spiegazione è illustrata ed arricchita da numerosi esempi letterari tratti da Dostoevskij, Maupassant, Proust, Nabokov e altri. Particolarmente denso di suggerimenti è un sogno di Svidrigajlov, il pedofilo che compare in "Delitto e castigo". Siamo nella notte che questo personaggio trascorre in un albergo prima di suicidarsi. Nel sonno, egli crede di vedere una bambina cacciata via da casa, bagnata di pioggia e piangente, con tipiche caratteristiche infantili anche nel modo di parlare: "… "ho lotto una tazza"; è una bambina malvoluta che la madre aveva probabilmente coperto di busse". L’uomo la soccorre e la accudisce teneramente, mettendola poi a dormire nel proprio letto, prima di lasciare la stanza. Fin qui, assistiamo ad un rapporto adulto-bambino di tipo sano, in cui l’uomo, particolarmente sensibile, offre alla bimba il calore umano e la sollecitudine di cui la piccola ha bisogno; ma ecco come viene varcato il "cut off point" che separa un rapporto sano dalla pedofilia e quello che divide il caso del pedofilo eccessivamente ed inopportunamente amorevole da quello "delinquente ed assassino":

"quando è procinto di uscire dalla stanza, qualcosa nel volto della bimba lo turba: il rossore delle guance, inizialmente imputato alla febbre, sembra ora prodotto dal vino. Poi la bimba che prima dormiva di un sonno profondo e beato, sembra fingere di riposare e anzi ammiccare in un modo non infantile. Finché anche le labbra si aprono in una risata sfrontata e la tenera bambina si trasforma in una venale mondana francese di cinque anni, che invita Svidrigajlov tra le proprie braccia. Egli, inorridito… alza il braccio per colpire la seduttrice, ma in quel momento si sveglia.(…) [2 – 4, pag. 190]

Che qui si tratti di un sogno, di cui Svidrigajlov è autore e "regista", dimostra con particolare evidenza che la scena dell’abuso sessuale ne rispecchia un’altra che avviene nel mondo interno del pedofilo e che la sua percezione della vittima è influenzata da meccanismi proiettivi. Sono proprio questi ultimi che spingono Svidrigajlov a varcare quel "cut off point" di cui parlavo più sopra:

"…Il perverso getta la propria colpa sulla bambina perché, non tollerandola, deve eliminare l’oggetto che in qualche modo la sottolinea. Ma la bimba viene anche investita dalla proiezione dei desideri seduttivi infantili dell’uomo, delle istanze del bambino che vuol sedurre il genitore per essere amato, disperatamente, perché questa bimba ha una mamma che non la ama" [ibidem].

Anche nel mondo interno di Svidrigajlov, come in quello di ogni pedofilo, troviamo le tracce di un’aggressione subita nell’infanzia e nata sul terreno di una grave deprivazione affettiva. I "desideri seduttivi infantili" sono il frutto dell’atteggiamento temerario del bambino che, non amato, diviene "disposto ad accettare qualsiasi rischio pur di raggiungere gli affetti di un adulto" [4, pag. 191] e finisce, così, per gettarsi tra le braccia del suo aggressore. La comparsa traumatica di una genitalità "fuori posto" suscita, nel bambino che subisce l’abuso, quantità eccessive d’eccitamento che il suo organismo e la sua mente immaturi non riescono ad elaborare e contenere. È ciò che Shengold definisce "too-muchness", cui il bambino stesso reagisce con una forma arcaica d’aggressività: una rabbia incontenibile, cieca, diretta contro tutto e tutti, anche contro di sé, e causa di un intollerabile sentimento di colpa [5]. Tutto questo viene da Svidrigajlov proiettato sulla bambina del sogno e ciò da inizio all’aggressione.

