Questo è un libro che parla di autostima. Di fragilità umana, di genitorialità, di modi di essere-nel-mondo. Ma anche di resilienza e di possibilità di consapevolezza. E quindi di rinascita.
È un libro che descrive in che maniera la certezza di avere delle capacità, delle caratteristiche, e un valore intrinseco come persone, dipenda necessariamente dalla qualità delle esperienze di riconoscimento che abbiamo avuto durante la nostra infanzia. Del fatto che, ulteriormente, nonostante le avversità incontrate, sia possibile per l’adulto che fu un bambino “mai visto”, mai riconosciuto dagli occhi dei grandi, riuscire a guardare a se stesso con uno sguardo nuovo, e quindi poter scorgere nuovi paesaggi interiori.
Con grandi capacità analitiche, chiarezza di stile, e allo stesso tempo la notevole finezza psicologica alla quale ci aveva abituato sin dal suo primo testo (D’Amanti, 2011), Sabrina D’Amanti ci conduce con questo suo nuovo saggio, “Profili di Personalità e Fragilità dell’Io”, Edizioni Psiconline, all’interno delle complesse dinamiche psicoevolutive del bambino. Mettendo allo scoperto quelle modalità relazionali ed esperienziali che possono inficiare, o all’inverso contribuire a costituire e a implementare, l’identità dell’individuo, il valore che egli attribuisce a se stesso, e quindi la sua autostima.
La prima parte del testo si occupa degli aspetti costitutivi del valore di sé (Sé reale, Sé percepito, Sé ideale); delle prime interazioni neonatali tra madre e bambino; delle sue prime esperienze di riconoscimento e allontanamento rispetto ai propri caregiver. Fino ad arrivare alle convinzioni di copione che, secondo l’Analisi Transazionale, si strutturano nei primissimi anni di età, e andranno a determinare la valutazione di sé da parte dell’individuo.
L’autrice, inoltre, seguendo la traccia della evoluzione psichica e dell’origine psicogenetica dell’autostima, sintetizza brevemente, ma in modo puntuale, lo stretto nodo che collega l’introiezione da parte del bambino della madre (intesa come oggetto psichico), vista secondo la teoria delle relazioni oggettuali della Mahler, alla strutturazione della personalità e della immagine interiore di sé, all’interno del celebre processo di separazione-individuazione descritto dalla psicoanalista. Integrando e collegando infine queste distinzioni alla teoria bowlbyana degli stili di attaccamento.
Segue quindi una serie di sfumature e “gradazioni” particolari rispetto all’autostima (sana; bassa; alta ma fragile), che ne rivelano la complessità, ma soprattutto la centralità e la trasversalità rispetto a tutti gli aspetti della vita dell’uomo. In questo senso è impossibile restituire qui la ricchezza di questo nucleo fondamentale dell’identità, ampiamente descritto nel testo.
L’autostima viene definita innanzitutto sia come la valutazione generale che la persona fa di se stessa (autostima globale), il giudizio complessivo, sia come valutazione particolare (autostima specifica), rispetto alle singole caratteristiche che le appartengono. Le autostime particolari vengono suddivise a loro volta secondo l’essere e secondo il fare. La prima suddivisione comprende l’intelligenza, le attitudini, il carattere, l’aspetto fisico e l’appartenenza sociale; la suddivisione riguardante le autostime specifiche del fare comprende invece le competenze derivanti dalla interazione tra conoscenze teoriche, esperienze, e abilità innate, a loro volta suddivise in ulteriori sottocategorie (sapere, saper fare, saper essere).
Si evidenza inoltre come non ci sia una effettiva corrispondenza matematica tra l’una e l’altra, tra autostima globale e autostima specifica.
Una persona che consegue successi in diversi settori, e pur avendo diverse buone autostime particolari, può avere una valutazione generale di sé fondata prevalentemente sul disprezzo. Viceversa, persone con autostime specifiche (o sottoautostime) di basso livello, hanno una autostima generale piuttosto buona.
Nella seconda parte del libro, a partire da quanto descritto precedentemente parlando delle diverse sfumature dell’autostima fragile, l’Autrice descrive una fenomenologia tipologica dei profili umani corrispondente. Una carrellata ricca, ampia ed approfondita per quanto mi riguarda, la quale prende in considerazione diversi aspetti esistenziali e psicologici, nonché molteplici cornici relazionali e di contesto.
I “tipi” descritti, che vanno dai classici “timidi” ai “permalosi”, dai “sospettosi” agli “scalatori di montagne” ai “workaholic”, esprimono, mediante le loro azioni, idee irrazionali (convinzioni di copione), relazioni, emozioni e modi di essere in generale, il loro collegamento diretto o indiretto con una autostima fragile. Il discorso, complesso e articolato, seppure nella brevità delle descrizioni dei singoli casi, agevolato dalla grande capacità dell’Autrice di esprimersi chiaramente, e in modo piuttosto eclettico, si appoggia sovente su strumentazioni teoriche di stampo psicoanalitico. Come il discorso kleiniano sul seno buono/seno cattivo rispetto agli “invidiosi”, e della introiezione proiettiva per gli “scapoli”. Oppure la classica coazione a ripetere freudiana.
L’intero saggio, comunque, è letteralmente “filtrato” potremmo dire da alcuni concetti classici dell’Analisi Transazionale, nella quale l’Autrice è specializzata.
A questo proposito rispetto alla valutazione di sé, ad esempio, la posizioni esistenziale che i bambini assumo dalla nascita è la tipica “Io sono Ok-Tu sei Ok”, ed è una posizione definibile come sana. Il bambino sente che lui “va bene” come essere vivente, e chi lo accudisce anche. È dai 0 ai 5 anni che, a partire da diverse esperienze di accudimento con i propri caregiver, che egli deciderà la propria posizione definitiva.
Se assumerà quella secondo la quale “Io non sono Ok-Tu sei Ok”, avrà ritenuto se stesso come inadeguato e adeguate invece le cure avute dal genitore. Da adulte, le persone che hanno concretizzato questa posizione vivranno, in generale, emozioni prevalentemente negative: come depressione, sensi di colpa, indecisione, incertezza. Si sentiranno inferiori agli altri e assumeranno nei loro confronti il ruolo di vittime; sentiranno di avere poca fiducia nelle loro possibilità e non avranno la capacità di percepirsi amate e apprezzate, anche quando ciò potrà effettivamente verificarsi in modo oggettivo.
Se invece il bambino si deciderà per “Io sono Ok-Tu non sei Ok”, sarà convinto viceversa del fatto che lui sarà adeguato, ma non chi si prende cura di lui. In questo caso l’adulto vivrà nella rabbia, nella collera, per mascherare a se stesso e agli altri la paura di trovarsi nella posizione opposta. Le persone stabilitesi in questa posizione, avranno bisogno di criticare gli altri individui per sentirsi “Ok”, magari aggredendoli e svalutando cioè che dicono o fanno.
Nella posizione “Io non sono Ok-Tu non sei ok” il bambino riterrà le cure ricevute, e non gradite, come conseguenza della inadeguatezza sia di se stesso, sia del proprio caregiver. Da adulto questa sarà per lui la posizione peggiore, a partire dalla quale vivrà nella sfiducia sia di sé e delle proprie capacità, che degli altri. Ma anche, ulteriormente, nei confronti della realtà circostante, intesa questa come orizzonte di possibilità esistenziali. Si porrà in maniera piuttosto passiva quindi rispetto agli eventi, anche quelli che lo faranno particolarmente soffrire o gioire, vivendo in questa maniera giorno per giorno.
Ma il pensiero che a mio parere trapela con maggior forza dall’intero libro, e quindi la posizione teorica dell’Autrice, è rappresentato dal fatto che la formazione della identità e del senso interno di sé da parte del bambino, il proprio modello operativo interno, le sue capacità di autovalutazione, di reperimento e di riconoscimento delle risorse, i modi di elaborazione dell’esperienza, di capacità e di consapevolezza interiore in generale, si stabiliscono e si strutturano attraverso la complessa interazione diadica tra madre e bambino, o tra il bambino e il proprio caregiver. In questo senso desidero dilungarmi su questo argomento, che ritengo particolarmente pregnante rispetto all’intero discorso, così da offrire al lettore alcuni spaccati che possano tratteggiare, anche minimamente, l’orizzonte esistenziale e psicologico dal quale il libro trae molte conseguenze e riflessioni.
