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Prefazione a “Gilberto Di Petta – Fenomenologia alzo zero”

7 Dic 23

Di Giovanni Stanghellini

Il Novecento ha assistito a numerosi genocidi. 

 

Il più noto dei quali è stata la Shoah – L’Olocausto. Strana traslazione di un nome, da atto sacrificale a sterminio di massa, come ha fatto notare Roberto Calasso1: “[a]nche se qualcuno osservò che si stava compiendo un’enormità, non venne ascoltato e la forza dell’uso impose la parola nelle varie lingue europee”. La storia dovrebbe insegnare che le ecatombi si fanno con il fuoco, e si nascondono con le parole. 

 

Pasolini ci ha parlato, nei suoi interventi critici e nei suoi film, di un altro genocidio – l’assimilazione delle culture subalterne: 

 

Dirò subito che la mia tesi è molto è più pessimistica, più acremente e dolorosamente critica di quella di Napolitano. Essa ha come tema conduttore il genocidio: ritengo cioè che la distruzione e sostituzione di valori nella società italiana di oggi porti, anche senza carneficine e fucilazioni di massa, alla soppressione di larghe zone della società stessa. Non è del tutto un’affermazione totalmente eretica o eterodossa. C’è già nel Manifesto di Marx un passo che descrive con chiarezza e precisione estreme il genocidio ad opera della borghesia verso determinati strati delle classi dominate, soprattutto non operai, ma sottoproletari o certe popolazioni coloniali. Oggi l’Italia sta vivendo in modo drammatico per la prima volta questo fenomeno: larghi strati, che erano rimasti per così dire fuori della storia, la storia della rivoluzione borghese, hanno subìto questo genocidio, ossia questa assimilazione al modo e alla qualità della vita della borghesia”2 

 

Anche la psichiatria nel ‘900 ha avuto il suo genocidio. Vi racconto questo episodio di cui forse la maggior parte di voi ignora l’esistenza. 

Siamo a Chiavari alla fine degli anni ‘80. È un congresso dove stanno fianco a fianco psichiatri e filosofi. In mezzo, ci sono Bruno Callieri, Arnaldo Ballerini, Lorenzo Calvi. Ed altri. C’è un ritardo nell’inizio del congresso. Io ero giovane e non capivo; poi qualcuno mi spiega che era in corso una diatriba: Danilo Cargnello, il decano della fenomenologia clinica italiana, colui che aveva fatto conoscere in Italia Ludwig Binswanger, non voleva che prima di lui parlasse l’allora presidente della Società Italiana di Psichiatria. Alla fine è quest’ultimo a inaugurare il congresso, e Cargnello a non parlare affatto. 

Non posso garantire la veridicità di questo racconto, e non so se sia appropriato parlare di genocidio; ma è certo che l’episodio si colloca all’interno della storia della psichiatria italiana (e non solo) in maniera emblematica… Larga parte del mondo accademico ha subito, come direbbe Pasolini, questa “assimilazione al modo e alla qualità della vita della borghesia”. Se qualcuno vuole ricordarsi le conseguenze di questo (presunto) genocidio può leggere un libro di Mario Rossi Monti dal titolo Maestri senza cattedra3. Rossi Monti è uno dei (pochi) sopravvissuti a questo genocidio accademico. Ai nostri Maestri, come Callieri e Ballerini, non è toccata una cattedra, ma la soddisfazione di condividere con noi allievi il loro piatto di lenticchie.  

 

La seconda conseguenza di questo genocidio della psichiatria, invece, è sotto gli occhi di tutti e si chiama, nella clinica, DSM, e la relativa trasformazione dell’intero campo dei disturbi mentali in varianti del cosiddetto “disturbo bipolare”; nell’ambito della ricerca, operazione speculare, le ceneri dell’olocausto sono la semplificazione dei fenomeni e dei costrutti psicopatologici al fine di renderli quantificabili e correlabili con variabili biologiche. In una parola: è stato il genocidio del pensare, la cui apoteosi va sotto il nome apparentemente innocuo di ”comorbidità”, principio in base al quale (onde evitare ai clinici l’incomodo di ricercare nell’esperienza del paziente il centro di gravità e il senso della sua condizione psicopatologica – del suo modo “sventurato” di essere al mondo), si concede che a un paziente siano riconosciute due, tre, quattro diagnosi nosografiche.  

 

George Lanteri-Laura4 aveva da poco finito di scrivere quel gioiello di storia della psichiatria in cui divide quest’ultima in tre fasi, l’ultima delle quali è quella dei “sistemi maturi” – vale a dire quella della Psicopatologia. La Psicopatologia è il campo del sapere che vede nei quadri clinici appunto dei “quadri”, vale a dire non un’accozzaglia di elementi (“sintomi”) giustapposti partes extra partes, ma il rapporto di questi elementi ciascuno rispetto a tutti gli altri: “quadri”, “melodie”, “strutture”, “forme” psicopatologiche, ciascuna con una propria logica interna e una propria storia. La Psicopatologia, quella fenomenologica in particolare, dunque è il campo del sapere appannaggio di coloro i quali, con coraggio e pazienza, cercano di tessere una tela di ragno, invece che accumulare minuscoli granelli di sabbia. L’Autore di questo libro viene al mondo della psichiatria in questa fase, che ancora vedeva ammirati, se non vincenti, i pochi ragni rispetto al crescente numero di formiche – i cosiddetti ricercatori empirici con l’ossessione del contare e del dimostrare. Di lì a poco avrebbero vinto, anzi stravinto, le formiche, e ci è voluto coraggio a rimanere ragni. Appunto il coraggio della Psicopatologia. 

