[Per l’acquisto del libro contattare l’Editore: dott. Paolo Foramitti, Via Leopardi 16, 33100 Udine – mailto:confine@adriacom.it – tel./fax: 0432 — 297040]
Il mio giudizio su questo libro è che si tratta di un ottimo lavoro, quale raramente capita di trovare nel troppo che si pubblica oggi in Friuli. La ricostruzione degli avvenimenti è accurata, meticolosa, ordinata; l’analisi della diagnosi di isteria – come esplicazione di fenomeni psichici, come modello negativo di comportamento, come riflessione sul femminile, come paradigma dell’alleanza tra potere politico e potere medico – approfondita e stimolante; la biografia intellettuale di Fernando Franzolini, quale ogni biografato o biografando aspirerebbe ad avere; la ricostruzione della vita paesana, in quello scorcio di Ottocento, ricca di dettagli inediti.
Tuttavia, l’autrice palesa più volte la sua scontentezza: i limiti della sua ricerca sono i limiti della documentazione, peraltro spremuta mirabilmente e fino all’ultima goccia; ed altra documentazione, al momento in cui il libro è stato scritto, non c’era.
Così alcune domande restano senza risposta. Perché scoppiò quest’"epidemia"? Da che cosa era sostanziata? Che cosa intendevano dire, e a chi, quelle donne? Perché lo dicevano così?
Credo che all’autrice e a tutti noi piacerebbe ottenere queste risposte. Io, naturalmente, non le ho. Ma credo che, se volessimo saperne di più, sarebbe necessario abbandonare la via diritta e imboccare le vie storte, affrontare i malipassi, e mettersi in malasmans.
1. Questo libro racconta un’"epidemia di istero-demonopatia" che – a Verzegnis, tra il 1878 e il 1879 – colpì chi dice 15, chi 19, chi 20, chi 40 donne. È dunque un libro "di donne"; ma i suoi protagonisti sono quasi soltanto uomini.
Uomini che fanno il maestro, come Antonio Marzona; oppure il sindaco, come Antonio Billiani. Uomini che fanno i preti (onnipresenti): preti-giornalisti – eterodossi come Vogrig, ortodossi come De Bonniot; preti-preti, protagonisti di più o meno miserevoli litigi di bottega, come il parroco D’Orlando, o il parroco Chiabai; preti-detective prudenti e coinvolti, come don Giacomo Paschini o don Antonio Deotto. Uomini che fanno il commissario distrettuale, il prefetto, il deputato, come Pietro Boschetti, Mario Carletti, Giacomo Orsetti; o il presidenti del Consiglio, come Agostino Depretis. Uomini che fanno il medico, come Carlo Del Moro, Antonio Magrini, Giuseppe Chiap – su su, fino ai luminari indiscussi, come Charcot. E, naturalmente, lui, il milzmann, l’ovariotomo, il divulgatore positivo, l’ineffabile Fernando Franzolini.
E tutti gli uomini di cui si parla in questo libro, a loro volta parlano instancabilmente di donne: del corpo della donna, del suo mitologico utero errante, delle ovaie starters di parossismi e di acquietamenti, delle minori dimensioni del suo cervello, che ne postulano la sottomissione e il disordine; della normalità e dell’anormalità della sua condizione; dell’angelo del focolare e della baldracca da bordello.
Ma di quelle donne, attorno alle quali si incentrano i loro ragionamenti ed i loro pensieri, non sappiamo quasi nulla. E ciò non per singolare distrazione dell’autrice, ma perché proprio questo fu l’isteria nell’Ottocento: un discorso che gli uomini facevano sulle donne (discorsi vischiosi ed estremamente tenaci, che ho sentito ripetere ancora durante la mia infanzia: "Le donne ragionano con l’utero" – diceva il parroco a noi chierichetti, schierati per la funzione di maggio).
Io credo che sia necessario e doveroso restituire a quelle donne una biografia, una data di nascita e di morte, dei legami famigliari e un contorno parentale, una disavventura economica e una lettera ai (o dei) figli, un attestato di "miserabilità" o un passaporto per emigrare, una fotografia ed una lapide – affinché ritornino ad essere quello che erano (o almeno l’ombra di quello che erano): a Margherita Vidusson e a Maria Da Pozzo, a Caterina Fior e a Caterina Deotto, a Maria Marzona, a Lucia Chialina, e alla bella e ispirata Veronica Paschini.
E alle altre, cui sarà necessario restituire persino il nome: ad esempio, alle 17 poverette caricate sul carro dei carabinieri e internate all’Ospedale di Udine nell’aprile 1879.
Ciò si può fare, oggi che gli archivi di prefettura, provincia, ospedale civile, ospedale psichiatrico sono finalmente a disposizione degli studiosi.
Ciò si può fare, meglio ancora, utilizzando i procedimenti della demografia storica – non la demografia storica quantitativa, sulla quale già esistono rilievi anche dettagliati e anche per Verzegnis (in parte pubblicati, in parte inediti) – ma con i metodi della demografia storica qualitativa, con la ricostruzione delle famiglie, con i profili biografici. Ciò permetterebbe anche di sfatare uno dei luoghi comuni su cui Franzolini costruì la sua diagnosi, dato anch’esso tenace e vischioso, inverificato ma minacciosamente incombente: la frequenza dei matrimoni fra parenti – da cui discenderebbero quei tralignamenti della razza – che invece tutte le indagini sinora fatte escludono categoricamente.
2. I riti, le consuetudini, le "credenze" di una persona, o di un gruppo di persone, sono un complesso sitema di simboli e di rappresentazioni da decifrare, sono un "sistema di pensiero" da decodificare, coerente (o incoerente), in via di disfacimento o di ri-costruzione, che ha già sopportato la perdita della significanza, o – al contrario – la mantiene ancora intatta e perspicua. Analizziamo due brevi passi.