La psicologia del pedofilo ci consente anche di capire ciò che avviene nel mondo interno della persona normale di fronte alla pedofilia. Poiché anche in ciascuno di noi c’è una parte infantile…

"… ciò che comporta una minaccia, da parte dell’adulto, per i bambini (come dire per la parte bambina dell’adulto) suscita reazioni emotive di notevole entità, che sempre presentano… aspetti fortemente infantili; per motivi difensivi, di fronte a questi comportamenti che rappresentano una minaccia per l’integrità dell’Io, compare una pretesa d’onnipotenza e perfezione" [4, pag. 188]

Questo bisogno di un controllo "onnipotente e perfetto" che garantisca in modo infallibile dalla possibilità di abusi ai bambini si traduce, come tale, in "misure di controllo eccessive, rigide e ossessive, e inevitabilmente controproducenti, in rapporti che invece hanno bisogno d’essere accompagnati da istanze amorose e sensuali" [ibidem].

Il bambino piccolo ha bisogno di essere toccato, accudito, preso in braccio con tenerezza e piacere. Per inciso, Rossi ci spiega, in un’altra parte del libro, come la madre "attraverso il contatto, lo holding, il tenere in braccio più o meno rotondo o spigoloso" (ossia accompagnato da piacere piuttosto che da fastidio), condizioni la cenestesi del neonato e del futuro adulto [4, pag. 53]. Anche il bambino più grandicello, entrato nella situazione edipica, ha bisogno che la madre consideri, oltre che il piccolino, anche l’uomo "in statu nascendi" che c’è nel figlio e che impieghi in questo, in forma ludica, la sua sensualità femminile. Lo stesso, ovviamente, vale per la bambina da parte del padre. Ciò produce una conferma ed un potente sostegno al nascente sentimento di virilità o femminilità dei piccoli. Il bambino, quindi, ha bisogno di:

"… essere amato, e con sensualità: l’adulto lo deve amare e tocca a lui fermare la sensualità al di qua del limite in cui la genitalità, fuori luogo e fuori tempo, defonde la pulsione e si trasforma in aggressività, perdendo ogni caratteristica contenitiva" [4, pag. 189]

Che non venga oltrepassata la soglia che separa "l’adulto affettuoso che si relaziona al bambino con trasporto e con calore" dal "pedofilo perverso" dipende, quindi, dall’equilibrio e dalla capacità di comprensione empatica del genitore e non può essere garantito da regole imposte dall’esterno. Al contrario, esse creano "un rapporto affettivamente asettico ed irrigidito da limitazioni troppo forti" che, privando il rapporto genitori-figli (o insegnanti-allievi) della spontaneità e libertà necessari "s’inserisce in modo controproducente nello sviluppo della personalità" [ibidem]. Ecco perché con il bambino, come in tutti i rapporti umani caratterizzati da dipendenza, "il rischio di abusi è inevitabile, ma vale la pena di correrlo, se si vuole che il rapporto svolga la sua funzione positiva ed evolutiva. Se invece la paura (e con essa la pretesa di controllo onnipotente) prevale sulla fiducia, le relazioni non possono che irrigidirsi e isterilirsi" [ibidem – 2]. Che, poi, la "pedofilo-fobia" possa produrre danni non inferiori a quelli della pedofilia stessa è anche attestato dai numerosi errori di giudizio commessi, sotto l’effetto del panico, da medici, insegnanti, assistenti sociali e giudici, con tutte le terribili conseguenze che ne derivano agli adulti ingiustamente sospettati ed ai bambini stessi. Va, poi, menzionato il possibile, tragico errore diagnostico, commesso anche qui per effetto della "pedofilo-fobia", in quei casi tutt’altro che rari di disturbi fittizi by proxy (madri dominate dal bisogno compulsivo di trovare nei figli i segni di attacchi pedofili subiti) [4, pag. 197]. Il non riconoscimento di questo grave disturbo della madre, oltre che produrre nel bambino danni psicologici irrimediabili, lo fa permanere in una situazione di grave rischio.

