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Le favole tra mito e tragedia a proposito di IRIS le favole di Francesco Bollorino

24 Mar 16

Di Sarantis Thanopulos
NDR: Il volume è acquistabile on line presso il sito dell'Editore ALPES seguendo il LINK

In principio ci fu il mito.
Un racconto in cui il tempo “lineare”, storico è di là da venire. Al di qua della storia (della trasformazione), quindi nel prima ancora del principio di continuità nella discontinuità dell’esperienza descritto da Eraclito: “Nello stesso fiume entriamo e non entriamo, siamo e non siamo”.
Alloggiato nella dimensione “circolare” del tempo (nei “ricorsi” della storia che annunciano instancabilmente la sua fine) il mito è nondimeno al di là dell’inizio, al di là del luogo originario dell’esperienza, dove la differenza tra sé e l’altro non c’è. Il mito presuppone il trauma della separazione dall’altro, del passaggio melanconico dal legame indifferenziato con l’oggetto desiderato alla scoperta della sua irriducibile alterità.
Raffigurazione post-traumatica dell’esistenza, il mito ripara una mutilazione profonda della soggettività (la perdita dell’altro come parte di sé) non negando la cesura, ma sospendendo il suo tempo di modo che il soggetto è mutilato del suo oggetto, differenziato ma, al tempo stesso non lo è. Lo stato indifferenziato è quello differenziato dell’esperienza coesistono, senza nessuna reciproca influenza e interazione, e insieme al trauma e al tempo è sospeso anche il lutto.
Il testo del mito ha una sua coerenza narrativa perché rispetta il principio logico della non contraddizione (processo secondario), ma, contemporaneamente, non lo rispetta e fa coesistere i contrari (processo primario). In altre parole ha l’aspetto di un testo onirico manifesto ben riuscito, ma contrariamente al sogno, e all’identificazione isterica, sospendendo il sentimento di mancanza e il lutto non promuove un movimento del desiderio. Il mito non sogna, la sua presenza esclude la trama onirica della realtà.
Di cosa parla, cosa ci dice? Dei “fantasmi originari”: scena primaria, castrazione, seduzione.
Delle origini (l’accoppiamento degli opposti); del vivere nella mancanza; dell’eccentricità dell’esistenza (l’altrove dell’essere). Sono temi collegati con la perdita dell’onnipotenza e dell’autarchia che anticipa violentemente alla vita il suo dopo, la morte, è la sua inesorabile caducità. La narrazione mitologica ha essenzialmente la funzione di conciliare la vita con la morte e lo fa usando il passato come fondamento di un presente continuo, di un infinito senza futuro.
Racconta il fatto accaduto come se stesse sempre accadendo, mette in scena la perpetuità dell’accadere. Il suo fascino sta nel ossimoro che costruisce: la sincronia diacronica. Il dispositivo onirico/isterico che ha messo in movimento il mito, sprigionando il potenziale trasformativo dell’esperienza traumatica della perdita dell’altro come parte di sé, l’ha realizzato l’opera tragica. La tragedia ha creato una distinzione netta tra il prima (l’avant coup) e il dopo (l’après coup) del trauma, tra l’autoreferenzialità e la presenza necessaria dell’altro. In questo modo ha rivelato, attraverso la tensione che fa diventare spazio trasformativo lo iato, che la vita è fondata sulla passione che ama il lutto, sul desiderio. La tragedia è il mito che sogna, che tra il qui e l’altrove, tra il prima e il dopo, tra una cosa e il suo opposto, crea il viaggio: il movimento che eccede l’incontro.
Strumento di elaborazione di una perdita che mette il soggetto nella condizione di vedere nella presenza dell’altro (che in quanto diverso può esserci e non esserci) il proprio esilio da sé, l’opera tragica mette in azione il lutto come forza propulsiva dell’estroversione della soggettività. L’altro minaccia sempre il soggetto sia con la sua presenza (la seduzione/castrazione) sia con la sua assenza (lo sradicamento da sé) che portano entrambe alla paura di perdersi senza più ritrovarsi. Ci si trova puntualmente nelle strettoie della vita (l’incrocio fatale per Laio ma anche per Edipo) a dover scegliere tra sé e l’altro, tra la morte propria e la morte sua.
L’amartia, l’errore preterintenzionale che compiamo, ignari delle conseguenze catastrofiche di cui è foriero, quando l’evoluzione dei fatti e la concatenazione degli eventi sfuggono alla nostra visuale, porta, come sua fatale conclusione, all’hybris, l’autoreferenzialità/arroganza che supera il limite invalicabile: la distruzione dell’altro.
