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RECENSIONE La solitudine della donna Saggio di Sarantis Thanopulos

12 Lug 18

Di
“Se avete paura della solitudine, non sposatevi” Anton Checov
I poeti colgono i paradossi dell’umano nel vivere amoroso: cos’è la solitudine? E’ l’essere-con, l’essere coniugale che la sconfigge? Evidentemente no, può perfino renderla più acuta.  L’ultimo libro di Sarantis Thanopulos, che richiama nel titolo un particolare tipo di solitudine, quella della donna, articola sapientemente vari vertici di riflessione e indagine, tra psicoanalisi e politica potremmo dire, per chiudersi con l’acuto, e amaro richiamo, alla solitudine femminile. Solitudine che si costituisce non tanto e non solo come tratto individuale, ma come crisi di un’epoca.
Vediamone il percorso. Il libro articola le riflessioni sul desiderio che Thanopulos ha iniziato con i due testi precedenti (Il desiderio che ama il lutto e Desiderio e Legge), concludendo così in qualche modo un trittico, e lo dedica alla donna, alternando riflessioni psicoanalitiche ad alcuni spunti tratti da fatti di cronaca frutto della collaborazione con “il Manifesto”. Questi fatti sono i "femminicidi", termine ormai insediato nel linguaggio comune, e la violenza alle donne in generale (che si calcola interessi circa sei milioni di donne nel nostro Paese), ma anche infanticidi e altri fatti delittuosi che avvengono nelle mura di casa, nei rapporti intimi, quelli impregnati, già strutturalmente, da ambivalenza e conflitto.  Violenza che non è in reale aumento come si pensa, ma tragicamente costante; quasi ogni giorno leggiamo di un uomo lasciato che ha ucciso la sua donna. Un primo merito del libro è pertanto un tentativo di rispondere all’urgente, a mio avviso, bisogno che la psicoanalisi, nel rispetto del suo corpus teorico fondante come fa l’Autore, si cali nella realtà, la interpreti e la traduca attraverso un’estesa operazione di senso, che sia al contempo comprensibile anche al lettore non specialista, ma non sovrapponibile ai riduzionismi a slogan dei media.
Le pulsioni umane, amore e odio, sono radicate nel corpo e in quanto tali non reggono il passo delle rapide mutazioni antropologiche che attraversano il nostro tempo; uomini e donne, siamo gettati in un mondo che ha perso i garanti metasociali e metapsichici (Kaes, 2005) che reggevano la civiltà attraverso interdetti universali e grandi narrazioni, e ci vede impreparati e soli a gestire emozioni primarie che ci terrorizzano. Soprattutto i più deboli o, paradossalmente, i più “adattati”. Soprattutto gli uomini. Pulsione radicata nell’inconscio e trasversale ad ogni contesto umano, l’aggressività è presente nell’uomo come nella donna, ma è indubbio che la stragrande maggioranza di violenze e delitti, avvengano da parte dell’uomo verso la donna.
 
Diviso in sei capitoli perfettamente articolati, questo agile, breve, denso, prezioso libro prende in esame la civiltà, l’origine della violenza, alcune situazioni particolari e nuove allo scenario del mondo come le maternità “solitarie” dove la donna sceglie di avere un figlio ma non un uomo, per concludersi con lo statuto soggettuale in cui l’Autore colloca la donna: la solitudine.
Almeno due tesi di fondo sottendono l’impalcatura del libro: l’aver collocato la violenza alla donna non nel perimetro in cui i media e i luoghi comuni la imprigionano (pur nell’intento in buona fede di stimolarne una coscienza) ma nella violenza stessa dell’ordinamento sociale, per cui “l’origine della violenza è sociale (…) attraverso la donna è colpita la relazione di desiderio che si oppone allo sfruttamento, unilaterale o reciproco, dei suoi contraenti”(19). E’ il sociale, la Kultur, in cui si muovono le vite dei singoli soggetti, ad aver trasformato le relazioni di desiderio in relazioni di potere e dominio. L’altro pensiero forte di questa “psicoanalisi politica” dei rapporto tra i sessi, consiste nel vedere nell’uomo, anche se più spesso vincente sul piano sociale e meno deprimibile dagli abbandoni, il vero perdente. Non si intende con questo la nota e ripetuta ‘evaporazione del padre’ (che l’Autore trova tesi non errata in sé ma limitante), ma perdente in quanto nella violenza l’uomo uccide la parte femminile di sé, perdendo così la preziosa occasione, che il desiderio femminile gli offre, di salvarsi anche lui come soggetto desiderante. L’omicidio-suicidio è pertanto un vero omicidio-suicidio. (Un inciso personale: la mia libera associazione di cinefila è corsa subito all’ultima scena di Match Point, uno dei film di Woody Allen di maggior successo negli ultimi anni, in cui il protagonista, avviato a una vita agiata con un matrimonio alto-borghese a cui si adatta per convenienza, uccide l’amante diventata un ingombro, troppo rischiosa e richiedente. Non prova colpa, non c’è punizione dalla giustizia umana, ma nell’ultimo sguardo vacuo, che non guarda nulla, tutta la tragica coscienza di avere ucciso la parte vitale di sé).
 
