Affermava Françoise Dolto, poco prima della morte, alla fine degli anni ottanta:
La televisione diventa l’unica fonte di riferimento dei bambini isolati in appartamenti senza adulti ( Adolescenza, Oscar Mondadori, 1995, p. 147).
Case vuote; adulti assenti; adolescenti lasciati soli davanti alla tv e ad un frigorifero pieno. Françoise Dolto ha voluto che il suo ultimo libro fosse interamente scritto per aiutare gli adulti a dialogare in modo nuovo con gli adolescenti; un testo, il suo, che denuncia la solitudine vissuta dai giovani, spesso figli unici, lasciati soli; soli in case vuote; soli davanti alla tv.
Sono passati quindici anni dalla denuncia della Dolto e l’emergenza adolescenza sta sotto gli occhi di tutti coloro che operano con gli adolescenti. Proprio a costoro è rivolto il libro di Benasayag e Schmit – filosofo e psicoanalista il primo, psichiatra il secondo – che cercano, come allora la Dolto, di reagire, di esplorare nuovi percorsi per ridare slancio e spazio alle nuove generazioni:
Le riflessioni e le ipotesi che abbiamo proposto non hanno evidentemente niente a che vedere con un trattato, ma sono un invito, l’inizio di un cammino che desideriamo condividere con tutti coloro che non vogliono rassegnarsi alla tristezza dominante nelle nostre società (L’epoca delle passioni tristi, 2004, p. 129)
Un invito, quello di Benasayag e Schmit, a non rassegnarsi, nell’epoca di quelle che Spinoza definiva le passioni tristi. Un invito che porta il segno della resistenza:
Resistere significa anche opporsi e scontrarsi, ma non dimentichiamo che, prima di tutto, resistere è creare (p.125).
I due autori non hanno la pretesa di indicare vie d’uscita certe e facili ma nemmeno si fermano sull’orlo dell’ abisso: quello spalancato sull’epoca attuale, dove in molti si soffermano, per il gusto di raccontare o analizzare tutto ciò che di catastrofico ci assedia.
Lucida presa d’atto della realtà, quindi, ma presa di distanza netta, al tempo stesso, dalla retorica del catastrofismo. Guardare al terzo millennio come all’epoca delle catastrofi significa, infatti, rimanere prigionieri della logica delle "passioni tristi"; significa, secondo gli autori, arrendersi ai paradigmi, ai saperi, alle pratiche che hanno caratterizzato l’ "utopia modernista": l’utopia delle magnifiche sorti e progressive, l’utopia che può concepire il futuro come pensabile solo a patto di ammettere l’esistenza di un progresso continuo e lineare in tutti gli ambiti del sapere e della tecnica.
Ecco che, tramontata l’illusione di un futuro progettabile e dominabile, non resta, secondo la stessa logica, che la disperazione, la catastrofe, la precarietà e l’impotenza. Gli autori propongono un ribaltamento di questa prospettiva: occorre, secondo loro, reinventare, a partire dal presente, una progettualità creatrice, una spinta creativa e gioiosa, che renda di nuovo pensabile per ognuno di noi un progetto di vita. Si chiedono infatti Benasayag e Schmit:
E allora come è possibile ormai educare, trasmettere e integrare i giovani in una cultura che non solo ha perduto il proprio fondamento principale ma l’ha visto trasformarsi nel suo contrario, nel momento in cui il futuro- promessa è diventato un futuro-minaccia? (p. 40).
In primo luogo gli autori invitano a restituire ad uno specifico contesto storico e culturale la storia individuale delle singole persone.
Ogni crisi individuale e, a maggior ragione, ogni crisi adolescenziale, va inscritta, oggi, nella crisi della società occidentale; ai disagi declinati al singolare, va sommato, quindi, il peso, che ogni adolescente porta sulle proprie spalle, di un contesto storico che, nella sua quotidiana realtà, gli si presenta come minaccioso, precario, privo di sicurezze; un carico di angoscia e di ansia che non va ignorato, ma che va ascoltato e compreso come elemento scatenante episodi critici altrimenti difficilmente spiegabili.
Le crisi di cui ci occupiamo oggi avvengono in effetti – ed è questa la novità – in una società essa stessa in crisi (p. 13).
Il disagio degli adolescenti di oggi va quindi ricondotto, secondo gli autori, alla sua caratterizzazione storica, al suo darsi secondo tratti specifici e non confondibili con quello di altre epoche.
Di qui la necessità di cambiare gli occhiali utilizzati per guardare al disagio adolescenziale.
Di qui la proposta di andare oltre la tradizionale alleanza terapeutica, per sperimentare una "clinica del legame", dell’empatia e della "amicizia" che favorisca il riemergere delle "passioni gioiose", dei singoli talenti, di progetti realizzabili e condivisibili, di spinte creative.