IV — La paura della libertà

Legato al problema dell’intolleranza ai rischi nei rapporti è quello della paura della libertà. L’autonomia interiore, infatti, implica la capacità di assumersi la responsabilità delle proprie scelte, con tutti i rischi che ne possono derivare. Nella psichiatria "del futuro" del racconto, è evidente, da parte di tutti, la completa rinuncia a libertà e responsabilità: ognuno (medici, pazienti, persone comuni) è schiavo di leggi, protocolli, schedature e la possibilità di decidere liberamente della propria vita è ridotta quasi a zero. La lotta tra l’anelito alla libertà e la paura di conseguirla è presente in qualsiasi epoca della storia dell’umanità: una delle citazioni più frequenti di Romolo Rossi, a questo proposito, è il capitolo del "Grande Inquisitore" dei Karamazov. In particolari circostanze storiche, tuttavia, il conflitto diviene più acuto. Nel presente, un compito particolarmente difficile di fronte al quale è posto lo psichiatra è quello di aiutare il paziente a conseguire una maggiore libertà interiore. Si tratta, qui, di un arduo percorso "tra Scilla e Cariddi": fra i due rischi opposti di un eccesso di zelo e di inopportune omissioni. Il problema è trattato da Rossi in tutto il libro e soprattutto nel paragrafo del capitolo 1°: "Ma cosa volete da noi? L’errore di Prometeo" [4, pag. 30 e seg.]. In alcuni casi, un eccesso di zelo terapeutico, animato dal desiderio di dare al paziente un sollievo immediato e totale, limita la libertà interiore di questi anziché ampliarla. Si tratta di quelle situazioni che, in quanto "espressione di una ‘vis sanatrix naturae’ che può lenire condizioni di sofferenza non patologiche" [4, pag. 38] debbono essere rispettate e richiedono astinenza terapeutica. Un esempio è il lutto che, al di là dell’esigenza di attenuare la sofferenza che produce, non dovrebbe essere ostacolato e tantomeno soppresso, in quanto "meccanismo fisiologico alla base dello sviluppo… che rappresenta, pur nella sua essenza di evento doloroso, la condizione ineludibile dell’evoluzione" [4, pag. 56]. Anche la vita più serena, infatti, nelle sue diverse fasi evolutive è caratterizzata da un susseguirsi di separazioni e perdite ed il lutto è il processo che consente di superarle. Un altro esempio è l’uso di "modificazioni isteriformi dello strumento relazionale che rappresentano spesso un fattore di equilibrio nei rapporti umani" [4, pag. 41]. Qui, un eccesso di consapevolezza imposta al paziente, paradossalmente limita la sua libertà.

Il compito terapeutico che pone maggiormente alla prova, nello psichiatra come nel malato, la "tolleranza" verso la libertà è quello di aiutare il paziente ad acquisire un maggior adattamento alla realtà. Rossi, a questo proposito, cita Wilhelm Reich, l’Autore che, in ambito psichiatrico-psicoterapico, ha affrontato per primo questo tema. Per Reich, lo scopo fondamentale della terapia analitica di aumentare la libertà affettiva e sessuale dell’individuo (che coincide con la capacità d’essere se stesso), cozza inevitabilmente contro il conformismo borghese. Per questo motivo, il terapeuta "andrà incontro all’inimicizia, al disprezzo e alla calunnia, a meno che non preferisca, a spese delle sue convinzioni teoriche e pratiche, fare concessioni ad un ordinamento sociale che è in diretta e insolubile contraddizione con le esigenze della terapia… Si giunge anche a snaturare il senso del principio di realtà e dell’adattamento alla realtà, intendendo con esso la totale sottomissione alle esigenze sociali" [4, pag. 32]. Anche per Rossi è facile che il terapeuta-analista, per gli stessi motivi evidenziati da Reich, "tradisca i suoi principi di scopritore inesorabile, e soffochi per rispetto del sistema sociale… la rivoluzione che egli stesso ha messo in moto" [ibidem]. Questo problema può, forse, essere affrontato in maniera meno "ideologica" di quanto fa Reich, ponendo maggior attenzione alla realtà clinica. La sottomissione (parziale o totale) al conformismo del "gregge" (e non solo del mondo borghese) è inevitabile quando il paziente, per i suoi limiti, non riesce a sottrarsi a questo tipo di dipendenza fondamentalmente arcaica; egli, nella sua fragilità, è costretto a confondersi, almeno in parte, col gruppo cui appartiene e perciò deve reprimere le spontanee manifestazioni della propria individualità che sono, innanzi tutto, affettive e sessuali. Spingerlo accanitamente alla completa libertà interiore sarebbe fargli violenza. All’opposto, sarebbe un’altra forma di violenza se il terapeuta, incapace per i suoi limiti d’emanciparsi dalla conformistica dipendenza dal mondo circostante, spingesse accanitamente il paziente ad una "totale sottomissione alle esigenze sociali" presentandola, in modo mistificante, come "adattamento alla realtà". La soluzione di questo problema clinico non può sottostare a regole generali, ma deve essere individuata, caso per caso, a seconda delle possibilità o dei limiti del paziente. Naturalmente questo presuppone che il terapeuta abbia conseguito una sufficiente libertà interiore e soprattutto in questo le osservazioni di Reich si rivelano particolarmente preziose.