Il primo è un’affermazione di Franzolini: "Il sistema nervoso, tenuto solo in attività, procaccia a sé quasi esclusivamente gli elementi nutritivi che il sangue fornisce, e aggiunge per tal guisa un certo predominio materiale alla propria predominanza funzionale: i centri senzienti rinforzano d’avvantaggio l’azione loro, reagendo con intensità morbosa sui centri motori ed intellettuali" (sono parole in libertà, che oggi nessun neurologo sottoscriverebbe).
Il secondo è ancora di Franzolini, ma riferito ad un "gagliardo accesso" isterico di una di quelle donne, Lucia Chialina: "Se eccitata da interrogazioni, parlava in terza persona, concitata e con sgarbo, dando nozioni sul diavolo che diceva di tenersi in corpo, cui designava l’appellativo di Sior Tita e che diceva venuto dai pressi di Cividale, ove aveva da mesi abbandonato analogo domicilio per entrare nel suo corpo".
Ambedue queste affermazioni rimandano a credenze da decifrare – a credenze "culte", quella di Franzolini; a credenze popolari, quella di Lucia Chialina.
Il "sistema di pensiero" di Franzolini — che non è oggettivo, ed eternamente valido, ma al contrario strettamente legato al suo tempo, alla sua cultura e perfino ai suoi personali pregiudizi – è stato decodificato splendidamente, nei capitoli terzo e quarto del libro di Luciana Borsatti.
Ma: e il "sistema di pensiero" di quelle donne? (poiché anche loro ne avevano uno). Ho letto su Verzegnis tutto quello che si poteva leggere. Il materiale etnografico è inconsistente: cinque favole in tutto e una raccoltina di proverbi. Urge recuperare il patrimonio di racconti, detti, di fatti tramandati, prima che esso definitivamente sprofondi. Certo, il "Sior Tita di Cividale" che abitava Lucia Chialina si può recuperare attraverso l’analisi della narrativa popolare di altre zone limitrofe.
Asmodeo, Bose, Bello, Lucio Bello, Lucibello; e poi: Boborosso, Barba Sucon, Barba Cosson, Barba Burù, Bècul, Maracut, Maruf, Boòtin, Badalic, Mitis, Micul, Galafar… sono i nomi dei diavoli che abitano gli innumeri personaggi che li invocano a un incrocio di sentieri, che con lui hanno rapporti sessuali, incubi o succubi, che con lui stringono un patto (giovinezza, o salute, o soldi contro l’anima): il patto è scritto, col sangue del dito o del mestruo, talvolta il viglietto si conserva. E una volta giunti al malpasso, il diavolo non ti abbandona più. E i sintomi?
I sintomi di Margherita Vidusson sono – secondo Franzolini – "bolo isterico, gastralgie intercorrenti, appetiti capricciosi, melanconie e pianti senza motivo, qualche deliquio di tanto in tanto".
Ma ecco: "And’era una fantata di disevot agns. A leva jù in taviela cul mus. Ma una femina – una stria – ai à fat di motu: la fantata a à vût un travâs di sanc. A veva di lâ in taviela a fâ penons: ben, a no è stada buina di fâ nuja… A torna a cjasa: nuja mangjâ. Né ch’a mangjava né ch’a durmiva…".
Si tratta degli stessi sintomi cui sono stati dati nomi differenti, oppure si tratta di un adeguamento al modello: per esprimere il disagio della possessione e dello stregamento, ci si deve comportare così? E i gesti?
Quei contorcimenti, quegli strepiti, quelle smanie, quegli ululati e voci di bestie, quelle bestemmie e sconcezze al rintocco delle campane, con cui le donne esprimevano il loro disagio e il loro dolore, donde derivavano, come erano stati appresi, quale sequenza rispettavano (se ne rispettavano una)?
Qui da noi, fino alla prima guerra mondiale certamente (ma anche dopo), i riti funebri – dalla vestizione del morto, alla veglia, al corteo, al banchetto – erano costantemente accompagnati da donne (las vaiotas) che avevano il compito di piangere ritualmente lo scomparso. Las vaiotas si strappavano i capelli, si graffiavano il volto, si battevano il petto, si contorcevano, prorompevano in urla e grida, cantilenavano gli elogi del defunto Innumerevoli divieti ecclesiastici testimoniano la persistenza di questa usanza. "Settimo: che li morti non si pianghino… in Chiesa, perché con loro ululati gridi disturbino li sacerdoti…" (1605). "Mulieres in agenda Mortuorum in ecclesijs ipsis clamant, vana et indecentia verba proferentes. Dum pulsantur campanae pro defunctis quaedam mulieres continuo signant cadavera, imponendo in manibus Defunctorum candelam denario affixo…" (1606). E davvero numerosi altri esempi.
"Con loro ululati gridi"; "Vana et indecentia verba"; "Dum pulsantur campanae"…Forse, è proprio dalle donne deputate all’espressione del dolore rituale che le "isterodemonopatiche" di Verzegnis avevano imparato ad esprimere il loro dolore privato (o qualunque cosa fosse ciò che dovevano esprimere). E forse – più che in termini di "contagio", come ebbe a "diagnosticare" il dottor Franzolini – il numero via via crescente (?) di donne implicate, va letto in termini di com-passione, di com-pianto, di con-divisione, in un villaggio in cui veniva condiviso tutto, dalla terra al lavoro (las comugnas e i plovits), dall’onore all’identità, dove bambini e giovani (la mularìa e la gioventût, si noti il nome collettivo) erano il futuro del paese, non della singola famiglia, come i morti (i nestis muarts) ne erano il passato e la radice.