Non c’è più la pretesa di un sapere onnipotente che consenta al terapeuta di guarire, che concepisca il paziente come oggetto di guarigione: c’è piuttosto una volontà di ascoltare la sofferenza dell’adolescente e di accompagnarlo, così facendo, alla riscoperta dei propri talenti, in modo tale che il giovane possa pensarsi come persona "molteplice", possa guardare alle proprie fragilità, ricostruire i propri legami, dare voce alle proprie capacità.
E’ la storia di Marc, del "signor imperatore": un bambino di dieci anni che, affiancato dal suo terapeuta, diventerà, nel corso del tempo, un adulto apprezzato per le sue ricerche nel campo della matematica (pp. 85-90).
Portato dai genitori, allarmati, nel servizio di psichiatria in cui opera Benasayag, fin dal primo incontro il piccolo spiegherà di essere l’imperatore di Orbuania, il pianeta in cui ogni notte torna e dal quale ogni mattina viene rimandato in missione sulla terra. Il bambino chiederà, con insistenza, di poter parlare del suo impero e del pianeta di Orbuania senza essere giudicato: egli non vuole essere trattato come un "sintomo", non vuole essere etichettato, non vuole parlare con gli psicologi, ma solo con filosofi e con persone in grado di capirlo.
E così sarà: diventerà un apprezzato matematico, senza mai essere etichettato, medicalizzato e ospedalizzato. E, anche da adulto, non smetterà di tornare, ogni notte, ad Orbuania, per assolvere il non facile compito di comandare sul suo impero. Benasayag e Schmit partono dalla consapevolezza che l’approccio al disagio giovanile va ripensato e indicano delle linee guida: clinica del legame, creatività, passioni gioiose, riscoperta della "molteplicità".
Certo, il saggio non offre soluzioni miracolistiche o proposte dettagliate: ma, quantomeno, non nega l’evidenza di un problema che viene toccato con mano, nella sua gravità, da coloro che operano con gli adolescenti.
Si tratta quindi di un libro destinato a dialogare non solo con gli operatori dei servizi psichiatrici ma anche con gli educatori, con gli insegnanti, con i genitori.
E al proposito viene voglia di rivisitare molta letteratura dedicata a spiegare l’emergenza di cui parlava la Dolto; d’altro canto, sarebbe lunga anche la lista delle tante sperimentazioni attuate nei servizi di psichiatria o nelle istituzioni scolastiche e destinate a prevenire o ad affrontare il disagio adolescenziale, anche attraverso la sensibilizzazione del mondo degli adulti.
Difficile non ripensare, poi, a Beautiful Mind. Nel caso raccontato da questo splendido film – il caso, come è noto, di un genio della matematica affetto da schizofrenia – la sofferenza del disagio psichico si coniuga, alla fine, con l’apprezzamento da parte della comunità scientifica.
Tornano in mente, comunque, anche le tante notizie di cronaca che quotidianamente entrano nelle nostre case; "fatti" diventati "casi", che hanno come protagonisti gli adolescenti, i nostri adolescenti, i ragazzi di famiglie europee perbene. Quegli stessi ragazzi che, oggi , non possono più davvero dirsi uguali ai bambini che, nelle famiglie patriarcali e nelle comunità non urbanizzate, quando tornavano a casa non erano mai lasciati soli, né tanto meno trovavano una tv accesa:
C’era una volta il lupo cattivo; adesso sembra un kamikaze. Nelle nuove paure dei bimbi la realtà vince sulla fantasia (La Repubblica, 14 ottobre 2004, pp. 30-31).
Se non si vuole restare fermi sull’orlo del baratro, limitandosi ad urlare alla catastrofe, vale la pena accogliere l’invito di Benasayag e Smith, individuando nuove forme di resistenza e di creatività.
Vale la pena, quantomeno, ricordare che sono passati quindici anni da quando Françoise Dolto, in Adolescenza – il testo che Silvia Vegetti Finzi, nell’introduzione all’edizione italiana, definisce "una delle più preziose acquisizioni della psicoanalisi, dopo un secolo di elaborazione teorica e di pratica dell’ascolto" – proponeva di "rimunerare i ragazzi come inventori" (p. 209), di tenere aperte le scuole, anche dopo le lezioni, perché diventino la loro seconda casa, di uscire dai pregiudizi e di iniziare a considerare l’adolescenza non solo come età della crisi ma anche come momento di grande slancio verso la progettualità. E così sintetizzava il suo punto di vista:
Credo sia necessario inventare qualcosa di nuovo per la nuova generazione. Permettere a questa generazione di diventare autonoma in modo creativo e dare spazio al ricambio generazionale. Ciascuno al suo posto (p. 209).
0 commenti