La maggior parte degli ambiti e dei temi esposti, e il filo rosso del riconoscimento da parte dell’Altro importante dal quale vengono inanellati, si inseriscono perfettamente a mio avviso, all’interno delle ricerche svolte dagli Infant Research (Sanders, Emde, Stern) e della teoria dell’attaccamento (Bowlby). Ma anche in quelle di altri autori di stampo più propriamente psicoanalitico, i quali si avvalgono di approcci e paradigmi intersoggettivi (Storolow, Atwood), interpersonali (Sullivan, Fromm), relazionali (Mitchell), e sistemico-diadici (Beebe, Lachman), per delineare gli sviluppi psicoevolutivi del bambino.
Sappiamo da tempo come solo all’interno di questo micro-sistema dinamico e complesso che entrambi i partecipanti alla interazione, acquisiscono stabilmente o meno, alcuni elementi psicologici fondamentali. Visti da questa prospettiva, madre e bambino rappresentano un sistema vivente interconnesso, il quale vive e si muove attraverso una costante eteroregolazione tra i soggetti interagenti, e una continua autoregolazione dei singoli al proprio interno. E cioè la madre regola gli stati interni ed esterni del bambino, così come il bambino regola gli stati interni ed esterni della madre; allo stesso tempo ogni persona svolge delle funzioni autoregolatorie che sono indipendenti dalla eteroregolazione interattiva in atto. Eteroregolazione ed autoregolazione cioè possono essere rappresentate come delle modalità di regolazione parallele e interattive, volte a modulare gli stati interni come la relazione esterna (Amadei, 2005). Il sistema madre-bambino si autoregola attraverso un complesso meccanismo a retroazione, nel quale entrambi si scambiano reciprocamente e costantemente dei feedback i quali tendono a correggere il sistema stesso: ristabilendolo verso una certa omeostasi, o viceversa amplificando le deviazioni dall’omeostasi e spingendo così il sistema verso dei cambiamenti. Bambino e caregiver sono soggetti interagenti che costituiscono un sistema vivente unico.
All’interno di un fitto intreccio di feedback reciproci, tra madre e bambino, secondo il cosiddetto paradigma della “dissintonia” [1], vi è una corrispondenza di specificità, una risonanza cioè tra i due sistemi sintonizzati tra loro, in base alle proprietà corrispondenti, capace di rendere consapevoli entrambi. Nella fase dell’incontro c’è una corrispondenza potenziale tra il modo in cui ognuno dei due partner conosce se stesso e il modo in cui è conosciuto dall’altro: se avviene questo tipo di corrispondenza, c’è un riconoscimento bilaterale che favorisce il senso di sé della persona come soggetto capace di agire da solo sulla propria autoregolazione. Tuttavia, se il riconoscimento tra le due modalità non avviene, l’individuo sentirà come indeboliti la propria identità e la propria capacità di agire autonomamente, e potranno svilupparsi in seguito sia una bassa autostima, una fragilità dell’Io, sia delle vere e proprie deviazioni psicopatologiche (che non vengono trattate nel libro).
Questo tipo di corrispondenza, capace di consolidare il senso del Sé del bambino, e quindi la propria capacità di autoregolazione, è alla base dell’autostima dunque, e si basa su un buon equilibrio dinamico tra autoregolazioni ed eteroregolazioni. È la circolarità costante dei feedback e la sintonizzazione degli affetti descritta da Stern che permetterà al bambino di definire il senso di sé, la maggiore o minore permeabilità alle relazioni future, il suo rapporto con la solitudine.
Se, come sottolinea efficacemente l’Autrice, la madre (o il caregiver) interpreta il rifiuto del seno da parte del bambino come una propria incapacità o incompetenza, piuttosto che come una normale assenza di fame da parte del bambino (a una certa età), e non lascerà a quest’ultimo l’iniziativa di attaccarsi autonomamente al seno, potrà forzarlo ad alimentarsi. Questo atteggiamento, preverbale e primitivo se vogliamo, ma fondamentale per quanto riguarda lo sviluppo del bimbo, potrà portarlo ad avere idee negative su di sé, o su chi lo accudisce. Sentirà di essere o inadeguato, incapace, percependosi come “sbagliato”, oppure si convincerà del fatto che chi si prende cura di lui sia un incapace. Oppure penserà che entrambi, cioè sia lui, che gli altri, siano sbagliati, incompetenti, inadeguati. Con il tempo infatti, dato che i bambini hanno un sistema cognitivo particolarmente rudimentale, l’individuo tenderà a generalizzare le sue convinzioni stabilitesi durante questi primi, essenziali momenti ed esperienze con il caregiver, allargando le sue idee ad altri contesti e ad ulteriori situazioni. Queste convinzioni cioè andranno a far parte della visione globale di sé e del mondo.
Le interazioni tra madre e bambino si svolgono in primis su un piano presimbolico e preverbale, di modo che saranno le espressioni, gli atteggiamenti, il tono di voce, il ritmo corporeo ecc., a far si che il sistema diadico si autoregoli, e possa permettere lo stabilirsi di un senso del Sé stabile da parte del bambino.
È come se, grazie allo sguardo approvante o disapprovante della madre, affettuoso, accogliente, oppure annoiato o triste, il bambino riuscisse a dare una forma alla materia informe rappresentata dalle proprie emozioni viscerali, e da un senso interno sostanzialmente corporeo, fuso autisticamente alla madre intesa come ente non ancora separato (Wright, 2000).
A questo punto, se il caregiver di fronte alle pulsioni aggressive e all’angoscia del bambino risponde con un certo panico o con la medesima angoscia, piuttosto che con un atteggiamento di contenimento e di stabilità affettiva, il bambino penserà di non essere in grado di contenere e di gestire lui stesso la propria angoscia e aggressività. Questo perché il mancato riconoscimento da parte del caregiver di aspetti interiori del bambino, la sua incapacità di gestione emotiva, provoca un senso di non riconoscimento di quegli stessi aspetti di sé da parte del bambino stesso, il quale in alcuni casi ne verrà sopraffatto. Nel caso del contenimento emotivo di stati d’angoscia, il bambino non percepisce la sicurezza che vorrebbe dall’altro, e che potrebbe dargli la certezza di contenere il suo medesimo disagio.
Come dice Winnicott sottolineando la dimensione corporea del sostegno, “Il sostenere comprende soprattutto il tenere in braccio fisicamente l’infante […]. Ci sono madri capaci di tenere in braccio un infante e madri che non ne sono capaci; queste ultime producono rapidamente in lui un senso di insicurezza.” (Winnicott, 1965).
Se lo specchio genitoriale non si attiva, o si attiva in maniera inadeguata, sia rispetto agli stati di angoscia, ma anche rispetto agli stati di piacere, di entusiasmo, alle sensazioni corporee e alle emozioni, ai comportamenti ecc., se chi il bambino riconosce come colui che lo può riconoscere non svolge questa funzione, allora il bambino non conosce se stesso. Non sa chi è, cosa prova, e non apprende come gestire i suoi stessi sommovimenti ed esperienze. Vive ignoto a sé. Come dice ancora Winnicott, “Quando guardo e sono visto, io esisto.”
Il bambino nei suoi primi stadi di vita non si percepisce come entità separata, ma come una persona-in-relazione-a-un’altra-persona, e i processi di riconoscimento, che avvengono all’interno delle relazioni di attaccamento, determineranno a grandi linee il “modo” attraverso il quale egli percepirà le sue relazioni future. Nell’eventualità in cui non ci sarà un grave scollamento tra la propria esperienza interna e il modo in cui l’altro riconoscerà e sottolineerà questa stessa esperienza, il bambino percepirà le relazioni come luoghi sicuri dove fare esperienza di sé; se ci sarà un sufficiente scollamento, all’inverso, percepirà le relazioni come luoghi in cui il Sé potrà smarrirsi.
Le relazioni cosiddette “sicure” sono dunque quelle in cui il bisogno di essere riconosciuti, necessario allo sviluppo della propria identità, è stato appagato dal riconoscimento da parte dell’Altro importante. Se non c’è una sintonizzazione tra esperienza interna e riconoscimento esterno, il bambino percepisce un senso di insicurezza che forclude la sua capacità di percepire se stesso come centro di iniziative autonome, e si attiverà per ridurre questa dissintonia tra interno ed esterno.
Il mancato riconoscimento o un riconoscimento distorto, si pone soprattutto sul piano della identità e della immagine di sé quindi, una dimensione che l’Autrice approfondisce in maniera efficace, chiara, puntuale, a partire soprattutto dal paradigma dell’Analisi Transazionale. Un’immagine che il bambino apprende durante le interazioni, sia verbali che non verbali, con i propri caregiver. Se questo accade si apre un vuoto interno in lui: egli cioè diventa “vuoto di sé” in quanto, come sottolinea l’Autrice, gli altri “gli fanno da specchio e lui tenderà a vedere se stesso nel modo in cui loro lo vedono e a giudicarsi come loro lo giudicano”.