3. Noi apprendiamo le credenze di Lucia Chialina dagli scritti di Franzolini, e non viceversa. Chiunque abbia lavorato sui processi dell’Inquisizione sa che non si possono ricavare direttamente le credenze o le idee di luterani, libertini, benandanti, streghe dai verbali di quei processi. E’ necessario oltrepassare (e squarciare) il filtro costituito dalla cultura giuridica, dal sistema procedurale, dall’urgenza politica, dalla curiosità e simpatia o dall’incomprensione e disprezzo degli inquisitori.
La relazione di Franzolini va considerata, ad ogni effetto, come un documento storico, da trattare con tutte le cautele con cui leggiamo i processi inquisitoriali; in più, il filtro è spesso, opaco, apodittico, conchiuso; sulle credenze popolari si può ricavarne solo quanto la Borsatti ne ha ricavato.
Perciò, ancora una volta, dobbiamo rivolgerci ad un altro tipo di documento, anch’esso difficile da maneggiare: la memoria orale degli avvenimenti.
La memoria orale è stata poco tentata — almeno qui a Verzegnis: so che esistono testimonianze, raccolte quando ancora era possibile farlo (nell’ottobre 1985), dalla signora Alba Marzona a Villa e dal signor Giacomo Deotto a Chiaicis. Nel 1980 gli scolari hanno intervistato Santa Vidussoni, sposata Deotto, che allora aveva 65 anni: "Di mia mamma… ho molti ricordi e ciò che mi è ben vivo nella mente… sono i racconti di persone indemoniate che parlavano lingue straniere in chiesa, al momento della consacrazione. Noi sorelle non volevamo crederle, ma lei ci diceva di credere, perché di quei fatti strani era stata testimone oculare".
Sono ricordi di ricordi, relitti di obliterazioni. Ma dagli "scarti" possono venire talora sorprendenti illuminazioni. Al centro di questo, ad esempio, ci sono "le persone … che parlavano lingue straniere in chiesa", e la meraviglia stava nel farlo in chiesa, "al momento della consacrazione", perché nel quotidiano quei bambini già mescolavano al loro dialetto i termini tecnici dei boscaioli, fornaciai, muratori bavaresi, ungheresi, rumeni, già dicevano bauf! e blec e scinas e befèl e lasinpon…
Né dobbiamo farci intimidire dai metodi inusuali, dagli accostamenti spregiudicati, dalla comparazione delle omologie, dall’analisi delle metafore, derivabili dai procedimenti più raffinati della psicologia; o – più rozzamente, come me – dalle estensioni analogiche dell’esperienza.
Se ciascuno di noi è stato preda della "possessione amorosa", se ciascuno di noi è stato abitato (con gaudio o con dolore, con rimorso o con rancore) dalla presenza di chi non è più qui o di chi non c’è più, perché non ammettere che anche Margherita Vidusson o Lucia Chialina siano state possedute, si siano trovate abitate dalla presenza (o dall’assenza) di qualcuno? I nomi che oggi io do, che a quel tempo loro dettero, a queste presenze sono soltanto dettagli: hanno a che fare col mio impianto razionalistico, col loro impianto mitico.
A chissà quanti tra noi, accade di parlare "da soli", ad alta voce. A me succede, talvolta, quando guido. Ma in realtà, io non parlo "da solo": io discuto con un interlocutore che non siede accanto a me, ma che ho appena lasciato ancora addormentato a letto, o che mi ha lasciato per sempre in cimitero, o che ho cancellato dalla mia vita e, improvvisamente riemerso, torna a dirmi le sue ragioni su un fatto ormai lontano, su un diverbio concluso…
Che differenza c’è con Maria Da Pozzo o con Veronica Paschini? Certo, io so che quel parlare "ad alta voce" non è vero colloquio, che quell’interlocutore non è reale, e che sta dentro di me. Ma, appunto: "dentro".
La differenza sembrerebbe questa: è "normale" ritenere quell’interlocutore irreale, collocarlo nel mio cervello; è "patologico" ritenerlo reale e collocarlo nel mio cuore o nel mio ventre.
Ma quanto irreale, e quanto invece reale, se mi fa parlare ad alta voce e gesticolare e rischiare un incidente?
Ben poco separa un razionale e mediamente equilibrato medico dell’anno 2002 da una donna di Verzegnis di centovent’anni fa.
4. C’è naturalmente, e resta, il problema del potere. Giustamente, il sottotitolo di questo libro recita: "Superstizione e scienza medica". Così Franzolini definiva la popolazione di Verzegnis: "patentemente credula, superstiziosa, immaginosa nel senso meno lusinghiero dell’espressione… lungi assai dallo svincolarsi dalle pastoie di una crassa ignoranza e di false credenze religiose". Superstizione è il termine con cui il vincitore designa la fede dello sconfitto, che lo sconfitto ancora si ostina a praticare. Dopo Costantino, sono superstizioni tutti i riti e i miti non cristiani. Pier Paolo Vergerio, convertito alla Riforma, pubblica decine di libelli contro le superstizioni papiste. I Conquistadores chiamano superstizioni i riti incaici o aztechi. I padri giansenisti illuminati conducono una lotta senza quartiere contro le sregolate devozioni del popolo cristiano, le superstizioni, appunto: bastino i nomi di Muratori e di Pietro Verri. Gli scientisti positivi dell’Ottocento — Franzolini compreso – bollano di superstizione l’intera pratica religiosa. Ma gli psichiatri psicodinamici di oggi — non ho dubbi — certamente pensano che le credenze e le pratiche di Franzolini e di Charcot fossero superstizione (oppure tra galantuomini non ci urta?).
Dietro la pratica psichiatrica odierna c’è un consensus scientifico e una legge dello Stato. Ma anche accanto e dietro le stupidaggini che Franzolini diceva con tanta sicumera, c’erano tutt’intera la Società di Freniatria (plaudente), i carabinieri, il delegato distrettuale, il prefetto, il ministro. Dietro quelle donne, non c’era altro che una piccola disarmata comunità alpina.