Soltanto per rendersi conto, subito dopo, che la morte dell’altro significa la morte del nostro desiderio, la nostra stessa morte. Il poeta tragico mette sulla scena l’ “ormai è troppo tardi” del fatto accaduto insieme al “si è in tempo” del fatto non ancora accaduto. Produce nell’animo nello spettatore una tensione tra le due prospettive che, sospendendo l’effettività dell’azione in modo simile a quello onirico, crea uno spazio potenziale, sperimentale dell’esperienza che sposta la messa a fuoco della situazione. In questo spazio i fatti sono vissuti, come Aristotele ha evidenziato, nel loro “come potrebbero accadere”. L’effetto su chi assiste al dramma sulla scena, colpito direttamente nell’agonia del suo desiderio, è quello dello sconvolgimento. “Eleos” (compassione), Phobos (terrore), i sentimenti individuati da Aristotele, e “Pothos filopenthès” (desiderio che ama il lutto), il sentimento tragico per eccellenza secondo Gorgia, destabilizzano, senza possibilità di ritorno, il mondo interno dello spettatore. Costui preso dallo sgomento di fronte al superamento dei limiti, dall’identificazione con il dolore dei personaggi drammatici (in cui si riconosce umanamente) e dalla passione che nasce dal senso profondo di mancanza, trova un approdo liberatorio nella “katharsis”: l’apertura radicale del proprio modo di essere all’alterità nel punto in cui una chiusura definitiva appariva inevitabile.
Aristotele pensava che mentre la tragedia parla dei fatti nella loro potenzialità, la storia (da lui vista come cronaca) descrive i fatti nel loro effettivo compito. In realtà lo storico (a partire da Tucidide, cresciuto nel contesto della cultura tragica) realizza una significazione a posteriori dei fatti realmente accaduti solo attraverso una loro interrogazione necessaria dai fatti come potrebbero accadere. Andando oltre l’orizzonte della cosmogonia mitica, la tragedia mette in movimento il passato nel presente, aumentandone la portata e la profondità, e lo apre al futuro.
Fa entrare nel racconto della vita il tempo storico, che non è, a voler essere precisi, il tempo lineare (la successione degli eventi): è il tempo dell’esperienza inattuale in cui l’evento non è collocato nel passato e neppure nell’attualità, ma nel luogo di trasformazione dell’uno nell’altra (dove la cosa accaduta non ha finito di accadere e dove la cosa che accade sta prendendo ancora forma). Messo in movimento dall’opera tragica, il tempo del presente infinito del mito ritorna con la favola. E insieme tornano i “fantasmi originari” lavorati, tuttavia, dal dilemma tragico (la tensione tra il desiderio di sé e il desiderio nei confronti dell’altro) che rappresenta l’ombelico del sogno, il punto generativo della sua trama. La scena primaria diventa la sede di un conflitto tra l’autoreferenzialità fallica (l’auto-fondamento) e la relazione con altro (che lo fa diventare co-costitutivo di sé) che nel mito coesistono senza tensione (l’accoppiamento degli opposti crea un Uno messianico).
La castrazione e la seduzione danno configurazione al pericolo di morte di sé o dell’oggetto amato che nel mito è sospeso nel suo incombere. Lavorati dal dispositivo tragico/onirico i fantasmi originari che sottendono la trama narrativa delle favole sono sotto l’effetto della rimozione, si configurano come un testo manifesto del sogno vero e proprio.
Al contrario del mito, la favola sogna, ma i confini nel rapporto tra sé e l’altro sono rigorosamente definiti, con una netta delimitazione tra ciò che può essere accettato e ciò che deve essere rimosso.
Nella tragedia i confini sono in trasformazione, nella favola appaiono costituiti e immodificabili: il conflitto è pacificato. Il simbolismo tragico ha una funzione generativa (che fa parte della creazione del sogno): crea la transizione dal puramente soggettivo all’oggettivo (Winnicott). Il simbolismo della favola è un linguaggio (universale) già costituito, in modo del tutto simile al linguaggio onirico. Le favole sono il testo manifesto di un sogno collettivo, che resiste all’amnesia ed è aperto alle evoluzioni e alle trasformazioni della sua trama narrativa.
Se da una parte rimuove una parte significativa del desiderio, imponendo una chiusura e un limite, dall’altra dà forma e cittadinanza indiretta al rimosso, garantisce la sua permanenza sul piano simbolico. Consente in questo modo sul piano della fantasia, ciò che la negazione consente sul piano intellettuale e il moto di spirito sul piano delle emozioni: l’espansione dell’esperienza soggettiva (e la soddisfazione sublimata del desiderio rimosso) al di là dei limiti sociali della sua definizione che permangono. Queste considerazioni sul Mito, tragedia e favola – abbozzo di alcune modalità essenziali di funzionamento che lascia da parte la complessità della loro struttura – sono il risultato dell’effetto immediato della mia lettura del libro.