Il bambino infatti non ha altra consapevolezza di sé se non a partire da ciò che gli altri pensano e dicono di lui: l’immagine che gli altri si fanno del bambino diventa l’immagine che il bambino si fa di se stesso. Conseguentemente, continua Sabrina D’Amanti, “Anche quando egli contesti e si arrabbi rispetto a una definizione o aggettivo ritenuto non veritiero o infamante, nel suo animo rimane il segno di quanto ha sentito dire e se nel tempo, in modo implicito o esplicito, tali concetti gli vengono ribaditi, sarà per lui difficile respingerli internamente poiché la parola dell’adulto ha un peso assai superiore alla sua.” Questo aspetto legato alla fragilità intrinseca al bambino rispetto all’autorità genitoriale, mi sembra molto in linea con la acuta e profonda speculazione di Alice Miller.
A seconda delle modalità attraverso le quali i genitori riconoscono le qualità di essere umano del bambino, le sue emozioni, aspetti caratteriali, risorse, capacità, talenti, egli stabilirà nei loro confronti un tipo di attaccamento piuttosto che un altro, e sentirà un certo timore di perdere il loro amore, oppure una certa convinzione rispetto alla continuità di questo sentimento verso di lui.
La sfumatura sottolineata a più riprese dall’Autrice, importante a mio avviso, sta nel fatto che se è vero che i riconoscimenti sono fondamentali per lo sviluppo del bambino, secondo l’assunto di Berne secondo il quale “Qualsiasi tipo di carezza è meglio di nessuna carezza”, vero è anche che i riconoscimenti non debbono essere solo buoni, solo positivi, se il bambino esprime emozioni o comportamenti positivi, o solo cattivi se il bambino compie delle marachelle o degli errori gravi. È il modo, il “come” vengono dati questi riconoscimenti, sia positivi che negativi, ad essere essenziale.
Così, è adeguato dare riconoscimenti positivi quando ci sono dei meriti, qualità o condotte reali, ma risultano dannosi gli stessi riconoscimenti positivi quando non ci sono meriti reali, o non c’è una corrispondenza con ciò che il bambino effettivamente è, o quando addirittura compie una azione cattiva o pericolosa. Dall’altra parte, sono adeguati quei riconoscimenti negativi capaci di fargli comprendere che ha sbagliato, ha violato delle regole, o i suoi comportamenti sono pericolosi per sé e per gli altri. Viceversa, sono deleteri quando sono mortificanti, umilianti, denigratori, perché soprattutto rivolti alla sua persona, e non a correggere ciò che fa.
Dire a un bambino “sei uno stupido” o “non capisci nulla” se ha sbagliato a fare un compito, magari mentre sta apprendendo a farlo, o magari perché ha commesso una birichinata comprensibile alla sua età, significa non dargli alcuna via d’uscita rispetto al giudizio espresso dall’autorità genitoriale. Se una affermazione sul “fare”, cioè sull’azione, può essere corretta, in quanto mutevole e quantificabile, un giudizio severo che colpisce l’intera persona, il suo essere, non lascia via di scampo, poiché il valore della persona è assoluto, modificabile ma non convertibile.
Sensi di colpa, vergogna, disistima, manie di persecuzione, nascono su questo tipo di terreno educativo. Se invece di dire al bambino che il risultato che ha ottenuto è sbagliato, gli si dice, magari ripetutamente, che “non capisce nulla”, probabilmente si convincerà di non capire effettivamente niente. Non si sentirà semplicemente uno stupido, ma diventerà uno stupido.
Non intraprenderà alcuna impresa cioè, perché non si sentirà sicuro di farcela o di essere all’altezza dell’obiettivo. Non considererà le sue risorse, qualità, talenti, e proverà un senso di inadeguatezza capace di farlo sentire schiacciato dalla vita.
Oppure, viceversa, quanto più il bambino assumerà una posizione “Non Ok” rispetto a certe esperienze sgradevoli e umilianti di non riconoscimento, tanto più, per reazione, potrebbe convincersi del fatto di dover giungere a un perfezionismo assoluto per sentirsi minimamente gratificato e accettato a partire da ciò che fa. Egli cercherà di ridurre la discrepanza tra l’esperienza interna e il riconoscimento esterno, secondo un tipo di attaccamento insicuro, attraverso delle “maschere” relazionali capaci di veicolare nei confronti dell’Altro importante delle “apparenze accettabili” come dice la Horney.
Così, il bisogno d’amore e la paura di perderlo quando era piccolo, unite alla paura del rifiuto per eventuali errori commessi, o rimandatigli come tali dai genitori, o interpretati come tali da se stesso, faranno si che egli abbracci l’idea di dover essere “il migliore” per sentirsi “Ok”, sia nei suoi medesimi confronti che nei confronti degli altri.
Il perfezionismo come simulazione interna di compenso si alterna in questo modo alla esperienza del disagio della inaccettazione, e alla fatica alienante dello sforzo compiuto per mettere in atto queste manovre. Proprio perché in passato non aveva ricevuto i riconoscimenti e gli apprezzamenti che avrebbe desiderato, quando ottiene da adulto dei risultati per lui non sono mai abbastanza. Non si sente mai “Ok”. Cosi come quando riceve degli apprezzamenti e dei riconoscimenti per ciò che fa: in questo caso tende a eluderli o a sminuirli come esagerati o non reali, falsi magari, perché è egli stesso a sottovalutarsi, a non sentirsi mai degno d’amore, e a vivere in un mondo fittizio, ideale, di desiderio di riconoscimento.
Così, alza sempre di più l’asticella del riconoscimento perché ignora quel bisogno mai soddisfatto che continua a scavare la sua anima, scambiando il proprio fare, le proprie performance esteriori, con il proprio essere, le sue qualità e sentimenti autentici interni. E quindi non riesce mai ad apprezzare pienamente ciò che fa, neanche quando sono gli altri ad esprimere quegli apprezzamenti che, paradossalmente, desidera. Senza tuttavia essere consapevole dell’origine del bisogno che lo muove.
Un origine ormai inabissatasi nella notte dei tempi, a partire dalla quale ora egli esprime, attraverso una generalizzazione inconsapevole, le sue convinzioni e il suo desiderio di riconoscimento a persone e contesti totalmente diversi, rispetto a quelli dai quali, in passato, hanno preso avvio le sue dinamiche di compenso.
Le persone dalle quali cercava di ottenere amore, come dice l’Autrice, non ci sono più. Eppure, preso ormai da dinamiche transferali coatte e ripetitive, cerca di placare la sua angoscia di perdita e separazione attraverso dei tentativi esterni di conferma e di verifica di sé. I quali, come viene sottolineato efficacemente, sono insufficienti a dissipare quei dubbi e insicurezza di base, e a risolvere ciò che internamente resta irrisolto.
Il nucleo centrale a mio avviso che fa da sfondo all’intero libro, è quello secondo il quale di fronte alla disapprovazione o all’indifferenza dell’Altro importante, proprio per l’estrema dipendenza e bisogno d’amore che il bambino ha nei suoi confronti, difficilmente egli penserà che siano i suoi amati genitori ad aver sbagliato. Ma piuttosto sentirà di essere lui stesso in errore.
La fragilità dell’autostima si rivela dunque sul terreno di una dipendenza bambino-caregiver, nella quale il distacco e le diverse fasi di allontanamento durante il processo di crescita non vengono accompagnati secondo delle modalità adeguate.
Il genitore, per agevolare il passaggio del bambino dalla fase di dipendenza simbiotica iniziale a una di autonomia e indipendenza, dovrebbe saper mettere in atto dei comportamenti capaci di far sentire apprezzato il bambino per ciò che è, indipendentemente da quello che riesce a fare o a esprimere. Senza per questo indurlo attraverso degli atteggiamenti iper protettivi a una ancora più profonda dipendenza invalidante. Allo stesso tempo dovrebbe cercare di stimolarne gradualmente l’autonomia, riconoscendone e valorizzandone le risorse e gli atteggiamenti che possano spingerlo verso una certa indipendenza, senza viceversa fargli percepire distacco o desiderio di allontanamento, o peggio ancora senso di abbandono.
Inoltre come ho indicato in precedenza rispetto alla possibile dissonanza di fondo tra bambino e genitore, a questo non riconoscimento originario, fin dai primissimi istanti di vita e oltre, il bambino strutturerà delle idee irrazionali (convinzioni di copione), e una diversa fenomenologia e reazioni comportamentali, a seconda degli elementi interni alla tipologia presentata. Ed è questo un altro pregio del libro: la capacità dell’Autrice di offrire una gamma tipologica variegata e alla portata di tutti, capace di esprimere e comprendere moltissimi atteggiamenti, emozioni e idee copionali, derivanti da una autostima fragile.