Bisognerà ripensare a questo ogni volta che ascolteremo quelle voci, turgide e roboanti, che affermano che in Italia la "malattia mentale" è stata abolita per legge, e propongono – come misura di comune buonsenso, violentato da ideologi estremisti – la (contro)riforma della legge Basaglia e la riapertura dei manicomi (oltre che dei casini, beneinteso): semmai, per legge, è stato abolito il legame tra il "compasso-di-Weber" di Franzolini e le manette dei carabinieri, tra la camicia di forza e il timbro del delegato distrettuale, o prefetto, o ministro, che ne costituivano il braccio operativo e la mente ispiratrice.
Ma di questo, ovviamente, c’è da andar fieri; e quelle recisioni sono semmai da moltiplicare.
5. E rimane il problema della "medicalizzazione", cioè della progressiva annessione di ogni atto o fase della vita umana, dalla nascita alla morte al dolore (ogni tipo di dolore), alla "scienza" e alla "competenza" del medico – peggio, all’intervento del medico – che era cominciata con la "Polizia Medica" di Johann Peter Frank, si era estesa con la scienza positiva, e impera tutt’ora. La "scienza" e la "competenza" si sono fondate e si fondano su ipotesi transeunti; ma, al contrario, gli interventi sono ben permanenti.
Luciana Borsatti racconta dettagliatamente che Franzolini (e altri con lui) curava le "frenosi isteriche" con l’asportazione delle ovaie; e questa mania di interventi mutilanti fondati su ipotesi indimostrate, indimostrabili, o dimostrabilmente sbagliate, è proseguita per molto tempo, e prosegue a tutt’oggi: si pensi a quella vera ecatombe di tonsille infantili cadute tra il 1955 e il 1970, nella prospettiva di eradicare il R.A.A.; oppure al tentativo di introdurre in Italia l’appendicectomia preventiva (siccome prima o poi l’appendice si infiamma, tanto vale toglierla subito); si pensi alla voga delle lobotomie prefrontali o degli elettroshock; si pensi alla MBD, che avrebbe dovuto "spiegare" i bambini iperattivi, e giustificare il valium con cui li si rimpinzava; fino alle episiotomie che oggi si praticano alla grande.
Io – ma credo tutti noi – preferisco di gran lunga i rimedi popolari (un buon esorcismo magari, forse inefficace ma certo innocuo), ai rimedi proposti ed attuati da Franzolini. Preferisco una prudenza molto simile all’immobilità; e andar dal medico il meno possibile.
6. Come vedete, non ho raccontato per esteso il lavoro di Luciana Borsatti. Ho però esplorato gli interstizi del suo libro, di cui le siamo tutti grati. Vorrei che le pagine che l’autrice ci ha regalato impregnassero – e poi partorissero – l’altro libro che già contengono: non è forse il miglior destino dei libri quello di procreare altri libri?
Allora, forse, il dittico ci restituirà la storia totale: la sola che – ci illudiamo — potrebbe soddisfarci.
Al fine di presentare questo libro ai lettori di POL.it, pubblichiamo, con il permesso dell’editore e degli autori, l’intervento di Alberto Panza e Salomon Resnik.
PSICOANTROPOLOGIA DELLE DEMONOPATIE
Nell'ambito delle riposanti certezze favorite dalle classificazioni manualistiche, il delirio viene distinto dal pensiero ritenuto sano proprio sulla base della sua singolarità e non condivisibilità. Il delirante, come il sognatore, può vivere esperienze splendide o terrificanti ma esse risultano comunque private.
Da questo punto di vista i cosiddetti deliri collettivi hanno sempre rappresentato uno scandalo per la ragione, in quanto, accoppiando singolarità e condivisione, finiscono per mettere in crisi l'ordinato quadro di riferimento delle organizzazioni categoriali del pensiero. Lo si può comprendere dalle reazioni violente e parossistiche delle istituzioni sociali, come nel caso documentato dall'avvincente saggio di Luciana Borsatti, che ricostruisce le vicende avvenute a Verzegnis, in Carnia, tra il 1877 e il 1879, e che culminarono con la deportazione coatta delle donne del paese nel nosocomio di Udine. Dalla descrizione della vicenda sappiamo che il fenomeno riguardò inizialmente alcune ragazze tra i 15 e i 20 anni, i cui eccessi vennero così descritti: ''Si contorciano orribilmente, strepitano, perdono i sentimenti e urlano anche in pari tempo come da voce di cane''. Di fronte al fenomeno rimangono senza esito le prestazioni mediche, non meno che le pratiche esorcistiche messe in atto, dopo molte reticenze, da sacerdoti o guaritori girovaghi. Nel frattempo le manifestazioni escono dal chiuso delle abitazioni e investono soggetti diversi dalle adolescenti, con una sparuta minoranza maschile, rappresentata da un regio carabiniere, le cui crisi vengono prontamente fagocitate dall'ospedale militare e occultate dalla disciplina del Corpo. L'entità delle manifestazioni può essere ricostruita dalla testimonianza dell'anziano parroco di Verzegnis:
"I parenti di queste disgraziate avendomi pregato di celebrare la Messa all'altare di S.Rocco per ottenere la cessazione del flagello, io scelsi a questo fine il 25 novembre 1878. Al principio del 'Credo' una donna maritata, dell'età di 64 anni, si rovesciò sul suo banco e si mise a dimenarsi e a gridare. Subito le altre ammalate furono assalite dalla crisi ciascuna a sua volta, di modo che al momento della consacrazione si udirono clamori, e uno schiamazzo impossibile a descriversi. Gli urli, le bestemmie, i gridi di rabbia davano un'immagine dell'inferno. Gli uomini più vigorosi tenevano a stento quelle povere malate, mentre che i loro parenti e i loro amici le aspergevano con acqua santa. Le vittime del flagello non erano però tutte in Chiesa; però se ne contarono quindici che ebbero il medesimo accesso in quello stesso momento, agitandosi e vociferando come ossesse" (p.48).