Non siamo sorpresi dalla ragioni inconsce, e talvolta persino consce, che muovono l’uomo a sopprimere la donna che l’ha reso vulnerabile e ferito: l’angoscia di castrazione (fantasma universale ma oggi più attivato dall’emancipazione femminile), l’invidia ancestrale del maschio nei confronti del godimento e della “libertà” femminile, e il rigetto della femminilità; femminilità che si colloca imperiosamente nel desiderio femminile, nella sua richiesta, nella sua accoglienza ma che, uccisa nella donna, diventa rigetto soprattutto della propria, la parte femminile di sé. In questo modo, l’uomo non ne esce vittorioso, ma il vero ucciso. In questa cornice storico-metapsicologica, si colloca la lettura profonda di una delle più inquietanti tragedie del nostro tempo di cui parlano alla ricerca di “cause”: la crisi del maschio.
Tuttavia non è l’uomo in sé il colpevole, egli è solo lo strumento, ma “l’organizzazione di una società che si oppone alla piena costituzione della donna come soggetto desiderante perché comporterebbe la costituzione paritaria, sul piano del desiderio, di tutti i rapporti sociali”(23).
Dietro la violenza, direi freudianamente al di là, cova l’atavico timore del femminile che getta l’uomo nell’intollerabile posizione della vulnerabilità, della debolezza, della perdita; già Freud aveva identificato nella paura del femminile il limite dell’analizzabilità (1937). Come si articola tutto questo, se li definiamo fantasmi universali, con la contemporaneità? Qual è il disagio della civiltà, che Freud identificava, non certo a torto, nella rinuncia pulsionale in cambio della Cultura, dell’appartenenza alla comunità umana, del non diventare folli nella “comune infelicità nevrotica” (1930)?  Il disagio della civiltà, nel mondo occidentale che si fonda sull’equilibrio instabile e conflittuale tra i rapporti di desiderio e potere, germoglia nell’uccisione della femminilità, portatrice di un desiderio scompaginante.
La donna che emerge da questo libro, elemento di grande attrattiva (e dalla cui immediata identificazione è nata la spinta a scriverne una recensione), è una donna che, se veramente donna, fa scandalo in sé, per la libertà anarchica del suo desiderio, per la sua apertura, per la sua capacità depressiva. E una donna che fa paura, che mette in crisi l’universo rigido, narcisistico, ristretto, erettile del maschio. Mi soffermerei sulla libertà e depressività – termini apparentemente antitetici – con cui giustamente l’Autore definisce la donna. Come scrive Francoise Dolto citata nella postfazione di Annarosa Buttarelli, l’uomo non prova l’angoscia della solitudine dal punto di vista del narcisismo, fintanto che può agire nel mondo e appagare il desiderio, mentre una donna può provare questa angoscia anche se desiderata e appagata ma sentendosi oggetto, e non soggetto, di “quegli scambi linguistici fatti di sottili piaceri condivisi” (131) che sono, per la donna, il vero Eros.
L’uomo è più narcisisticamente protetto, ma nella chiusura; la donna più esposta, ma nella dolorosa (ma anche libera) vulnerabilità dell’apertura. Da qui la sua solitudine; non di “quella” donna, ma di ogni donna. Strutturale, potenzialmente creativa e potenzialmente masochistica, a seconda di quanto la bambina è stata investita o meno dall’amore e dal desiderio dei genitori. Qui l’Autore apre un importante inciso sulla biografia, sul valore dell’educazione affinché la donna, come troppo spesso si sente dire banalizzando, non colluda con la violenza dell’uomo: essere stata amata, lei che, non potendo contare sulla sicurezza di un pene visibile all’esterno, avrà “bisogno di un’apertura di credito” (103), più incisiva che nel maschio che la ha di per sé, da parte delle figure primarie. Questo, spesso, non avviene; nella mia esperienza clinica, e di vita, ho trovato spesso conferma di quanto scriveva Chasseguet-Smirgel (1987) a proposito dell’amore della madre per il figlio maschio che, in virtù della differenza sessuale, sarà sempre fantasmaticamente più amato della femmina.  Con l’emancipazione femminile, lo scenario si fa più dinamico, non tutte le solitudini sono uguali; accanto a questa più propriamente femminile che abbiamo visto, nella modernità se ne affaccia un’altra, alienante, quando la donna si identifica col potere maschile, si adatta al meccanismo sociale per sentirsi più sicura, eliminando così il valore della differenza.
Quale, dunque, il nuovo disagio della civiltà? L’indifferenziazione e l’abolizione della differenza come motore del desiderio che si profila all’orizzonte, scrive Thanopolus, poiché la civiltà si basa elettivamente sul valore della differenza, il rispetto per l’alterità e il desiderio dell’altro, in uno scambio tra pari. Se l’uomo, detronizzato dal sistema padre-centrico che ci ha governati fino ad oggi, non riesce a tollerare, godere insieme di questo scambio con la sua donna, se non accetta in sé il suo “femminile” per il terrore di esporsi ai capricci e ai cambiamenti dell’oggetto, un esito possibile è la violenza.
Concordo in pieno con lo scenario che l’Autore dipinge sullo stato dell’arte dei legami familiari del nostro tempo: scomparso il padre reale, prende il suo posto il Padre ideale, imago desessualizzata e onnipotente e, scomparsa la coppia coniugale, residua la coppia incestuale madre fallica-figlio messianico, che sostituisce il pene paterno e dovrà realizzare le aspettative del narcisismo materno. Il fallo prende il posto del pene, “l’idea fagocita la vita” (122), i soggetti non hanno accesso al proprio desiderio e vivono, “in termini consolatori” (122) in un oggi dilatato che attende un futuro idealizzato e salvifico, esautorandoci dalla fatica della responsabilità. Ho avuto altrove occasione di scrivere circa la predatorietà e il pericolo dell’idealizzazione patologica (Valdrè, 2015) nel mondo post-moderno: crisi del desiderio, indifferenziazione, idealizzazione patologica, disinvestimento, declino dei garanti sono il cancro che insidia le cellule del nostro vivere, come soggetti e come collettività.
 