 

La resistenza dei ragni si articolava su due capisaldi: la narrazione di casi clinici emblematici, descritti quasi poeticamente; e la formulazione di un sistema generale, di stampo psicopatologico appunto, in netto contrasto con il sistema proposto e imposto dalla nosografia statunitense. Tutto quanto ben s’intende all’interno della cornice fenomenologica – qualunque cosa si intendesse con questa parola, ma a questo riguardo una cosa è certa: la fenomenologia era (e rimane) il metodo che mette al centro l’esperienza dell’altro e cerca di rintracciarne le condizioni di possibilità “trascendentali”, cioè implicite, pre-riflessive, involontarie – o, se preferite, inconsce.  

Quando a Firenze, con Arnaldo Ballerini prima, e con Mario Rossi Monti5 poi, elaborammo la distinzione organizzatori nosografici/organizzatori psicopatologici, quasi per miracolo riuscimmo a pubblicare il nostro lavoro su una rivista internazionale. In breve, di che si tratta: gli organizzatori psicopatologici sono schemi sintetici di comprensione, che conferiscono una significatività unitaria a gruppi di esperienze abnormi che co-occorrono nella medesima persona. I singoli fenomeni e sintomi perdono il carattere caotico e disparato, e assumono un carattere coerente in quanto facenti parte di un insieme dotato di senso, di una struttura. In pratica: la nostra linea di resistenza rispetto all’avanzata implacabile del fronte nosografista. 

 

Ma anche nel Vecchio Continente furono ben pochi a comprendere. Racconto un secondo episodio che aiuta a capire: sono a Parigi nei primi anni 90, alle per noi allora famose riunioni di Psicopatologia della Salpetrière. Spiccano le più grandi figure della psicopatologia europea del tempo tra cui Peter Berner (e i suoi colleghi viennesi, Eberhard Gabriel e un giovane Michael Musalek); ma ci sono anche Niels Retterstol e Pierre Pichot. Qualcuno si chiederà chi siano questi carneadi. Peter Berner, Secretary General della World Psychiatric Association dal 1977 al 1983, era da poco andato in pensione dopo aver “tenuto” la cattedra a Vienna, fondata su sani principi di psicopatologia continentale; autore dei Vienna Research Criteria, cioè di un sistema diagnostico centrato sull’eredità bleuleriana in opposizione allo schematismo cosiddetto “ateoretico” del DSM; Retterstol era l’erede della tradizione scandinava delle “reactive/psychogenic psychoses”, alla ricerca di un nucleo psicologico/psicogeno nelle psicosi non-schizofreniche non bipolari, quindi anche lui un “resistente”; Pichot, invece, era stato presidente della World Psychiatric Association dal 1977 al 1983, alfiere del nosografismo e dei test mentali. Si discute dei rapporti fra psicopatologia e nosografia. Io faccio un intervento kamikaze e dico che paragonare uno psicopatologo a un nosografo è come paragonare un ornitologo a uno spietato cacciatore. Peter Berner ride soddisfatto, mentre Pichot è visibilmente irritato. Io, tronfio e felice, mi rimetto a sedere sapendo di aver conquistato un posto nel cuore di un Maestro, e verosimilmente di aver perso ogni possibilità di carriera. 

 

Potrei parlare di un ulteriore genocidio, quello ad opera delle pratiche psicofarmacologiche indiscriminate. Mi asterrò dal farlo, ma anche in questo caso ricordo un episodio. Siamo a Roma al congresso nazionale SIP, fine anni ’80. Un relatore (importante) proietta una “slide”: è la gigantesca immagine di una pillola. Non è chiaro se si tratti di un gesto ironico, di un auspicio, o di una profezia. 

 

Di un ulteriore genocidio non voglio proprio parlare: quello operato dalle pratiche neo-custodialistichesocioiatriche” della psichiatria dei servizi di salute mentale. Ne troverete testimonianza nel libro che state per leggere… 

 

Vorrei invece proporre un ulteriore profilo del tentato genocidio della psichiatria: il genocidio del comprendere. Mi rifaccio ad alcune premesse.   

Comprendere non è spiegare, cioè andare alla ricerca delle cause di un fenomeno, meglio se di una sindrome. Questo è il sogno della psichiatria clinica: scire per causas, ordinare le proprie conoscenze, e le relative pratiche terapeutiche, sulla base di una conoscenza sistematica delle cause – biologiche in particolare, ma anche bio-psico-sociali in genere. 

Comprendere non è interpretare, cioè andare alla ricerca del significato “profondo” di un fenomeno, al di là del suo significato esplicito e manifesto visto dalla prospettiva del paziente.  