La natura del fenomeno è tale da allarmare decisamente le autorità civili, come traspare dai timori espliciti legati al possibile ripetersi di eventi come la predicazione di Davide Lazzaretti sul Monte Amiata e la diffusione del movimento millenarista.
Viene dunque attivato il consiglio medico provinciale che invia in missione a Verzegnis il primario chirurgo dell'ospedale di Udine, Fernando Franzolini, accompagnato dal protomedico provinciale. Il risultato dell'indagine riscontra la diffusione, accanto alle crisi attribuite a delirio demonomaniaco, di numerosi sintomi isterici:
"Le pazienti da noi visitate sono tutte nubili, meno una vedova e due maritate da parecchi anni, una di queste sterile; tutte fra il 17°e il 26° anno di età, meno una di 45, una di 55 e una di 63. In tutte, senza eccezione, precorsero fatti di isterismo, nella più semplice manifestazione, cioè senza convulsioni e senza aberrazioni mentali; cotali fatti consistettero: in bolo isterico in tutte, in alcune nel cosidetto chiodo; in iperestesie generali e dei sensi specifici e più frequentemente dell'udito; in paresi transitorie di moto e di senso: coesistevano in quasi tutte lesioni della sfera affettiva, espresse con facile emotività, con pianti per lievi motivi o anche senza motivo (p.55)
Tra l'interpretazione in chiave soprannaturale – sostenuta, oltre che dal clero, dalla maggior parte della popolazione – e quella contrapposta in chiave di epidemia istero-demonopatica, la questione di Verzegnis – definito nella relazione medica "patria di isteriche e superstiziose" – viene risolta manu militari nell'aprile 1879. Per vincere la decisa opposizione degli abitanti, viene infatti inviata una truppa di soldati di fanteria che occupa il paese e trasferisce le donne segnalate nel manicomio di Udine.
Il saggio di Luciana Borsatti ricostruisce con ricchezza di documenti e acume interpretativo la complessa partita che si intrecciò intorno alle donne del paese e trasformò la vicenda di Verzegnis in un caso di interesse nazionale, davvero emblematico di una mutazione epocale di costumi, che alimentava una feroce polemica tra clericali e liberali. Si rappresenta a Verzegnis l'ennesima variazione storica della contrapposizione tra l'interpretazione teologica e quella medica, che si fronteggiano fin dal tempo degli scritti ippocratici sul Male sacro. Anche nel caso di uno dei più clamorosi episodi di possessione collettiva, che colpì le suore Orsoline di Loudun nel Seicento, due medici avevano preso posizione contro l'ipotesi dell'intervento diabolico, ma con rapporti di forza invertiti rispetto a Verzegnis, in netto svantaggio cioè rispetto al campo religioso.
Nella vicenda friulana tuttavia, malgrado questa evidente e ostentata contrapposizione, per l'osservatore contemporaneo risulta difficile apprezzare la distinzione tra le manovre difensivo-offensive messe in atto dalle autorità religiose come da quelle civili. Mentre in apparenza la vicenda si iscrive nel contesto di un conflitto tra superstizione e scienza, ovverosia tra tradizionalismo e modernismo, in realtà gli atteggiamenti assunti da ambedue gli schieramenti impegnati in questa battaglia mostrano una parallela incapacità di rapportarsi al fenomeno. L'isolamento e l'asportazione 'chirurgica' del nodo problematico, autorizzati dalla scienza medica, appaiono infatti una manovra non meno rifiutante e ostile delle pratiche esorcistiche.
La vicenda può essere considerata emblematica di un processo destinato ad influenzare profondamente, per buona parte del secolo successivo, l'orientamento riduzionista assunto dalla psichiatria istituzionale. Tale orientamento è reso possibile dalla traduzione integrale dei fenomeni psichici nei termini di un modello bio-meccanico, che svincola i fenomeni da ogni possibile orizzonte rappresentativo rendendoli meramente sintomatici. Le potenzialità euristiche del modello suggerito dalla medicina dell'epoca non appaiono particolarmente stimolanti: alla possessione demoniaca viene contrapposta l'ereditarietà, accompagnata da affabulazioni eziologiche non meno fantastiche di quelle proposte dagli avversari oscurantisti. Ne è un esempio l'ipotesi per cui l'abitudine delle donne locali di portare fasci di fieno sul capo poteva provocare, a causa del calore estivo, "speciali infiammazioni del cervello". Certamente il paradigma bio-meccanico libera i fenomeni dalle pregiudiziali legate al satanismo, ma non certo da una generale ipoteca di negatività che determina, come unica possibile risposta, la creazione di un circuito igienistico-profilattico -custodialistico. Il provvedimento di deportazione, come ampiamente dimostrato dalla studio di Luciana Borsatti, appare del tutto sproporzionato rispetto alla consistenza effettiva della vicenda, come si può agevolmente constatare mettendo in relazione i fatti di Verzegnis con episodi consimili. Particolarmente illuminante appare in tal senso il confronto proposto dall'autrice con l'epidemia demonopatica che ebbe luogo a Morzine, nell'alta Savoia, tra il 1857 e il 1873, che arrivò a coinvolgere per un lungo lasso di tempo centinaia di persone facendo temere anche gravi fatti di sangue. Nel caso di Verzegnis invece, l'entità dei provvedimenti adottati va rapportata non tanto alla consistenza del fenomeno quanto all'angoscia che il fatto stesso produceva nelle autorità sia religiose che civili, le quali, discordi su tutto, convergevano di fatto sull'attivazione di reazione difensive primordiali – l'esorcismo o la deportazione – fondate sulla fobia della contaminazione – demoniaca o epidemica che fosse – e del contagio. Non è un caso che uno dei due medici inviati in avanscoperta a Verzegnis fosse un igienista: va tenuto conto, infatti, che la seconda meta' dell'Ottocento è l'epoca della realizzazione dei grandi cordoni sanitari internazionali, come quello anti-colera. Appare evidente come l'epidemiologia abbia fornito una ulteriore possibilità di rappresentazione ad un evento altrimenti impensabile al di fuori del circuito demoniaco-esorcistico, provocando però l'assimilazione integrale e riduttiva di un fenomeno altamente complesso, come la demonopatia, ad un processo di diffusione infettiva.