Cosicché, se il disprezzo e le critiche degli altri importanti provocano nei cosiddetti “competitivi” e “negli scalatori di montagne” una coazione a ripetere che li porta a ottenere sempre maggiori risultati, senza potersi permettere alcun riposo, e a investire sulla loro superiorità reattiva come modalità di esorcizzare la paura e il rifiuto della dipendenza; allo stesso modo i “compiacenti” e i “remissivi”, esprimeranno delle reazioni alle critiche e al mancato riconoscimento diventando passivi e adeguandosi agli altri nel presente, rinunciando totalmente a se stessi e alle loro idee, per paura di non essere amati.
Una paura originaria ormai rimossa, come già detto precedentemente, ma dalla quale esalano fantasmi che spingono l’individuo a portare avanti quegli stessi rimedi passati, nel presente, in maniera anacronistica e fondamentalmente autodistruttiva. In entrambi i casi, sia rispetto ai “perfezionisti”, che rispetto ai “passivi”, le critiche vengono percepite, o sono effettivamente indice di non apprezzamento nei loro confronti, e quindi del proprio “non valore” e indegnità rispetto all’essere amati. Entrambi sono modelli di espressione del proprio senso di inadeguatezza, che si rivela secondo dinamiche psicologiche ed esistenziali differenti.
La negazione implicita, o esplicita, di un riconoscimento, attraverso critiche, giudizi, indifferenza o addirittura disprezzo di idee, comportamenti, o anche espressioni emotive [2], può portare il bambino a considerare sbagliate queste idee, comportamenti ed emozioni, al punto tale da reprimerle pur di salvaguardare l’approvazione e quindi l’amore dei genitori nei suoi confronti.
Questo atteggiamento tuttavia lo porterà con il tempo a non sapere più che cosa davvero gli appartiene a livello di pensiero, di capacità di ragionamento, di elaborazione dell’esperienza, di idee, come si dovrebbe o vorrebbe comportare, e cosa “dovrebbe” sentire.
A volte la rimozione e l’inibizione di questi elementi psichici portano la persona adulta a non riuscire più a contattare i bisogni sottostanti alle emozioni, che ora prova solo in modo confuso, e proprio per questo distruttivo o autodistruttivo. Le emozioni confuse vengono infatti agite, coperte, rimosse, scambiate per altre emozioni e quindi parassitate con significati altri rispetto a quelli che, effettivamente, possono corrispondergli nel presente.
L’esistenza di una persona interiormente fragile, che ha smarrito la via per dare un valore alla propria identità e alle proprie caratteristiche caratteriali ed esistenziali, si rivela nella sua erranza, nei suoi percorsi drammaticamente dilemmatici ed effimeri. Vi è una indecidibilità radicale che lacera e fa sentire ancor più presente il proprio senso di inadeguatezza e indegnità. Persone dalla autostima fragile causata dal mancato riconoscimento altrui, hanno disimparato la modalità, le modalità, attraverso le quali possono rendersi consapevoli di esistere.
L’attenzione di questi individui (ma forse di ognuno di noi, anche se solo in alcuni periodi magari), si è rovesciata totalmente all’esterno al punto tale che non sanno più cosa provano quando lo provano, cosa effettivamente vogliono, e cosa possono o non possono decidere della propria vita.
L’individuo percepisce solo una insicurezza generalizzata. Oppure, viceversa, una insicurezza specifica, la quale viene attivata all’interno di determinate circostanze, situazioni, dinamiche relazionali, che riecheggiano agganciandosi a cornici infantili attivando in questo modo dinamiche inconsce di compenso.
Eppure l’autostima si fonda su tre fattori di base, come specifica l’Autrice: il temperamento del bambino, inteso questo come carica psicoenergetica generale della quale è dotato fin dalla nascita. Il suo essere irruento, creativo, calmo, ecc. Le influenze ambientali, come abbiamo visto, cioè il contesto socioeducativo nel quale cresce. Ma anche il libero arbitrio. E cioè quella facoltà o principio di indeterminazione umano, attraverso il quale il bambino interpreta gli eventi che gli accadono in un modo piuttosto che in un altro. Seppure nato in una condizione di dipendenza psicologica e biologica originaria, egli ha comunque a qualche livello la capacità e la possibilità di dare valore o meno a certe esperienze, e di apprendere e dare un significato piuttosto che un altro a ciò che gli accade.
Non si spiegherebbe come mai infatti, bambini fortemente traumatizzati da abusi e violenze oggettive riescano a trasfigurare quegli avvenimenti in modo positivo, e a addirittura a servirsene per realizzare la propria vita pienamente. Mettendo a frutto le loro risorse, facendo dei loro punti deboli dei punti di forza. Diventano cioè delle persone “resilienti”. Viceversa, bambini che non hanno subito alcun trauma, ma “solo” degli episodi magari ripetuti di inaccettazione, oppure sono stati investiti da messaggi ambivalenti o paradossali sibillini, sviluppano forti deficit e psicopatologie anche gravi.
Così, nell’ultima parte del libro, l’Autrice sottolinea come la capacità che un adulto ha di appagare i propri bisogni, di amare e di sentirsi amato, dipenda in gran parte da come è stato trattato da bambino, e che a seconda dei riconoscimenti ricevuti in passato ogni persona “costruisce un filtro in base al quale fa passare i riconoscimenti, positivi o negativi, a cui è abituata e lascia fuori quelli non familiari”. E tuttavia, attraverso alcuni strumenti, è possibile far si che questo filtro possa arricchirsi ed ampliarsi, affinché sia possibile per la persona non lasciare al di fuori di sé ampie parti di realtà, capaci potenzialmente di farla crescere e di farla accede a un maggiore benessere.
A questo punto vengono fornite alcune chiavi che possano far si che, le persone con autostima fragile, riescano a stabilizzare questo fondamentale aspetto dell’identità e dell’esistenza umana. Secondo quanto proposto, occorre riallacciare il proprio patto con il mondo attraverso un “fare che sia l’estrinsecazione dell’essere”.
Un essere fondato stavolta sull’autenticità e quindi sull’autoconsapevolezza.
Consapevolezza innanzitutto dei propri valori, delle proprie attitudini, competenze effettive, ma anche, infine, il riconoscimento delle idee di copione e l’accettazione dei propri limiti. “Apprezzarsi per i propri pregi e accettarsi per i propri limiti è il segreto di una buona autostima” sostiene l’Autrice. Un discorso, questo dei limiti, fondamentale direi per chi è vissuto nell’angoscia di poter sbagliare e non essere amato per questo, identificando così gli errori, inevitabili, con il non valore della propria persona.
Sabrina D’Amanti insiste al termine del suo libro su questo punto, giustamente, sottolineando il valore assoluto dell’essere delle persone, piuttosto che sulle proprie azioni, anche discutibili, e cioè sul proprio fare. Un esercizio interiore difficile questo, ma ineludibile, se ci si vuole riappropriare della propria vita uscendo da convinzioni agganciate a un passato che non vive più, se non attraverso le proprie ferite mai richiuse. Perché non ci si è ancora presi cura di esse.
Un libro prezioso dunque, che consiglio a tutti. Sia ai professionisti delle relazioni di aiuto, sia alle persone che desiderano migliorare la propria vita. Le quali possono gettare uno sguardo sui limiti e le imperfezioni con una certa indulgenza, e magari con una speranza in più di migliorare la propria vita. Perché, come sostiene l’Autrice, “Ciascuna persona è portatrice di un valore assoluto e indiscutibile che le appartiene per il fatto di essere una persona. Non c’è una persona che valga più di un’altra, tutti valiamo allo stesso modo, tutti possediamo quel valore assoluto che fa parte di noi in quanto esseri umani.”
[1] Per le differenze tra il paradigma della dissintonia e quello del trauma, del conflitto e delle carenze, rimando all’esaustivo e denso volume di Gerardo Amadei, Come si ammala la mente, Ed. Il Mulino, Bologna, 2005.
[2] Critica che a volte produce l’insorgenza delle cosiddette emozioni “parassite”, e cioè quelle emozioni accettate dal proprio contesto familiare, ma inautentiche, che fanno da “copertura” rispetto a quelle inaccettate ma autentiche.