 

Così come i fumi delle macchine avvelenano l’atmosfera, le interpretazioni e le spiegazioni obnubilano la nostra sensibilità6. Il pensiero che cerca cause e significati trasforma il carattere concreto e sensoriale della presenza in un mondo di simulacri astratti del pensiero7. Le immagini di questo libro sono talora notturne, più spesso crepuscolari: i concetti, con la luce artificiale, aboliscono il crepuscolo, e l’aura che lascia trasparire l’imprevedibile.  

 

Comprendere, infine, non è diagnosticare, cioè andare alla ricerca di fenomeni in quanto indici da usare in vista di una diagnosi nosografica, attribuendo i comportamenti e i pensieri di un paziente alla sua diagnosi, secondo lo schema “per forza si comporta così, è un border!”. 

Si tratta in tutti questi casi di una sovrascrittura dell’esperienza del paziente. Di un mancato riconoscimento del suo discorso personale, della sua incandescente individualità.  

Comprendere, invece, è fare esperienza (o meglio: cercare di fare esperienza) del mondo nella prospettiva dell’Altro. Questo è il significato del motto della fenomenologia: “Alle cose stesse!”, essendo le cose stesse l’esperienza così come si dà nel mondo dell’altro. A questo motto ne consegue un altro – il motto della fenomenologia clinica: “Comprendere è curare!”. Quindi: curare è (sforzarsi di) fare esperienza del mondo dalla prospettiva del paziente. 

Perché? Perché ciò che chiamiamo “malattia mentale” è l’implosione del sé in se stesso. La crisi del dialogo della persona con la sua alterità. Lo sforzo di mettersi nella prospettiva dell’altro – accanto all’altro, e non semplicemente di fronte all’altro: essere accanto a qualcuno, non solo avere di fronte qualcosa, avrebbe detto Cargnello – è la conditio sine qua non per la cura. Spiegare, interpretare, diagnosticare sono ostacoli a questa mossa – essere accanto all’altro – quindi al comprendere, quindi alla cura. 

 

È di questo che parla il libro che avete in mano. 

Questo libro letteralmente deborda di immagini. Troverete, invece, ben pochi concetti. Tracima di episodi reali e concreti, aneddoti, esperienze personali. Troverete ben poche generalizzazioni, costrutti o “morali” di ogni genere. È un libro autentico, che forse l’Autore neanche avrebbe voluto scrivere, o per meglio dire “comporre”, lasciando ciascun capitolo alla sua natura originaria di scritto d’occasione, reportage o tutt’al più riflessione su quanto successo la notte precedente durante il turno di guardia. 

È percorso da una tensione tra il dionisiaco e l’apollineo, tra il patico e un logos fatto di una lingua ricca di tutto ciò che la lingua di una persona colta (molto colta) può offrire, ma non di tecnicismi, di retorica, o di parole-schermo. È solo in virtù del fatto che Gilberto Di Petta dispone di un vocabolario fuori dall’ordinario che il pathos – la sua sensorialità acuta – di ciascun episodio non si disperde, restando inghiottito nell’informe. Ma turbando, suggerisce. E, alla fine, suggerendo, significa 

Ciascuno degli episodi raccontati è a suo modo emblematico, ma questo non autorizza (né invita) ad un’ermeneutica che lo proietti verso l’empireo delle astrazioni o delle formule (“Che cosa si fa in questa situazione?” chiedono il neofita e il profano, senza rendersi conto della miseria intellettuale e morale che una domanda del genere rivela su chi la formula, appellandosi alla regola dell’utile e delle soluzioni “pratiche” per problemi complessi, che per essere affrontati non richiedono altro che saper-esserci, cioè esperienza e senso di responsabilità). 

Ciascuna di queste immagini riflette una tensione: tra la persona Gilberto Di Petta e la persona che è con lui in reparto, o al pronto soccorso. Una sana, pericolosa e gloriosa tensione, che nessun protocollo, nessuna linea-guida, nessuna tecnica può domesticare. C’è la paura, la rabbia, la disperazione – di entrambi (non parlate per favore di empatia! L’empatia è la caricatura ipocrita della compassione: nel gesto di Di Petta c’è pura, lucida, sofferta e soprattutto generosa compassione).  

Finché a un certo punto non li vediamo – e spesso è una visione notturna, o (come abbiamo già detto) crepuscolare – l’uno accanto all’altro ad affrontare. Affrontare cosa? La follia, la solitudine, il destino; ma anche l’istituzione.     

 

Si sa: Di Petta è un guerriero. Il suo ethos è opposto a quello degli uomini con la passione per l’utile, alla loro miseria utilitaristica; per non dire degli uomini del profitto, la cui società è opposta ai comportamenti gloriosi8, risibili agli occhi dei modi grigi della cura assimilati dagli psichiatri mainstream 

Eppure, solo i comportamenti “gloriosi” determinano la vita umana e le assegnano un valore: la nobiltà, l’onore, il rango – l’immagine del cuore umano, tutto turbolenza e generosità.  

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