Malgrado dunque l'intervento medico si proponesse come progressista e civilizzatore rispetto all'oscurantismo oppressivo del clero, di fatto appare altrettanto gravato dalla mancanza di uno 'spazio mentale' adeguato ad accogliere e custodire il fenomeno e potervi entrare in relazione senza violenza. Gli adepti del conservatorismo religioso e i fautori del progressismo positivista – come in tutte le contrapposizioni di tipo fondamentalista – si scambiano reciprocamente l'accusa di impersonare il male e il negativo. I liberali individuano le cause dell'epidemia nella superstizione alimentata dal clero e il clero nella corruzione dei costumi prodotta dalle idee liberali. Come si vede, ciascuno ha il proprio 'diavolo': la perdita delle antiche usanze per gli uni e l'immobilismo per gli altri.
Nell'incontro-scontro tra il punto di vista delle gerarchie ecclesiastiche e quello delle autorità civili, ciò che manca e' proprio il punto di vista delle donne protagoniste della vicenda. Merito ulteriore del lavoro di Luciana Borsatti è proprio il tentativo di dare voce e consistenza a queste presenze femminili, strappando, dalla prosa arida e burocratica dei documenti, frammenti di espressioni, piccoli vezzi, tracce di emozioni: tutto un patrimonio esperienziale ignorato dai 'colonizzatori'. Un ulteriore esempio di questa scotomizzazione è l'iniziativa assunta dai componenti della commissione sanitaria: con l'intento di sottrarre la popolazione all'influenza ritenuta nefasta del clero, venne istituito a Verzegnis un servizio di consultazioni mediche gratuite. E' evidente come la medicina tentasse di proporsi come orizzonte alternativo di ascolto ed anche con buone prospettive, dato che la popolazione femminile fece ampiamente ricorso a questa potenziale risorsa. Tuttavia le donne di Verzegnis si trovarono di fronte ad un vero e proprio furor classificatorio, che comprendeva misurazioni craniometriche e rilievi fisiognomici, dati oftalmoscopici e sfigmografici, esami dinamometrici e algometrici. In questo incontro mancato risulta evidente come proprio la capacità di ascolto risultasse deficitaria: l'apparato della medicina diviene in tal modo una sorta di equivalente del Mallus Maleficarum, per cui chi non si adatta agli schemi della religione scientifica dominante risulta eretico e può essere 'bruciato', quanto meno socialmente. Anche la 'sentenza' relativa alle nuove eretiche di Verzegnis ricalca l'idea di una colpa atavica trasmessa generazionalmente, in quanto la genesi delle manifestazioni isteriche viene riconosciuta in un "nesso genetico con una incipiente degenerazione della razza, che dà per risultato l’eretismo nervoso". La degenerazione del sistema nervoso conseguente a tare ereditarie era del resto il principale criterio esplicativo dei fenomeni isterici, con cui si trovò a misurarsi nel decennio successivo anche Sigmund Freud, il che ci ricorda la straordinaria portata innovativa dell'intuizione – nata proprio da un rispettoso dialogo con donne isteriche – che in quei fenomeni ci fosse qualcosa da pensare, e non soltanto qualcosa da sopprimere.
I dati raccolti nello studio di Luciana Borsatti dimostrano ad abundantiam l'oggettiva concordanza tra autorità civili e istituzioni mediche nel risolvere la situazione di Verzegnis, riducendola ad un problema di ordine pubblico, con l'intervento repressivo dell'esercito. A quattro anni di distanza dalla loro prima missione i componenti della commissione medica potevano affermare che l'epidemia istero-demonopatica era definitivamente debellata e concludevano trionfalmente: "il bastone della scienza ha percosso giusto e ha soggiogato il soggiogabile". La violenza di questo enunciato non può stupire, se si considera che l'autore, Fernando Franzolini, praticava abitualmente, e tentava di diffondere, l'ovariotomia come terapia di elezione dei disturbi isterici. Questa rozzezza interventista va di pari passo con l'ingenuità epistemologica propria del pensiero positivista, che interpretava i fenomeni demonopatici esclusivamente, in chiave anticlericale, come conseguenza della massiccia influenza della religiosità sulla popolazione e ne prevedeva la prossima scomparsa a seguito nella neutralizzazione delle tenebre oscurantistiche.