IV — La psichiatria del presente: di fronte a una scelta

L’alexitimia (come fatto psicopatologico e culturale che rende ciechi di fronte alla vita interiore), l’intolleranza ai rischi che i rapporti umani comportano e la paura della libertà rappresentano ostacoli che il trattamento dei disturbi psichiatrici ha dovuto affrontare da sempre. Si tratta di difficoltà che la coppia terapeuta-paziente può superare al suo interno, grazie ad un processo terapeutico che consente di ricondurle alla loro matrice transferale e controtransferale. Il paziente ne può, così, uscire rafforzato nella consapevolezza di sé e nella libertà interiore. Ma tutto questo può avvenire solo a precise condizioni: che il terapeuta possieda adeguata preparazione e formazione, e che la cornice istituzionale e la cultura dominante consentano a medico e paziente di sviluppare un rapporto terapeutico libero e spontaneo, privo d’interferenze esterne. Il momento attuale è proprio caratterizzato da un peso crescente di condizionamenti, esterni al rapporto terapeutico, capaci d’influenzarlo in modo negativo. Come dicevo più sopra, l’esigenza di presentare a tribunali ed amministrazioni prove "a discolpa" che abbiano il carattere dell’oggettività, spinge i terapeuti ad ignorare il mondo soggettivo del paziente, favorisce una sorta di "alexitimia diagnostica" che va a confermare e rafforzare l’alexitimia del paziente. La comparsa tra medico e paziente di reciproca incomprensione e diffidenza non riesce più ad essere agevolmente ricondotta, attraverso l’analisi del transfert e del controtransfert, ad una patologica intolleranza per i rischi dei rapporti; questo perché essa più facilmente da luogo ad "agiti", quali denunce e contro-denunce, non più correggibili con l’interpretazione. Altrettanto si può dire della paura della libertà e della responsabilità: se essa si traduce in un sistema di controlli eccessivi, di rigide regole e di leggi, essa non può più essere trattata come fatto patologico ed il rapporto terapeutico ne viene soffocato e distrutto [3]. Per far fronte a questa situazione, gli strumenti di cui dispone il solo psichiatra sono del tutto insufficienti. Cercare di "curare" tali "malattie" del rapporto terapeutico, infatti,… "… quando sia gli interessi e i conflitti del mondo esterno, sia le proiezioni e gli investimenti di quello interno convergono e colludono, senza aggiustare aspetti strutturali e sociali che continuamente si riproducono… è del tutto utopico" [4, pag. 110]. Da qui l’importanza di questo libro di Romolo Rossi, che si rivolge anche ai "non addetti ai lavori": solo uno sforzo congiunto di terapeuti, pazienti, potenziali pazienti, insomma tutti, può essere in grado di correggere la realtà tendenzialmente negativa dell’attuale psichiatria. Il rischio paventato da Rossi è "la fine della Psichiatria e la sua sostituzione con una neurologia con sintomi mentali, in cui lo studio, l’approfondimento, il chiarimento dei fenomeni della mente non avrebbe più importanza, come ha un’importanza relativa ai fini neurologici l’emozione che ha un emiplegico nel non poter più muovere l’emilato" [4, pag. 15]. Se consideriamo quanto detto in altre parti del libro, il rischio da temere è forse ancora peggiore. Per illustrare questa riflessione, occorre partire dal paragrafo del capitolo 4° "Ottusità e acutezza del dottor Cottard" [4, pag. 111 e seg.]. Qui viene affrontato il problema di quei terapeuti (numerosi tra i medici) capaci di capire, talora con grande perspicacia, quanto avviene nel corpo dei loro pazienti, ma del tutto ottusi per ciò che riguarda la loro mente. Il personaggio proustiano Cottard, che compare nella "Recherche", c’illustra la psicologia di questo tipo di medico. Egli, per il particolare assetto della sua vita interiore (legata ad un mai superato stato fusionale arcaico con il corpo materno), possiede una grande dimestichezza ed affinità con lo "strato profondo, psico-fisico indifferenziato, protomentale" della mente dei suoi pazienti; strato da cui provengono i segnali di ciò che avviene nel loro corpo [1 — 4, pag. 113]. Cottard concentra la sua capacità di comprensione empatica su questo livello protomentale, mentre il resto della mente del malato, più evoluta ed autonoma, legata ad una struttura separativa, gli è completamente estranea. Ebbene, se immaginassimo il dottor Cottard nei panni di quel "neurologo-pseudopsichiatra" prospettato da Rossi, dovremmo ammettere che si tratterebbe di un buon neurologo; ossia di un medico capace di diagnosticare correttamente, se non altro, quella pur minima percentuale di disturbi mentali direttamente riconducibili a lesioni cerebrali accertabili (come, ad esempio, i disturbi dell’umore sintomatici di sclerosi a placche o di morbo di Parkinson) o quelli legati ad importanti fattori concorrenti organici. Ma il dottor Upe, lo psichiatra "del futuro" del racconto, non assomiglia affatto a Cottard: non ha nulla di paragonabile a quelle straordinarie capacità cliniche (benché limitate alla sfera corporea) che caratterizzano il personaggio proustiano; è, al contrario, un semplice burocrate della "normalizzazione", del tutto privo di vere facoltà terapeutiche.