D’Amanti S. (2011), I giochi dell’Analisi Transazionale. Come riconoscerli e liberarsene, Ed. Xenia, Pavia
Miller A. (2008), Il dramma del bambino dotato e la ricerca del vero sé. Riscrittura e continuazione, tr. it. M. A. Massinello, Ed. Bollati Boringhieri, Torino
Winnicott D. W. (1968), La famiglia e lo sviluppo dell’individuo, Ed. Armando, Roma,
Winnicott D. W. (1974), Gioco e realtà, Ed. Armando, Roma
Wright K. (2000), Visione e separazione tra madre e bambino, tr. it. di G. La Rocca, Ed. Borla, Roma
È un libro che descrive in che maniera la certezza di avere delle capacità, delle caratteristiche, e un valore intrinseco come persone, dipenda necessariamente dalla qualità delle esperienze di riconoscimento che abbiamo avuto durante la nostra infanzia. Del fatto che, ulteriormente, nonostante le avversità incontrate, sia possibile per l’adulto che fu un bambino “mai visto”, mai riconosciuto dagli occhi dei grandi, riuscire a guardare a se stesso con uno sguardo nuovo, e quindi poter scorgere nuovi paesaggi interiori.
Con grandi capacità analitiche, chiarezza di stile, e allo stesso tempo la notevole finezza psicologica alla quale ci aveva abituato sin dal suo primo testo (D’Amanti, 2011), Sabrina D’Amanti ci conduce con questo suo nuovo saggio, “Profili di Personalità e Fragilità dell’Io”, Edizioni Psiconline, all’interno delle complesse dinamiche psicoevolutive del bambino. Mettendo allo scoperto quelle modalità relazionali ed esperienziali che possono inficiare, o all’inverso contribuire a costituire e a implementare, l’identità dell’individuo, il valore che egli attribuisce a se stesso, e quindi la sua autostima.
La prima parte del testo si occupa degli aspetti costitutivi del valore di sé (Sé reale, Sé percepito, Sé ideale); delle prime interazioni neonatali tra madre e bambino; delle sue prime esperienze di riconoscimento e allontanamento rispetto ai propri caregiver. Fino ad arrivare alle convinzioni di copione che, secondo l’Analisi Transazionale, si strutturano nei primissimi anni di età, e andranno a determinare la valutazione di sé da parte dell’individuo.
L’autrice, inoltre, seguendo la traccia della evoluzione psichica e dell’origine psicogenetica dell’autostima, sintetizza brevemente, ma in modo puntuale, lo stretto nodo che collega l’introiezione da parte del bambino della madre (intesa come oggetto psichico), vista secondo la teoria delle relazioni oggettuali della Mahler, alla strutturazione della personalità e della immagine interiore di sé, all’interno del celebre processo di separazione-individuazione descritto dalla psicoanalista. Integrando e collegando infine queste distinzioni alla teoria bowlbyana degli stili di attaccamento.
Segue quindi una serie di sfumature e “gradazioni” particolari rispetto all’autostima (sana; bassa; alta ma fragile), che ne rivelano la complessità, ma soprattutto la centralità e la trasversalità rispetto a tutti gli aspetti della vita dell’uomo. In questo senso è impossibile restituire qui la ricchezza di questo nucleo fondamentale dell’identità, ampiamente descritto nel testo.
L’autostima viene definita innanzitutto sia come la valutazione generale che la persona fa di se stessa (autostima globale), il giudizio complessivo, sia come valutazione particolare (autostima specifica), rispetto alle singole caratteristiche che le appartengono. Le autostime particolari vengono suddivise a loro volta secondo l’essere e secondo il fare. La prima suddivisione comprende l’intelligenza, le attitudini, il carattere, l’aspetto fisico e l’appartenenza sociale; la suddivisione riguardante le autostime specifiche del fare comprende invece le competenze derivanti dalla interazione tra conoscenze teoriche, esperienze, e abilità innate, a loro volta suddivise in ulteriori sottocategorie (sapere, saper fare, saper essere).
Si evidenza inoltre come non ci sia una effettiva corrispondenza matematica tra l’una e l’altra, tra autostima globale e autostima specifica.
Una persona che consegue successi in diversi settori, e pur avendo diverse buone autostime particolari, può avere una valutazione generale di sé fondata prevalentemente sul disprezzo. Viceversa, persone con autostime specifiche (o sottoautostime) di basso livello, hanno una autostima generale piuttosto buona.
Nella seconda parte del libro, a partire da quanto descritto precedentemente parlando delle diverse sfumature dell’autostima fragile, l’Autrice descrive una fenomenologia tipologica dei profili umani corrispondente. Una carrellata ricca, ampia ed approfondita per quanto mi riguarda, la quale prende in considerazione diversi aspetti esistenziali e psicologici, nonché molteplici cornici relazionali e di contesto.
I “tipi” descritti, che vanno dai classici “timidi” ai “permalosi”, dai “sospettosi” agli “scalatori di montagne” ai “workaholic”, esprimono, mediante le loro azioni, idee irrazionali (convinzioni di copione), relazioni, emozioni e modi di essere in generale, il loro collegamento diretto o indiretto con una autostima fragile. Il discorso, complesso e articolato, seppure nella brevità delle descrizioni dei singoli casi, agevolato dalla grande capacità dell’Autrice di esprimersi chiaramente, e in modo piuttosto eclettico, si appoggia sovente su strumentazioni teoriche di stampo psicoanalitico. Come il discorso kleiniano sul seno buono/seno cattivo rispetto agli “invidiosi”, e della introiezione proiettiva per gli “scapoli”. Oppure la classica coazione a ripetere freudiana.
L’intero saggio, comunque, è letteralmente “filtrato” potremmo dire da alcuni concetti classici dell’Analisi Transazionale, nella quale l’Autrice è specializzata.
A questo proposito rispetto alla valutazione di sé, ad esempio, la posizioni esistenziale che i bambini assumo dalla nascita è la tipica “Io sono Ok-Tu sei Ok”, ed è una posizione definibile come sana. Il bambino sente che lui “va bene” come essere vivente, e chi lo accudisce anche. È dai 0 ai 5 anni che, a partire da diverse esperienze di accudimento con i propri caregiver, che egli deciderà la propria posizione definitiva.
Se assumerà quella secondo la quale “Io non sono Ok-Tu sei Ok”, avrà ritenuto se stesso come inadeguato e adeguate invece le cure avute dal genitore. Da adulte, le persone che hanno concretizzato questa posizione vivranno, in generale, emozioni prevalentemente negative: come depressione, sensi di colpa, indecisione, incertezza. Si sentiranno inferiori agli altri e assumeranno nei loro confronti il ruolo di vittime; sentiranno di avere poca fiducia nelle loro possibilità e non avranno la capacità di percepirsi amate e apprezzate, anche quando ciò potrà effettivamente verificarsi in modo oggettivo.
Se invece il bambino si deciderà per “Io sono Ok-Tu non sei Ok”, sarà convinto viceversa del fatto che lui sarà adeguato, ma non chi si prende cura di lui. In questo caso l’adulto vivrà nella rabbia, nella collera, per mascherare a se stesso e agli altri la paura di trovarsi nella posizione opposta. Le persone stabilitesi in questa posizione, avranno bisogno di criticare gli altri individui per sentirsi “Ok”, magari aggredendoli e svalutando cioè che dicono o fanno.
Nella posizione “Io non sono Ok-Tu non sei ok” il bambino riterrà le cure ricevute, e non gradite, come conseguenza della inadeguatezza sia di se stesso, sia del proprio caregiver. Da adulto questa sarà per lui la posizione peggiore, a partire dalla quale vivrà nella sfiducia sia di sé e delle proprie capacità, che degli altri. Ma anche, ulteriormente, nei confronti della realtà circostante, intesa questa come orizzonte di possibilità esistenziali. Si porrà in maniera piuttosto passiva quindi rispetto agli eventi, anche quelli che lo faranno particolarmente soffrire o gioire, vivendo in questa maniera giorno per giorno.
Ma il pensiero che a mio parere trapela con maggior forza dall’intero libro, e quindi la posizione teorica dell’Autrice, è rappresentato dal fatto che la formazione della identità e del senso interno di sé da parte del bambino, il proprio modello operativo interno, le sue capacità di autovalutazione, di reperimento e di riconoscimento delle risorse, i modi di elaborazione dell’esperienza, di capacità e di consapevolezza interiore in generale, si stabiliscono e si strutturano attraverso la complessa interazione diadica tra madre e bambino, o tra il bambino e il proprio caregiver. In questo senso desidero dilungarmi su questo argomento, che ritengo particolarmente pregnante rispetto all’intero discorso, così da offrire al lettore alcuni spaccati che possano tratteggiare, anche minimamente, l’orizzonte esistenziale e psicologico dal quale il libro trae molte conseguenze e riflessioni.
La maggior parte degli ambiti e dei temi esposti, e il filo rosso del riconoscimento da parte dell’Altro importante dal quale vengono inanellati, si inseriscono perfettamente a mio avviso, all’interno delle ricerche svolte dagli Infant Research (Sanders, Emde, Stern) e della teoria dell’attaccamento (Bowlby). Ma anche in quelle di altri autori di stampo più propriamente psicoanalitico, i quali si avvalgono di approcci e paradigmi intersoggettivi (Storolow, Atwood), interpersonali (Sullivan, Fromm), relazionali (Mitchell), e sistemico-diadici (Beebe, Lachman), per delineare gli sviluppi psicoevolutivi del bambino.