In realtà il fenomeno non scomparve affatto, ma mutò di segno: alla fine dell'Ottocento la demonopatia popolare entra a far parte dei fenomeni 'arretrati', ma solo per incrociarsi con la versione borghese della possessione, cioè con lo spiritismo moderno, quello delle tables tournantes e dei medium che cadono in transe, come corrispettivo più razionalizzato di un orizzonte rappresentativo perduto. Il tramonto dell'immaginario demoniaco non si è verificato, perché il diavolo non è soltanto lo spauracchio agitato dal conservatorismo reazionario di ogni epoca contro la libertà di pensiero, ma è anche l'obiettivazione rappresentativa dell'impensabile angoscioso. Come ha sostenuto Alfonso Di Nola, nei mitemi demoniaci di tutte le culture si manifesta il perpetuo dramma del dolore, della sofferenza e della morte, di quel 'disordine' che nessuna organizzazione strutturante è in grado di eliminare dall'orizzonte dell'esistere. Da questo punto di vista il problema psicoantropologico non consiste nella presenza di un immaginario demonopatico ma nella sua esplosione, nell'intensificarsi epocale delle sue manifestazioni. Ad oltre ottant'anni di distanza da Il mondo magico e Morte e pianto rituale, rimane ancora attuale la lettura proposta da Ernesto De Martino, che lega ai momenti di ''crisi della presenza'' un potenziale smarrimento di senso dell'Esserci e una parallela intensificata attivazione dell'immaginazione fantastica e della sua rappresentazione in forme ritualizzate o culturali.
La vicenda di Verzegnis è emblematica anche sotto questo aspetto: i fatti descritti cadono – e verosimilmente ne sono espressione – in una crisi epocale in cui si confrontano e combattono paradigmi e modelli epistemici diversi. Il rapido avvicendamento, dopo secoli di stabilità, di ben cinque diversi regimi politici e amministrativi succedutisi a seguito della caduta della Repubblica Veneta (1797) produce tensioni latenti ed esplicite nella comunità, che vanno di pari passo con uno smarrimento dei più consolidati orizzonti di senso. In realtà il carattere improvviso, immotivato e incomprensibile – quindi demoniaco – delle vicende di Verzegnis si attenua proprio mettendolo in relazione con il concetto demartiniano di ''crisi delle presenza''. L'attenta ricostruzione storica effettuata da Luciana Borsatti permette in questo senso una sorta di 'anamnesi' del fenomeno, evidenziando come numerosi elementi prodromici della crisi si fossero già manifestati negli anni precedenti: alle tensioni prodotte dalle profonde modificazioni in campo economico, politico e culturale, va aggiunta l'insicurezza prodotta da una serie di malattie che avevano provocato alti picchi di mortalità nella popolazione. Già quindici anni prima della 'epidemia', diverse donne di Verzegnis avevano cominciato a mostrare i sintomi di quella che veniva definita "forma benigna dell'isterismo", indicatori di un incipiente e ingravescente malessere individuale e sociale. Al contrario di quanto si poteva supporre nell'ottica positivista, gli episodi di demonopatia non si accompagnano alla dominanza ma piuttosto all'esaurimento delle potenzialità euristiche della visione religiosa del mondo ed al conseguente impoverimento del rituale ecclesiastico in funzione di tessuto connettivo. Come sempre questi sovvertimenti epocali producono spinte divergenti difficili da integrare, per cui le culture si irrigidiscono in una sequenza di dogmatismi contrapposti che prendono il sopravvento sull’esercizio del pensiero. Anche nell’ambito dei gruppi o delle ideologie destinati a prevalere e a divenire dominanti, non si sfugge a questa progressiva restrizione dello ‘spazio mentale’, dato che la relazione tra leaders carismatici e carisma teorizzata da Max Weber -per quanto possa apparire suadente e fascinosa- appare equivalente alla relazione tra padrone e schiavo descritta da Hegel e dunque si risolve in un impoverimento delle potenzialità euristiche e delle capacità creative del pensiero.
Una cultura permeata da dogmatismi contrapposti risulta fatalmente inadeguata ad offrire un contenitore alle inquietudini esistenziali di base, per cui si possono produrre disarmonie nell'equilibrio psichico sia lungo la 'dimensione orizzontale' della relazione interpersonale, sia lungo la 'dimensione verticale' della relazione tra diverse parti del Sé. Anche da questo punto di vista il caso di Verzegnis può essere ritenuto esemplare, per una delle più caratteristiche manifestazioni che avevano luogo nel corso delle crisi. Si tratta dell'intensità e pervasività delle impersonazioni zoomorfe, che non mancavano di suscitare lo sgomento dei visitatori:
"Quasi istantaneamente sono colpite da alienazione mentale, e smarriscono la vista, l'udito e la parola; emettono un guaito forte ripetendolo ad ogni 30 secondi circa. L'interrompono talora col canto del gallo, della cornacchia e d'altro uccello notturno; e talora col grugnito del porco, col belato della pecora e che so io. Sotto l'incubo di questo morbo misterioso si divincolano sul letto come biscie, respingono il contatto con qualsiasi persona e cercano di tenersi sempre celata la faccia, ed avversano l'acqua santa (…). Il silenzio della prima sera è rotto inesorabilmente dall'ululato di due delle povere pazienti, e qualche volta anche della terza, ululato che dura presso d'un ora, e mette il terrore e la costernazione in tutta la borgata". (pag.46)
Con occhi meno prevenuti degli osservatori dell'epoca si può riconoscere in questi episodi il ricorrere di un fenomeno che ha un'immensa latitudine antropologica: la mutazione zoo-antropica. L'apparizione nell'umano di un livello di ferinità agisce come indice e rivelatore di un momento di crisi o di trasformazione: si pensi in proposito al ruolo fondamentale svolto da maschere o protomi animali nei rituali magico-propiziatori.
