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RECENSIONE Alex Pagliardini, Il sintomo di Lacan. Dieci incontri con il reale

20 Apr 16

Di
LACAN A ROVESCIO
 
È diventata consuetudine, nel campo della psicoanalisi lacaniana, scandire diversi momenti dell’insegnamento dello psicanalista parigino individuando un primo Lacan, un secondo Lacan, un ultimo Lacan. Già Jacques-Alain Miller, nella postfazione al Seminario XVII, proponeva di pensare a un “Lacan contro Lacan”, un Lacan che si apprestava a rovesciare tutto il suo insegnamento precedente.[1] Questa esigenza di nominare diversi Lacan scaturisce dalla sua stessa opera, fatta di contraddizioni, di paradossi, di diritti e rovesci.
Il rovescio della psicoanalisi è un’operazione che Lacan ha sempre tenuto in attenta considerazione, fin dagli anni ’50 quando, nel testo Intervento sul transfert, inquadrava – sebbene quello fosse un Lacan molto più intriso di dialettica – il caso di Dora secondo una serie di «rovesciamenti dialettici».[2] Il rovescio del concetto, del significante, del discorso, è una regola fondamentale della psicoanalisi lacaniana, informata dalla tripartizione dell’esperienza umana nei registri del Reale, del Simbolico e dell’Immaginario.
In Italia, negli ultimi anni, ha riscosso un  grande successo il Lacan teorico del desiderio, della potenza generativa del desiderio, del legame con l’Altro e del ripiegamento patologico e mortale del godimento senza Altro. Si è consolidata così, con quella stessa potenza desiderante oggetto della teoresi lacaniana, una certa lettura di Lacan – primato del simbolico, funzione dell’Altro, dialettica del desiderio – , il Lacan della necessità strutturale dell’Altro come antidoto al godimento autistico.
Il sintomo di Lacan. Dieci incontri con il reale, ultimo lavoro di Alex Pagliardini, è un testo che tenta di indagare il rovescio di questo Lacan più noto tramite uno studio dettagliato e attento dell’ultima fase del suo insegnamento. Dieci capitoli per dieci incontri con il reale.
“Incontrare il reale” è la traccia insistente, ripetitiva, martellante che attraversa tutto il lavoro di Pagliardini. Viene da chiedersi cosa significhi incontrare il reale, dacché sappiamo che l’essere umano, per Lacan, si trova nell’impossibilità strutturale di accedere, di incontrare il reale. L’essere umano abita la realtà, una realtà che è dell’ordine del significante e il significante è un sistema di articolazioni, rinvii e retroazioni, metonimie e metafore. La realtà umana, già per Freud, è fatta di rappresentazioni di cose e di parole, che distanziano l’uomo dal reale, imponendo una divisione strutturale. Il nome, il significante, uccide la cosa per simbolizzarla nella dimensione propriamente umana del linguaggio, dunque del desiderio, dunque dell’Altro. Significante, simbolico, mancanza, desiderio, Altro sono i termini fondamentali che inquadrano un versante della psicoanalisi lacaniana, di cui il testo di Pagliardini propone e indaga, come dicevamo, il rovescio.
Dopo un primo lungo lavoro sulla logica del significante e su come sono presi e articolati in tale logica soggetto, desiderio e godimento, Lacan prende alla lettera l’idea che il linguaggio faccia corpo, che il corpo umano sia costituito, segnato, marchiato dal significante, ma in maniera tutt’altro che simbolica, «da non intendersi per nulla come metafora»[3]. Dice Pagliardini: «l’altro versante del significante è caratterizzato invece dall’essere sempre in atto come rovescio di questo e di esserlo nella “forma” alluvionale di un ammasso di elementi sparsi, come corpo sonoro, “corpo contundente”» (p. 45). Il campo d’indagine di Pagliardini è dunque questa altra, problematica, faccia del significante.
Sempre in atto, corpo sonoro, contundente, sono le caratteristiche del significante nella sua materialità, nei suoi “effetti reali” sulla vita. Lungi dall’elidere la funzione classica di rinvio ad Altro, questo aspetto reale del significante riguarda non tanto il che cosa è – dunque il rimando a un altro significante e così via lungo la catena – , quanto piuttosto il suo che è, «incessante ripetizione della materialità del significante […] corpo sonoro, materialità dispersa, sempre in atto in ogni articolazione significante e sulla cui cancellazione ogni sistema significante si fonda» (p. 304). Materialità irrompente e sempre in atto, sulla cui cancellazione si fonda l’operazione umana-nevrotica di costituzione di un Altro, con cui dialettizzare il lavoro del senso, in cui dispiegarsi come significazione in risposta al senza-senso dell’impatto del significante sulla vita. Linguaggio che gracchia, ammasso di elementi sonori che muovono la carne, il brusio di cui ci parla lo «studente di lingue schizofrenico» Louis Wolfson.[4]
Ne consegue una teoria del trauma che, per il Lacan di Pagliardini, non riguarda la storia, non riguarda l’empirico ma consiste nell’impatto sempre in atto, senza ragione e fuori senso, del significante sulla vita. Significante che, dal Seminario XVII in poi, diventa esso stesso conduttore di godimento. Se fino a un certo punto siamo stati abituati a pensare lacanianamente il godimento come proibito, interdetto dall’azione del linguaggio, dal taglio che il significante opera sul vivente – e lungi dall’annullare tutto ciò – , con il Lacan del Seminario XVII assistiamo a un riassestamento degli elementi in campo, tale per cui significante e godimento vengono colti nella loro sincronia, essendo il significante stesso «conduttore di voluttà», mezzo di godimento, o meglio ancora «apparecchio di godimento».[5] Il trauma sarebbe allora non tanto qualcosa di positivo, di empirico, ma piuttosto l’impatto costante con il godimento, con il corpo che si gode – un godimento che, dobbiamo specificare, non ha niente a che vedere con il godimento fallico, con il registro della contabilità. L’Altro può essere traumatizzante solo nella misura in cui c’è un corpo che si gode da solo, autisticamente, che gode di sé stesso. L’incontro traumatico è dunque, prima di ogni altra costruzione, l’incontro con il godimento sempre in atto che si è, il ritrovarsi ridotti al corpo che gode.