Rossi, in conclusione, con il suo libro ci pone di fronte a una scelta (che, ai tempi di Upe e di Sil, è già stata malauguratamente compiuta e che, forse, ai nostri tempi siamo ancora in grado di fare): quella tra una "psichiatria" capace di offrire ai pazienti solo l’illusoria garanzia di preservarli da rischi e responsabilità, ma in realtà concentrata nel compito d’imporre la "normalità" (o scaricare sui malati la responsabilità d’insuccessi), e del tutto incapace di curare; e, all’opposto, una psichiatria che non può dare garanzie assolute di successo, che lascia ai pazienti quel livello di responsabilità di cui sono capaci e che a loro spetta, ma che non rinuncia a curare. Che non rinuncia, soprattutto, ad assolvere il compito fondamentale di questa pratica medica: aiutare la persona "fuori di sé" a riappropriarsi di se stessa, a ritrovare la propria mente.

Bibliografia

  1. Nanni Sabino (1993) Dimensioni del rapporto medico-paziente: il corpo e la cura (Rivista di psichiatria, vol. 28, N° 2, pag. 89-93)
  2. Nanni Sabino (1998) Pedofilia: la tragedia della vittima e quella del carnefice. Apporti letterari alla clinica (scritto inedito)
  3. Rossi Romolo — Nanni Sabino (2000) Il rapporto terapeutico malato e la sua cura. Il ruolo della Psichiatria di consulenza-collegamento (Studi di Psichiatria, vol. 2, n° 1, pag. 10-18)
  4. Rossi Romolo (2010) Sottovoce agli Psichiatri (Piccin)
  5. Shengold Leonard (1989) Soul murder. The effects of childhood abuse and deprivation (Fawcett Columbine 1991)

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