Sappiamo da tempo come solo all’interno di questo micro-sistema dinamico e complesso che entrambi i partecipanti alla interazione, acquisiscono stabilmente o meno, alcuni elementi psicologici fondamentali. Visti da questa prospettiva, madre e bambino rappresentano un sistema vivente interconnesso, il quale vive e si muove attraverso una costante eteroregolazione tra i soggetti interagenti, e una continua autoregolazione dei singoli al proprio interno. E cioè la madre regola gli stati interni ed esterni del bambino, così come il bambino regola gli stati interni ed esterni della madre; allo stesso tempo ogni persona svolge delle funzioni autoregolatorie che sono indipendenti dalla eteroregolazione interattiva in atto. Eteroregolazione ed autoregolazione cioè possono essere rappresentate come delle modalità di regolazione parallele e interattive, volte a modulare gli stati interni come la relazione esterna (Amadei, 2005). Il sistema madre-bambino si autoregola attraverso un complesso meccanismo a retroazione, nel quale entrambi si scambiano reciprocamente e costantemente dei feedback i quali tendono a correggere il sistema stesso: ristabilendolo verso una certa omeostasi, o viceversa amplificando le deviazioni dall’omeostasi e spingendo così il sistema verso dei cambiamenti. Bambino e caregiver sono soggetti interagenti che costituiscono un sistema vivente unico.
All’interno di un fitto intreccio di feedback reciproci, tra madre e bambino, secondo il cosiddetto paradigma della “dissintonia” [1], vi è una corrispondenza di specificità, una risonanza cioè tra i due sistemi sintonizzati tra loro, in base alle proprietà corrispondenti, capace di rendere consapevoli entrambi. Nella fase dell’incontro c’è una corrispondenza potenziale tra il modo in cui ognuno dei due partner conosce se stesso e il modo in cui è conosciuto dall’altro: se avviene questo tipo di corrispondenza, c’è un riconoscimento bilaterale che favorisce il senso di sé della persona come soggetto capace di agire da solo sulla propria autoregolazione. Tuttavia, se il riconoscimento tra le due modalità non avviene, l’individuo sentirà come indeboliti la propria identità e la propria capacità di agire autonomamente, e potranno svilupparsi in seguito sia una bassa autostima, una fragilità dell’Io, sia delle vere e proprie deviazioni psicopatologiche (che non vengono trattate nel libro).
Questo tipo di corrispondenza, capace di consolidare il senso del Sé del bambino, e quindi la propria capacità di autoregolazione, è alla base dell’autostima dunque, e si basa su un buon equilibrio dinamico tra autoregolazioni ed eteroregolazioni. È la circolarità costante dei feedback e la sintonizzazione degli affetti descritta da Stern che permetterà al bambino di definire il senso di sé, la maggiore o minore permeabilità alle relazioni future, il suo rapporto con la solitudine.
Se, come sottolinea efficacemente l’Autrice, la madre (o il caregiver) interpreta il rifiuto del seno da parte del bambino come una propria incapacità o incompetenza, piuttosto che come una normale assenza di fame da parte del bambino (a una certa età), e non lascerà a quest’ultimo l’iniziativa di attaccarsi autonomamente al seno, potrà forzarlo ad alimentarsi. Questo atteggiamento, preverbale e primitivo se vogliamo, ma fondamentale per quanto riguarda lo sviluppo del bimbo, potrà portarlo ad avere idee negative su di sé, o su chi lo accudisce. Sentirà di essere o inadeguato, incapace, percependosi come “sbagliato”, oppure si convincerà del fatto che chi si prende cura di lui sia un incapace. Oppure penserà che entrambi, cioè sia lui, che gli altri, siano sbagliati, incompetenti, inadeguati. Con il tempo infatti, dato che i bambini hanno un sistema cognitivo particolarmente rudimentale, l’individuo tenderà a generalizzare le sue convinzioni stabilitesi durante questi primi, essenziali momenti ed esperienze con il caregiver, allargando le sue idee ad altri contesti e ad ulteriori situazioni. Queste convinzioni cioè andranno a far parte della visione globale di sé e del mondo.
Le interazioni tra madre e bambino si svolgono in primis su un piano presimbolico e preverbale, di modo che saranno le espressioni, gli atteggiamenti, il tono di voce, il ritmo corporeo ecc., a far si che il sistema diadico si autoregoli, e possa permettere lo stabilirsi di un senso del Sé stabile da parte del bambino.
È come se, grazie allo sguardo approvante o disapprovante della madre, affettuoso, accogliente, oppure annoiato o triste, il bambino riuscisse a dare una forma alla materia informe rappresentata dalle proprie emozioni viscerali, e da un senso interno sostanzialmente corporeo, fuso autisticamente alla madre intesa come ente non ancora separato (Wright, 2000).
A questo punto, se il caregiver di fronte alle pulsioni aggressive e all’angoscia del bambino risponde con un certo panico o con la medesima angoscia, piuttosto che con un atteggiamento di contenimento e di stabilità affettiva, il bambino penserà di non essere in grado di contenere e di gestire lui stesso la propria angoscia e aggressività. Questo perché il mancato riconoscimento da parte del caregiver di aspetti interiori del bambino, la sua incapacità di gestione emotiva, provoca un senso di non riconoscimento di quegli stessi aspetti di sé da parte del bambino stesso, il quale in alcuni casi ne verrà sopraffatto. Nel caso del contenimento emotivo di stati d’angoscia, il bambino non percepisce la sicurezza che vorrebbe dall’altro, e che potrebbe dargli la certezza di contenere il suo medesimo disagio.
Come dice Winnicott sottolineando la dimensione corporea del sostegno, “Il sostenere comprende soprattutto il tenere in braccio fisicamente l’infante […]. Ci sono madri capaci di tenere in braccio un infante e madri che non ne sono capaci; queste ultime producono rapidamente in lui un senso di insicurezza.” (Winnicott, 1965).
Se lo specchio genitoriale non si attiva, o si attiva in maniera inadeguata, sia rispetto agli stati di angoscia, ma anche rispetto agli stati di piacere, di entusiasmo, alle sensazioni corporee e alle emozioni, ai comportamenti ecc., se chi il bambino riconosce come colui che lo può riconoscere non svolge questa funzione, allora il bambino non conosce se stesso. Non sa chi è, cosa prova, e non apprende come gestire i suoi stessi sommovimenti ed esperienze. Vive ignoto a sé. Come dice ancora Winnicott, “Quando guardo e sono visto, io esisto.”
Il bambino nei suoi primi stadi di vita non si percepisce come entità separata, ma come una persona-in-relazione-a-un’altra-persona, e i processi di riconoscimento, che avvengono all’interno delle relazioni di attaccamento, determineranno a grandi linee il “modo” attraverso il quale egli percepirà le sue relazioni future. Nell’eventualità in cui non ci sarà un grave scollamento tra la propria esperienza interna e il modo in cui l’altro riconoscerà e sottolineerà questa stessa esperienza, il bambino percepirà le relazioni come luoghi sicuri dove fare esperienza di sé; se ci sarà un sufficiente scollamento, all’inverso, percepirà le relazioni come luoghi in cui il Sé potrà smarrirsi.
Le relazioni cosiddette “sicure” sono dunque quelle in cui il bisogno di essere riconosciuti, necessario allo sviluppo della propria identità, è stato appagato dal riconoscimento da parte dell’Altro importante. Se non c’è una sintonizzazione tra esperienza interna e riconoscimento esterno, il bambino percepisce un senso di insicurezza che forclude la sua capacità di percepire se stesso come centro di iniziative autonome, e si attiverà per ridurre questa dissintonia tra interno ed esterno.
Il mancato riconoscimento o un riconoscimento distorto, si pone soprattutto sul piano della identità e della immagine di sé quindi, una dimensione che l’Autrice approfondisce in maniera efficace, chiara, puntuale, a partire soprattutto dal paradigma dell’Analisi Transazionale. Un’immagine che il bambino apprende durante le interazioni, sia verbali che non verbali, con i propri caregiver. Se questo accade si apre un vuoto interno in lui: egli cioè diventa “vuoto di sé” in quanto, come sottolinea l’Autrice, gli altri “gli fanno da specchio e lui tenderà a vedere se stesso nel modo in cui loro lo vedono e a giudicarsi come loro lo giudicano”.