L'impersonazione zoomorfa delle donne di Verzegnis si inscrive dunque in una storia secolare. Tra gli innumerevoli confronti istituibili, si può ricordare il mito delle donne di Argo, narrato dallo pseudo-Apollodoro ed Erodoto. Anche nella città di Danao il processo iniziò da alcune adolescenti vergini, che, colte da furor, rifiutavano le regole comportamentali condivise e si esprimevano con muggiti e altri versi animali. Il processo si estese fino ad investire l'intera popolazione femminile della città greca: le donne abbandonarono le case e la prole per vivere, more ferarum, nelle caverne tra i boschi dell'Argolide. Il mito narra che la 'epidemia' venne guarita da Melampo – conoscitore di farmaci e abile interprete di sogni – con la prescrizione dell'elleboro ma, soprattutto, con la reintroduzione in Argo del culto di Dioniso, il dio che vive in bilico tra ordine e disordine, tra kosmos e chaos, senza sopprimere nessuno dei due momenti costitutivi dell'ontogenesi. Il mito delle donne argive ci ricorda come, di fronte ad una crisi, sia necessario tentare di 'ricostruire i ponti', ritessere legami che si sono interrotti. La mutazione zooantropica appare allora come l'indicatore di una disarmonia, della perdita di solidarietà tra le parti, che si può produrre a seguito di una sofferenza intensa o protratta.
L'aspetto dis-umano della ferinità ci ricorda quanto la nostra stessa fisicità sia al fondo aliena: ne' benevola ne' malevola, ma indifferente al destino della individualità. La fisicità non è la corporeità: la prima si esprime con i codici genetici, con messaggi elettrici o neurochimici, l'altra con sensazioni ed emozioni. Il corpo sente, ricorda, gioisce e teme: il suo linguaggio – altamente antropomorfizzato – è quello delle emozioni, non quello delle sinapsi o del metabolismo sodio-magnesio. Il corpo è una entità individuata, è sempre il corpo 'di qualcuno', secondo l'accezione che Merleau-Ponty dava al termine "corps propre", ma una grande sofferenza può rompere questo rapporto di appartenenza solidale. Se la corporeità scivola all'indietro verso la fisicità, da cui ha avuto origine, i segnali sensoriali più consueti possono apparire bizzarri, tormentosi o francamente minacciosi. Di fronte ad una sensorialità vissuta in modo caotico e marasmatico, anche il delirio può apparire non come il male, da reprimere o esorcizzare, ma come un abbozzo di riorganizzazione delle corporeità. E' frequente, nelle crisi psicotiche, che un soggetto avverta ronzii, rumori o abbozzi di voci aliene o incomprensibili: è il delirio che si incarica di ribattezzare queste allucinazioni acustiche come voci salvifiche o demoniache, reintroducendo così un primo orizzonte di pensabilità.
C'è ancora un elemento altamente suggestivo nel mito di Argo, la presenza di Dioniso, dio nato due volte, dopo la doppia gestazione di Semele e di Zeus: come tale è possessore di un'anima con tratti maschili e femminili, dunque appare particolarmente adeguato a sostenere la soluzione catartica della crisi delle donne argive. Ad Argo come a Verzegnis, nella storia come nel mito, è evidente l'assoluta prevalenza delle figure femminili come protagoniste dei drammi della corporeità. L'esperienza analitica ci insegna quanto spesso una Imago femminile possa rappresentare – anche nei sogni o nei deliri di un uomo – la parte idealizzata quanto quella temuta della propria corporeità. La contiguità della componente femminile – di ambedue i sessi – con la ferinità esprime appunto la possibilità di perdere la sintonia con la sensorialità corporea. Il pathos isterico è il dramma di una sensorialità caotica e ingovernabile: troppo o troppo poco, iperstesia o anestesia, eruzione vulcanica o congelamento. Il paradosso dell'isteria consiste nel fatto che, pur essendo considerata un fenomeno sine materia, sembra poter attivare o disattivare a proprio piacimento qualsiasi processo fisiologico. Scomparsa oggi come l'entità nosografica che forse non e' mai stata, l'isteria sopravvive ad esorcisti e positivisti, proteiforme e inafferrabile: non è più il diavolo ma una 'potenza' simile, un malessere intenso e pervasivo che può prendere possesso di un soggetto in modo apparentemente improvviso e scatenare, a dispetto della scarsa entità delle alterazioni fisiologiche, il senso di una minacciosa metamorfosi. Rispetto ad una sensorialità divenuta estranea, dolorosa e opprimente, la fantasia demonopatica può fungere da coordinatore psichico, così come la corea poteva essere pensata sotto il segno di San Vito o le convulsioni sotto il segno di San Medardo. L'istero-demonopatia appare allora una delle possibili obiettivazioni rappresentative, come la taranta salentina o l'argia sarda, della alienità che ci abita, dell'altrove in cui noi stessi risiediamo. Il diavolo rappresenta dunque il grande Altro, tutto ciò che rimane irriducibile alle potenzialità ordinatrici del pensiero, ma non si può sopprimere il diavolo, perchè equivarrebbe a sopprimere l'umano: questo non perché l'uomo sia malvagio, ma perché risulta essere irrisolvibilmente contraddittorio.
La vicenda di Verzegnis mostra quanto possa essere disumana non la possessione diabolica, ma la contrapposizione rigida di ortodossie antagoniste. Il libro di Luciana Borsatti propone una riflessione singolarmente adeguata al momento presente, in cui si rischia una gigantesca psicosi collettiva prodotta dal rifiuto dell'eterogeneità e della complessità in nome del pensiero unico autoreferente, inevitabilmente destinato a creare un avversario di pari ottusa rigidità con cui scontrarsi.
Negli anni Settanta del Novecento, in coincidenza della recrudescenza demonofobica manifestata dalle più alte autorità ecclesiastiche, un grande studioso 'eretico' della cristianità, Giovanni Franzoni, propose un libro dal titolo provocatorio: Il diavolo, mio fratello. Si tratta di un fratello certamente inquietante, così come sono inquietanti molti aspetti dell'esistere. Ma il diavolo diviene persecutorio solo se il pensiero egemone si rifiuta di confrontarsi con esso, con il momento caotico dell'Esserci, in nome di un kosmos che si presume – o si vorrebbe – sempre uguale a sé stesso.
ALBERTO PANZA
SALOMON RESNIK
0 commenti