Le tre prospettive sottendono le affascinanti costruzioni narrative di Francesco Bollorino la cui forza sta nel loro intreccio.
La forma della scrittura è apparentemente quella della favola, ma il mito la interroga facendo incombere, in tutta la sua enigmaticità, la cesura melanconica tra la vita e la morte.
La sospensione temporale che il mito opera, non annulla il potenziale destabilizzante di questa cesura. Il suo effetto sul contenuto rimosso della favola, che è parimenti sospeso sul piano temporale, gli conferisce una maggiore profondità, toccando il nucleo centrale della soggettività e fa attraversare il racconto da un ineludibile senso di mancanza.
Alla tensione che la mancanza crea, Bollorino risponde facendo entrare in scena il dilemma tragico dell’impossibile scelta tra sé e l’altro. Nel leggere le favole di “Iris” è importante tenere conto di tutto ciò, perché il racconto, minato e interrogato dal mito, abbandona la sua coerenza e mentre tende a slittare nella storia zen – l’equilibrio tra gli opposti – finisce, invece, nella direzione del lutto: l’inattualità dell’esperienza trasformativa.
La sua interpretazione delle favole, della loro origine, della loro materia, della loro funzione, Bollorino la mette in scena fin dall’inizio, inizia il suo libro con una favola sulle favole stesse. Le mette nel cuore fanciullo dell’uomo (la spinta spontanea alla vita che apprende dalla curiosità, l’esplorazione e la sperimentazione); le costruisce con la materia dei sogni (la leggerezza del pensare e del sentire che abita lo spazio intermedio tra la percezione soggettiva e quella oggettiva della realtà, in prossimità di streghe, draghi, spiriti maligni); assegna loro la funzione di regalare il sorriso (l’intima contentezza di esistere, la dolcezza che abita la vita non come autocompiacimento ma come timido, eppure convinto, schiudersi all’imprevisto). Tuttavia, il regalo interno che le favole sono, non lo si conquista se non al prezzo del senso di mancanza.
Svilire la perdita dell’apertura fanciulla all’alterità, pensare di poter farne a meno (come capita al potente re che esilia le fate/favole sulla luna) è all’origine dell’hybris (che strutturata nell’adolescenza trova il suo compimento catastrofico in epoca adulta). La perdita del ricordo di un sorriso rivolto a Polinice (a ciò che egli rappresenta) in tempi migliori, conduce Kreonte alla rovina. Il viaggio in cui l’autore ci trasporta attraversa luoghi desueti più che insoliti, “no man’s lands” più che luoghi affollati di incontri. Si avvale della compagnia di figure paradigmatiche che abitano il nostro modo interno (nella buona e nella cattiva sorte): il re, la regina, la principessa, il principe, il saggio, l’eremita, il profeta, il cavaliere senza macchia e paura, il discepolo, il bambino, l’inventore, l’amante inconsolabile, la fata, il mago, la strega. E, immancabile, il Padreterno. L’origine, come invenzione, delle cose: l’intermittenza del cuore, i sogni, i desideri, la scrittura, la musica, la memoria come profumo del pensiero.
Gli eroi, Dio compreso, cercano se stessi nel mondo. Vogliono scrivere, per appropriarsene, il loro destino, la stoffa di cui è fatta la “buona opinione di sé”. Mescolano qualità e quantità, si affidano alla magia/alchimia che è fatta di desiderio e buon senso. Non esiste una guida di lettura “ragionata” vera e propria per il libro di favole mitico/tragiche che avete finito di leggere, pregustandone, a posteriori, la lettura. Bisogna affidarsi al viaggio che Ulisse vi ha dato, ricordandovi del dispositivo che gli consente di ascoltare le sirene senza perdere la memoria di casa.
Per cui se sentiste il bisogno di un dispositivo simile, per prendere la misura di luoghi e cose, mettete insieme nel modo che sentite proprio, Gigi e Iris.
Il primo, abitante dell’anti-favola (la favola che nasce dal lieto fine), ostinatamente e penosamente divenuto consapevole del luogo di morte in cui vive, rinuncia al farmaco della “felicità senza desideri”, per scoprire che può essere felice solo se è libero di essere infelice. La possibilità della morte, della perdita, lo libera dal Nirvana (la vita morta).
La seconda, ripara la carne logorata dell’eros, sulla quale ha infierito la cattiva sorte, ex-tendendo la sensualità dell’esperienza fino a farla diventare speranza sensoriale, augurio sensibile che annuncia l’incontro.

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