Il bambino infatti non ha altra consapevolezza di sé se non a partire da ciò che gli altri pensano e dicono di lui: l’immagine che gli altri si fanno del bambino diventa l’immagine che il bambino si fa di se stesso. Conseguentemente, continua Sabrina D’Amanti, “Anche quando egli contesti e si arrabbi rispetto a una definizione o aggettivo ritenuto non veritiero o infamante, nel suo animo rimane il segno di quanto ha sentito dire e se nel tempo, in modo implicito o esplicito, tali concetti gli vengono ribaditi, sarà per lui difficile respingerli internamente poiché la parola dell’adulto ha un peso assai superiore alla sua.” Questo aspetto legato alla fragilità intrinseca al bambino rispetto all’autorità genitoriale, mi sembra molto in linea con la acuta e profonda speculazione di Alice Miller.
A seconda delle modalità attraverso le quali i genitori riconoscono le qualità di essere umano del bambino, le sue emozioni, aspetti caratteriali, risorse, capacità, talenti, egli stabilirà nei loro confronti un tipo di attaccamento piuttosto che un altro, e sentirà un certo timore di perdere il loro amore, oppure una certa convinzione rispetto alla continuità di questo sentimento verso di lui.
La sfumatura sottolineata a più riprese dall’Autrice, importante a mio avviso, sta nel fatto che se è vero che i riconoscimenti sono fondamentali per lo sviluppo del bambino, secondo l’assunto di Berne secondo il quale “Qualsiasi tipo di carezza è meglio di nessuna carezza”, vero è anche che i riconoscimenti non debbono essere solo buoni, solo positivi, se il bambino esprime emozioni o comportamenti positivi, o solo cattivi se il bambino compie delle marachelle o degli errori gravi. È il modo, il “come” vengono dati questi riconoscimenti, sia positivi che negativi, ad essere essenziale.
Così, è adeguato dare riconoscimenti positivi quando ci sono dei meriti, qualità o condotte reali, ma risultano dannosi gli stessi riconoscimenti positivi quando non ci sono meriti reali, o non c’è una corrispondenza con ciò che il bambino effettivamente è, o quando addirittura compie una azione cattiva o pericolosa. Dall’altra parte, sono adeguati quei riconoscimenti negativi capaci di fargli comprendere che ha sbagliato, ha violato delle regole, o i suoi comportamenti sono pericolosi per sé e per gli altri. Viceversa, sono deleteri quando sono mortificanti, umilianti, denigratori, perché soprattutto rivolti alla sua persona, e non a correggere ciò che fa.
Dire a un bambino “sei uno stupido” o “non capisci nulla” se ha sbagliato a fare un compito, magari mentre sta apprendendo a farlo, o magari perché ha commesso una birichinata comprensibile alla sua età, significa non dargli alcuna via d’uscita rispetto al giudizio espresso dall’autorità genitoriale. Se una affermazione sul “fare”, cioè sull’azione, può essere corretta, in quanto mutevole e quantificabile, un giudizio severo che colpisce l’intera persona, il suo essere, non lascia via di scampo, poiché il valore della persona è assoluto, modificabile ma non convertibile.
Sensi di colpa, vergogna, disistima, manie di persecuzione, nascono su questo tipo di terreno educativo. Se invece di dire al bambino che il risultato che ha ottenuto è sbagliato, gli si dice, magari ripetutamente, che “non capisce nulla”, probabilmente si convincerà di non capire effettivamente niente. Non si sentirà semplicemente uno stupido, ma diventerà uno stupido.
Non intraprenderà alcuna impresa cioè, perché non si sentirà sicuro di farcela o di essere all’altezza dell’obiettivo. Non considererà le sue risorse, qualità, talenti, e proverà un senso di inadeguatezza capace di farlo sentire schiacciato dalla vita.
Oppure, viceversa, quanto più il bambino assumerà una posizione “Non Ok” rispetto a certe esperienze sgradevoli e umilianti di non riconoscimento, tanto più, per reazione, potrebbe convincersi del fatto di dover giungere a un perfezionismo assoluto per sentirsi minimamente gratificato e accettato a partire da ciò che fa. Egli cercherà di ridurre la discrepanza tra l’esperienza interna e il riconoscimento esterno, secondo un tipo di attaccamento insicuro, attraverso delle “maschere” relazionali capaci di veicolare nei confronti dell’Altro importante delle “apparenze accettabili” come dice la Horney.
Così, il bisogno d’amore e la paura di perderlo quando era piccolo, unite alla paura del rifiuto per eventuali errori commessi, o rimandatigli come tali dai genitori, o interpretati come tali da se stesso, faranno si che egli abbracci l’idea di dover essere “il migliore” per sentirsi “Ok”, sia nei suoi medesimi confronti che nei confronti degli altri.
Il perfezionismo come simulazione interna di compenso si alterna in questo modo alla esperienza del disagio della inaccettazione, e alla fatica alienante dello sforzo compiuto per mettere in atto queste manovre. Proprio perché in passato non aveva ricevuto i riconoscimenti e gli apprezzamenti che avrebbe desiderato, quando ottiene da adulto dei risultati per lui non sono mai abbastanza. Non si sente mai “Ok”. Cosi come quando riceve degli apprezzamenti e dei riconoscimenti per ciò che fa: in questo caso tende a eluderli o a sminuirli come esagerati o non reali, falsi magari, perché è egli stesso a sottovalutarsi, a non sentirsi mai degno d’amore, e a vivere in un mondo fittizio, ideale, di desiderio di riconoscimento.
Così, alza sempre di più l’asticella del riconoscimento perché ignora quel bisogno mai soddisfatto che continua a scavare la sua anima, scambiando il proprio fare, le proprie performance esteriori, con il proprio essere, le sue qualità e sentimenti autentici interni. E quindi non riesce mai ad apprezzare pienamente ciò che fa, neanche quando sono gli altri ad esprimere quegli apprezzamenti che, paradossalmente, desidera. Senza tuttavia essere consapevole dell’origine del bisogno che lo muove.
Un origine ormai inabissatasi nella notte dei tempi, a partire dalla quale ora egli esprime, attraverso una generalizzazione inconsapevole, le sue convinzioni e il suo desiderio di riconoscimento a persone e contesti totalmente diversi, rispetto a quelli dai quali, in passato, hanno preso avvio le sue dinamiche di compenso.
Le persone dalle quali cercava di ottenere amore, come dice l’Autrice, non ci sono più. Eppure, preso ormai da dinamiche transferali coatte e ripetitive, cerca di placare la sua angoscia di perdita e separazione attraverso dei tentativi esterni di conferma e di verifica di sé. I quali, come viene sottolineato efficacemente, sono insufficienti a dissipare quei dubbi e insicurezza di base, e a risolvere ciò che internamente resta irrisolto.
Il nucleo centrale a mio avviso che fa da sfondo all’intero libro, è quello secondo il quale di fronte alla disapprovazione o all’indifferenza dell’Altro importante, proprio per l’estrema dipendenza e bisogno d’amore che il bambino ha nei suoi confronti, difficilmente egli penserà che siano i suoi amati genitori ad aver sbagliato. Ma piuttosto sentirà di essere lui stesso in errore.
La fragilità dell’autostima si rivela dunque sul terreno di una dipendenza bambino-caregiver, nella quale il distacco e le diverse fasi di allontanamento durante il processo di crescita non vengono accompagnati secondo delle modalità adeguate.
Il genitore, per agevolare il passaggio del bambino dalla fase di dipendenza simbiotica iniziale a una di autonomia e indipendenza, dovrebbe saper mettere in atto dei comportamenti capaci di far sentire apprezzato il bambino per ciò che è, indipendentemente da quello che riesce a fare o a esprimere. Senza per questo indurlo attraverso degli atteggiamenti iper protettivi a una ancora più profonda dipendenza invalidante. Allo stesso tempo dovrebbe cercare di stimolarne gradualmente l’autonomia, riconoscendone e valorizzandone le risorse e gli atteggiamenti che possano spingerlo verso una certa indipendenza, senza viceversa fargli percepire distacco o desiderio di allontanamento, o peggio ancora senso di abbandono.
Inoltre come ho indicato in precedenza rispetto alla possibile dissonanza di fondo tra bambino e genitore, a questo non riconoscimento originario, fin dai primissimi istanti di vita e oltre, il bambino strutturerà delle idee irrazionali (convinzioni di copione), e una diversa fenomenologia e reazioni comportamentali, a seconda degli elementi interni alla tipologia presentata. Ed è questo un altro pregio del libro: la capacità dell’Autrice di offrire una gamma tipologica variegata e alla portata di tutti, capace di esprimere e comprendere moltissimi atteggiamenti, emozioni e idee copionali, derivanti da una autostima fragile.
