Ecco dunque che arrivo in servizio e vedo ad attendermi all’ingresso gruppo di volontari e operatori istituzionali che mi aspettano. Facce lunghe, tristi, in lutto, come se non osassero parlarmi.
Cosa è successo? chiedo.
Ci hanno rubato le pecorelle» mi dicono…”
Nel corso della lettura del libro di Antonio C. Gerini “L’Alba tra le brume”, Albatros editore, 2024, si entra gradualmente, tramite racconti di vita da medico ospedaliero, colloqui con i pazienti, osservazioni e significati di parole e comportamenti, nel Centro di Salute Mentale di Carbonia, che Gerini ha diretto per quasi 20 anni.
In particolare si comprendono le radici e il pensiero che hanno favorito la nascita e lo sviluppo del gruppo di volontariato “Albeschida” (in dialetto logudorese “le prime luci dell’alba”), che ha fatto parte del Centro Diurno del CSM per quegli anni. Ogni giorno.
Il Centro Diurno, oltre a disporre di alcuni locali, si estendeva per circa mezzo ettaro di campagna adiacente all’edificio del CSM. Terreno incolto, diventato nel tempo una discarica di materiale edilizio, quindi bonificato dai pazienti e operatori del CSM e trasformato in azienda agricola e fattoria.
In quel Centro Diurno non c’era distinzione tra operatori, pazienti e i loro familiari. Tutti collaboravano per far funzionare la fattoria con le pecore, i cavalli, le mucche, il pollaio con relativa vendita quotidiana delle uova, l’asino, l’uliveto dall’olio squisito, l’orto, il frutteto Tutti aiutavano a preparare il pranzo; partecipavano alle iniziative culturali; facevano parte del Gruppo Teatro Albeschida. Tutti erano solo persone. Non c’era distinzione.
Il senso, quasi spirituale, di tale comunità era “questo fa parte della vita”, “come posso rendere migliore me stesso, la mia vita e quella altrui?”.
Chi ha preso parte, anzi ne è stato primo promotore, deve narrarlo, darne testimonianza. La parola che narra è più che semplice parola, essa trasmette effettivamente l’accaduto alle generazioni future, anzi il narrarlo è accadimento esso stesso, ha la sacralità di un rito.
La prima luce dell’alba si riversava sulle persone/pazienti (centinaia ogni settimana) che collaboravano col Centro Diurno, nelle loro opere e nelle parole.
La testimonianza continua a vivere adesso. La forza che un giorno operava si trasmette alla parola vivente e opera ancora: una storia va raccontata in modo che sia essa stessa un aiuto.
Il libro termina con una bella poesia (cui mi permetto di aggiungere qualche virgola, solo per motivi di spazio). E’ scritta da Angela, Educatrice e una delle anime motrici, insieme a Lilli e Signora Flavia, di quel Centro, di quel periodo, oggetto per me di grande nostalgia e che sento meraviglioso.
DEDICATO AD ALBESCHIDA
Hanno afferrato il mio cuore ruvide mani ne hanno assecondato il battito.
Come in un valzer la danza è cominciata.
I personaggi volteggiavano armoniosi e leggeri all’improvviso in controtempo …
l’orchestra seguiva con attenzione e la musica entrava nel tempo di mezzo quello non scritto …
Improvvisava accoglieva, aspettava. Continuava, senza interrompersi.
I personaggi sviluppavano nuove figure fuori dagli schemi imprevedibili ma innegabilmente bellissime.
Un alone di amore circondava la pista. Un amore a volte doloroso a volte leggero …
Il mio cuore, tra quelle mani ruvide, continuava a battere.
L’alba arriva scaccia le ombre della notte, a fatica si fa strada tra le brume,
la danza continua esplora nuove figure si perde.
Il contro tempo invade la pista, i personaggi vagano disarticolati,
il padre muore e rinasce nei figli,
l’orchestra riprende la danza, continua l’opera, si compone la pista degrada, svanisce …
Il mio cuore rallenta il battito, le mani si sono ammorbidite, la pista diventa casa.
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