Due versanti del significante, dunque due versanti del soggetto. Come dice Lacan, nelle bellissime pagine di Lituraterra: «In altri termini il soggetto è diviso come dappertutto dal linguaggio, ma uno dei suoi registri può soddisfarsi con il riferimento alla scrittura e l’altro con la parola».[6] Soddisfarsi della scrittura significa diventare scrittura, diventare marchio, prodursi come lettera, come conduttore significante di godimento. Significa spingere la vita contro il linguaggio per giungere a quella «erosione dilavante»[7] che è il godimento quando il sembiante si incrina. Se un versante del significante riguarda la costituzione del registro del simbolico, l’altro versante riguarda la costituzione del registro del reale, ora fortemente implicato al significante stesso.
Dal significante come Altro, come rimando ad Altro, al significante come Uno; questo il solco in cui si muove il lavoro di Alex Pagliardini. Che cosa può essere l’Uno, in psicoanalisi? Cosa significa intendere il significante come Uno? Siamo al livello – con Lacan lo siamo sempre – dell’impatto del significante col vivente. L’effetto di tale impatto è, lo abbiamo detto, un doppio effetto: qualcosa si articola nella catena significante, entra nella macchina significante che produce, nel suo slittamento continuo, mancanza-a-essere, desiderio, senso, ma al contempo qualcos’altro non è preso nella significazione. Questa la tesi classica, qualcosa è dentro, qualcos’altro è fuori. Lo sforzo di Lacan nel Seminario XIX – seminario di cui Pagliardini segue fedelmente la traccia, restituendone tutta l’enfasi con uno stile fruibile ma al contempo perentorio – consiste nell’accostare questi due effetti del linguaggio per arrivare a rompere il dualismo dentro-fuori e concepire l’impatto tra significante e vivente come momento sempre in atto di costituzione di un grande Altro, a cui ogni parlante si riferisce, che risponde al trauma che questo stesso impatto, in quanto Uno senza Altro, è.
Non si tratta qui, è bene precisarlo onde evitare di fare scandalo al lettore frettoloso, dell’Uno immaginario – «l’Uno della completezza dell’unità, della consistenza immaginaria, della pienezza della monade, della compattezza dell’identità» (p. 343). Quando Lacan, nel Seminario XIX, ripete insistentemente “C’è dell’Uno”, si riferisce (possiamo dire “si fa segno di”?) all’Uno reale, all’immanenza assoluta del significante, alla materialità senza senso che ogni significante porta con sé. Così Pagliardini: «Allora, quel che di nuovo aggiunge questo ribaltamento è che questa materialità e ripetizione del significante come Uno dà vita, è, un Uno-tutto-solo. Uno-tutto-solo che non si conta e che non è contabilizzabile, cioè che non è contato come quello che non conta, come eccezione. […] Uno-tutto-solo che è semplicemente il c’è del significante, e che proprio in quanto tale non partecipa al conto, alla distribuzione, all’articolazione, nemmeno come eccezione e nemmeno come supporto materiale elementare». (p. 348)
Una raffinata clinica delle nevrosi fa da trama al testo. In tale ottica, la manovra nevrotica consiste nell’istituire un Altro che renda ragione di questo godimento sempre in atto. Il soggetto nevrotico inorridisce di fronte a questo godimento sempre in atto, di fronte alla contingenza, all’immediato e «costruisce l’Altro, si dedica e si lega all’Altro affinché l’Altro si occupi di questo godimento, affinché l’Altro regoli questo godimento». (p. 284) Nell’ultimo capitolo del testo, Sulla fine di un’analisi, in cui l’autore riporta alcuni frammenti della propria analisi personale, la teoria viene applicata alla clinica: «Si tratta di staccare, di estrarre il godimento del trauma dalla manovra con la quale lo si incastra nell’Altro, e incontrarlo come tale, come godimento Uno» (p. 361). Nell’ambito dell’analisi, quanto più assumo che c’è castrazione, che c’è mancanza, vale a dire, che non c’è godimento pieno, che non c’è un modo di godere (leggasi “sintomo”) che risolva il problema dell’impersonalità e dell’essere senza senso del godimento stesso, quanto più assumo che non sono padrone del mio desiderio, ma piuttosto, che a questo desiderio sono “appeso”, tanto più potrò accettare e farmi responsabile del godimento senza Altro, del godimento che in ogni momento mi disturba, mi prende da dietro, che non ha nessun senso ma che solo accade, del godimento che è assoluto in atto.
E’ infine preciso Pagliardini, quando sgombra il campo da qualsiasi equivoco moralizzante. Il lettore nevrotico non ha di che inorridire, dal momento che non si tratta qui di «un elogio del godimento senza limiti, indifferente all’Altro». Al contrario, dice l’autore, ciò che emana da una tale lettura è «un’etica dell’incontro con un altro». «Solo dopo aver acconsentito al che c’è del godimento – come detto, acconsentire significa dire di sì al che c’è e decidere la piega che prende nella propria vita – è possibile incontrare un altro, amare un altro. Prima di questa decisione, ogni altro che si incontra, tutto quel che si fa per l’altro, con l’altro, senza altro, è al servizio dell’operazione nevrotica di regolazione-allontanamento del farsi del godimento». (p. 289)
Lavoro rigoroso e al contempo ricco di momenti soggettivi e originali, Il sintomo di Lacan indica una direzione, una psicoanalisi tutta ancora da pensare e da formulare, una psicoanalisi sicuramente del reale, come non può non essere, ma che faccia i conti con il reale del godimento a partire dal godimento stesso. Dopo aver studiato a lungo i rapporti del simbolico col reale, si tratta ora di provare a indagare i rapporti del godimento col godimento: «Potremmo dire che fino ad ora Lacan ha interrogato il rapporto che il soggetto ha con Dio – ci crede in Dio? – ora inizia a interrogare il rapporto che Dio ha con se stesso – “Dio crede in se stesso?” (p. 160)