Cosicché, se il disprezzo e le critiche degli altri importanti provocano nei cosiddetti “competitivi” e “negli scalatori di montagne” una coazione a ripetere che li porta a ottenere sempre maggiori risultati, senza potersi permettere alcun riposo, e a investire sulla loro superiorità reattiva come modalità di esorcizzare la paura e il rifiuto della dipendenza; allo stesso modo i “compiacenti” e i “remissivi”, esprimeranno delle reazioni alle critiche e al mancato riconoscimento diventando passivi e adeguandosi agli altri nel presente, rinunciando totalmente a se stessi e alle loro idee, per paura di non essere amati.
Una paura originaria ormai rimossa, come già detto precedentemente, ma dalla quale esalano fantasmi che spingono l’individuo a portare avanti quegli stessi rimedi passati, nel presente, in maniera anacronistica e fondamentalmente autodistruttiva. In entrambi i casi, sia rispetto ai “perfezionisti”, che rispetto ai “passivi”, le critiche vengono percepite, o sono effettivamente indice di non apprezzamento nei loro confronti, e quindi del proprio “non valore” e indegnità rispetto all’essere amati. Entrambi sono modelli di espressione del proprio senso di inadeguatezza, che si rivela secondo dinamiche psicologiche ed esistenziali differenti.
La negazione implicita, o esplicita, di un riconoscimento, attraverso critiche, giudizi, indifferenza o addirittura disprezzo di idee, comportamenti, o anche espressioni emotive [2], può portare il bambino a considerare sbagliate queste idee, comportamenti ed emozioni, al punto tale da reprimerle pur di salvaguardare l’approvazione e quindi l’amore dei genitori nei suoi confronti.
Questo atteggiamento tuttavia lo porterà con il tempo a non sapere più che cosa davvero gli appartiene a livello di pensiero, di capacità di ragionamento, di elaborazione dell’esperienza, di idee, come si dovrebbe o vorrebbe comportare, e cosa “dovrebbe” sentire.
A volte la rimozione e l’inibizione di questi elementi psichici portano la persona adulta a non riuscire più a contattare i bisogni sottostanti alle emozioni, che ora prova solo in modo confuso, e proprio per questo distruttivo o autodistruttivo. Le emozioni confuse vengono infatti agite, coperte, rimosse, scambiate per altre emozioni e quindi parassitate con significati altri rispetto a quelli che, effettivamente, possono corrispondergli nel presente.
L’esistenza di una persona interiormente fragile, che ha smarrito la via per dare un valore alla propria identità e alle proprie caratteristiche caratteriali ed esistenziali, si rivela nella sua erranza, nei suoi percorsi drammaticamente dilemmatici ed effimeri. Vi è una indecidibilità radicale che lacera e fa sentire ancor più presente il proprio senso di inadeguatezza e indegnità. Persone dalla autostima fragile causata dal mancato riconoscimento altrui, hanno disimparato la modalità, le modalità, attraverso le quali possono rendersi consapevoli di esistere.
L’attenzione di questi individui (ma forse di ognuno di noi, anche se solo in alcuni periodi magari), si è rovesciata totalmente all’esterno al punto tale che non sanno più cosa provano quando lo provano, cosa effettivamente vogliono, e cosa possono o non possono decidere della propria vita.
L’individuo percepisce solo una insicurezza generalizzata. Oppure, viceversa, una insicurezza specifica, la quale viene attivata all’interno di determinate circostanze, situazioni, dinamiche relazionali, che riecheggiano agganciandosi a cornici infantili attivando in questo modo dinamiche inconsce di compenso.
Eppure l’autostima si fonda su tre fattori di base, come specifica l’Autrice: il temperamento del bambino, inteso questo come carica psicoenergetica generale della quale è dotato fin dalla nascita. Il suo essere irruento, creativo, calmo, ecc. Le influenze ambientali, come abbiamo visto, cioè il contesto socioeducativo nel quale cresce. Ma anche il libero arbitrio. E cioè quella facoltà o principio di indeterminazione umano, attraverso il quale il bambino interpreta gli eventi che gli accadono in un modo piuttosto che in un altro. Seppure nato in una condizione di dipendenza psicologica e biologica originaria, egli ha comunque a qualche livello la capacità e la possibilità di dare valore o meno a certe esperienze, e di apprendere e dare un significato piuttosto che un altro a ciò che gli accade.
Non si spiegherebbe come mai infatti, bambini fortemente traumatizzati da abusi e violenze oggettive riescano a trasfigurare quegli avvenimenti in modo positivo, e a addirittura a servirsene per realizzare la propria vita pienamente. Mettendo a frutto le loro risorse, facendo dei loro punti deboli dei punti di forza. Diventano cioè delle persone “resilienti”. Viceversa, bambini che non hanno subito alcun trauma, ma “solo” degli episodi magari ripetuti di inaccettazione, oppure sono stati investiti da messaggi ambivalenti o paradossali sibillini, sviluppano forti deficit e psicopatologie anche gravi.
Così, nell’ultima parte del libro, l’Autrice sottolinea come la capacità che un adulto ha di appagare i propri bisogni, di amare e di sentirsi amato, dipenda in gran parte da come è stato trattato da bambino, e che a seconda dei riconoscimenti ricevuti in passato ogni persona “costruisce un filtro in base al quale fa passare i riconoscimenti, positivi o negativi, a cui è abituata e lascia fuori quelli non familiari”. E tuttavia, attraverso alcuni strumenti, è possibile far si che questo filtro possa arricchirsi ed ampliarsi, affinché sia possibile per la persona non lasciare al di fuori di sé ampie parti di realtà, capaci potenzialmente di farla crescere e di farla accede a un maggiore benessere.
A questo punto vengono fornite alcune chiavi che possano far si che, le persone con autostima fragile, riescano a stabilizzare questo fondamentale aspetto dell’identità e dell’esistenza umana. Secondo quanto proposto, occorre riallacciare il proprio patto con il mondo attraverso un “fare che sia l’estrinsecazione dell’essere”.
Un essere fondato stavolta sull’autenticità e quindi sull’autoconsapevolezza.
Consapevolezza innanzitutto dei propri valori, delle proprie attitudini, competenze effettive, ma anche, infine, il riconoscimento delle idee di copione e l’accettazione dei propri limiti. “Apprezzarsi per i propri pregi e accettarsi per i propri limiti è il segreto di una buona autostima” sostiene l’Autrice. Un discorso, questo dei limiti, fondamentale direi per chi è vissuto nell’angoscia di poter sbagliare e non essere amato per questo, identificando così gli errori, inevitabili, con il non valore della propria persona.
Sabrina D’Amanti insiste al termine del suo libro su questo punto, giustamente, sottolineando il valore assoluto dell’essere delle persone, piuttosto che sulle proprie azioni, anche discutibili, e cioè sul proprio fare. Un esercizio interiore difficile questo, ma ineludibile, se ci si vuole riappropriare della propria vita uscendo da convinzioni agganciate a un passato che non vive più, se non attraverso le proprie ferite mai richiuse. Perché non ci si è ancora presi cura di esse.
Un libro prezioso dunque, che consiglio a tutti. Sia ai professionisti delle relazioni di aiuto, sia alle persone che desiderano migliorare la propria vita. Le quali possono gettare uno sguardo sui limiti e le imperfezioni con una certa indulgenza, e magari con una speranza in più di migliorare la propria vita. Perché, come sostiene l’Autrice, “Ciascuna persona è portatrice di un valore assoluto e indiscutibile che le appartiene per il fatto di essere una persona. Non c’è una persona che valga più di un’altra, tutti valiamo allo stesso modo, tutti possediamo quel valore assoluto che fa parte di noi in quanto esseri umani.”
[1] Per le differenze tra il paradigma della dissintonia e quello del trauma, del conflitto e delle carenze, rimando all’esaustivo e denso volume di Gerardo Amadei, Come si ammala la mente, Ed. Il Mulino, Bologna, 2005.
[2] Critica che a volte produce l’insorgenza delle cosiddette emozioni “parassite”, e cioè quelle emozioni accettate dal proprio contesto familiare, ma inautentiche, che fanno da “copertura” rispetto a quelle inaccettate ma autentiche.
D’Amanti S. (2011), I giochi dell’Analisi Transazionale. Come riconoscerli e liberarsene, Ed. Xenia, Pavia
Miller A. (2008), Il dramma del bambino dotato e la ricerca del vero sé. Riscrittura e continuazione, tr. it. M. A. Massinello, Ed. Bollati Boringhieri, Torino
Winnicott D. W. (1968), La famiglia e lo sviluppo dell’individuo, Ed. Armando, Roma,
Winnicott D. W. (1974), Gioco e realtà, Ed. Armando, Roma
Wright K. (2000), Visione e separazione tra madre e bambino, tr. it. di G. La Rocca, Ed. Borla, Roma
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