Molti sarebbero gli spunti e gli ulteriori vertici di analisi, che lascio al lettore esplorare, guidato dal fil rouge coerente di una psicoanalisi del desiderio: il capitolo sulle madri single, le riflessioni sull’infanticidio, il controverso punto della sublimazione, o ancora si potrebbero citare tesi differenti, come quella della filosofa Rigotti (2018) che include negli infiniti stereotipi che gravano sulle donne, soprattutto non più giovani, proprio quei valori di apertura e accoglienza che avrebbero relegato storicamente le donne nei confini dell’impossibilità creativa. Ma si tratta di livelli diversi, e ciascuno meriterebbe un approfondimento.
Dunque, benché il libro parli di violenza e delle donne che ne sono prevalenti vittime, si tratta solo del tema apparente, della punta dell’iceberg: è lo statuto del desiderio che ne è alla base, il rischio già in atto di una sua forse non reversibile messa in crisi, la critica sociale (di cui la psicoanalisi deve riappropriarsi) il vero tema.
Alla donna l’Autore regala un grande valore e un grande compito; in quanto protagoniste dell’essere desiderante, della mancanza, della capacità depressiva e di solitudine, è sulla nostra voce che la civiltà resta viva.
 
Ancora da cinefila, se avessi dovuto immaginare un sottotitolo per questo libro, sarebbe stato: L’uomo che amava le donne Truffaut, 1977

 
 
 
Bibliografia
 

  • Chasseguet-Smirgel J. (1987): Creatività e perversione, Cortina, Milano
  • Freud S. (1930): Il disagio della civiltà, O.S.F., vol 10
  • Freud S.(1937): Analisi terminabile e interminabile, O.S.F., vol 11
  • Kaes R. (2005): Il disagio del post-moderno e la sofferenza del nostro tempo, in “Psiche”, 2, 57-71
  • Rigotti F. (2018): De senectute, Einaudi, Milano
  • Valdrè R. (2015): Sulla sublimazione. Un percorso del destino del desiderio nella teoria e nella cura, Mimesis, Milano

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