[1]  Jacques-Alain Miller, La psicoanalisi messa a nudo dal suo celibe, in Jacques Lacan. Il seminario. Libro XVII. Il rovescio della psicoanalisi. 1969-1970, Einaudi, Torino 2001.

 
[2] Jacques Lacan, Intervento sul transfert (1951), in Scritti, 2 voll., Einaudi, Torino 2002, vol. 1.

 
[3]  Id., Radiofonia (1970), in Altri Scritti, Einaudi, Torino 2013, p. 405.

 
[4] «Per una qualche ragione, una canzone popolare che sua madre suonava frequentemente era Good Night Ladies (goud, u aperta e breve, naït, monsillabico con i aperta, breve e debole; lédis o piuttosto leidis, l'accento tonico è, naturalmente, sulla prima sillaba, e le i sono aperte e brevi e quella del dittongo, che è dunque cadente, è debole), che significa buona notte signore; e in particolare la parola ladies (anche, = femmine, donne), anche se si usa in tedesco, in francese, ecc., irritava lo studente schizofrenico, saltando nella sua testa in quasi tutte le frasi del pezzo. E davvero, nonostante le dita infilate nelle orecchie con forza, la melodia gli perforava il cranio, particolarmente dall'osso temporale (direttamente dietro il padiglione auricolare e la via usata per certi apparecchi uditivi), fino al cervello malato, facendo vibrare forse, letteralmente come un insieme, come un sol blocco, la scatola cranica se non anche quest'organo delicato e afflitto ch'era il suo cervello, perché il suono, emanando dall'altoparlante, era talmente pieno, talmente forte, che faceva vibrare palpabilmente, se non anche visibilmente i mobili e persino i muri». Louis Wolfson, Le Schizo et les langues, Gallimard, Parigi 2013, p. 59.

 
[5]  J. Lacan, Il seminario. Libro XVII, cit., pp. 54-55.

 
[6]  Id., Lituraterra, in Altri Scritti, cit., p. 18.

 
[7] Ivi, p. 15.

 

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