È certamente cosa nota, per chi si occupa di psichiatria fenomenologica e più in particolare di Daseinsanalyse, la distinzione che Ludwig Binswanger ebbe a tracciare, sin dai suoi scritti degli anni venti, fra il concetto antropologico di "mondo comune" e quello di "mondo proprio", coppia di nozioni sulla cui dialettica verte, in ultima analisi, l’intera dinamica dell’indagine esistenziale. Si tratta di una differenza che in numerose occasioni lo psichiatra svizzero non esita a chiarire attraverso il riferimento al concetto biologico di "mondo" quale emergerebbe, in particolare, dall’opera dello zoologo tedesco Jakob von Uexküll.
Fra l’attenzione che lo psichiatra rivolge alle configurazioni patologiche dei differenti mondi dei malati, o meglio, dei loro progetti di mondo, e quella del biologo per i diversi "cicli di funzioni" che caratterizzano l’interazione con l’ambiente delle differenti specie animali — scrive Binswanger — vi sarebbe una profonda affinità di carattere metodologico. Entrambe le indagini, infatti, muovono dalla convinzione che non sia possibile cogliere la peculiarità dell’essere rispettivamente di uomo e animale a prescindere dalla descrizione della loro situazione in un mondo, con tutto ciò che questo comporta in termini di relazioni, interazioni, intenzionalità e progettualità. [cfr. in part. L. Binswanger, Über die daseinsanalytische Forschungsrichtung in der Psychiatrie, in "Schweizer Archiv für Psychiatrie und Neurologie", 57 (1946), pp. 209-235; ora in Ausgewählte Werke, vol. III: Vorträge und Aufsätze, a cura di M. Herzog, Heidelberg, Asanger, 1994, pp. 231-257, § 2: Der Unterschied zwischen menschlichen Dasein und tierischem Sein. „Welt im daseinsanalytischen und „Umwelt" im biologischen Sinne, tr. it. di C. Mainoldi La differenza tra l’esserci dell’uomo e l’essere dell’animale. "Mondo" in senso antropoanalitico e "ambiente" in senso biologico, in Id., L’indirizzo antropoanalitico in psichiatria, in Id., Il caso Ellen West e altri saggi, a cura di F. Giacanelli, prefazione di D. Cargnello e F. Giacanelli, Bompiani, Milano, 1973]. E tuttavia, conclude Binswanger, ciò che fa la differenza fra l’animale e l’uomo è la possibilità che solo quest’ultimo possiederebbe di progettare, oltre al "mondo comune" a tutta la sua specie, anche un "mondo proprio". Laddove l’animale è "legato al suo "piano costruttivo" e non può valicarne i limiti, l’umana presenza non soltanto racchiude innumerevoli possibilità del poter-essere, ma anzi, proprio da questo multiforme poter-essere trae il suo essere" (ivi, p. 29). Il concetto di mondo-ambiente (Umwelt) insomma, che von Uexküll — seppur differenziandone le caratteristiche a seconda delle diverse specie animali — attribuiva ad ogni specie vivente, non può bastare allo psichiatra che intende indagare le diverse forme di comportamento dei malati a partire dal loro "mondo privato", ed è proprio a partire da tale considerazione che Binswanger getta le basi di quella che egli definisce la "rivoluzione kantiano-copernicana" della psichiatria:
"Noi psichiatri sinora abbiamo dedicato invero troppa attenzione alle deviazioni dei nostri malati dalla vita nel "mondo comune", anziché prendere in considerazione anzitutto, come per primo e sistematicamente ha fatto Freud, il loro mondo proprio o privato. […] Si vede come per pervenire dalla dottrina di von Uexküll all’antropoanalisi, sia necessario compiere la rivoluzione kantiano-copernicana, vale a dire in luogo di muovere dalla natura e dal suo sistema di piani e di attenersi al punto di vista delle scienze naturali, si deve prendere le mosse dalla soggettività trascendentale e, da questa, procedere sino all’Esserci come trascendenza" (ivi, pp. 27-28).
Non è il caso, in questa sede, di approfondire tutte le conseguenze teoriche e cliniche che Binswanger ricava da queste sue considerazioni, che — va detto — vengono elaborate nel contesto più specificamente heideggeriano della sua ricerca, com’è peraltro facilmente intuibile dalla stessa caratterizzazione negativa (per negazione) con la quale egli imposta il problema del vivente. Quel che ci interessa più da vicino, invece, è andare a vedere come questa differenziazione interna alla nozione di esistenza a partire dalla sua duplice modalità di essere nel mondo, come vivente e come soggetto — differenziazione che caratterizza in generale la psichiatria fenomenologica — trovi una declinazione del tutto peculiare e in un certo senso contro-corrente in Erwin Straus, e in particolare nel saggio che abbiamo scelto di prendere ad esempio, Sull’ossessione, che venne pubblicato a soli due anni di distanza da quello binswangeriano da cui siamo partiti. La questione, ci sembra, è della più grande importanza e attualità, giacché da essa derivano notevoli conseguenze, per la psichiatria, sia sul piano epistemologico che su quello più propriamente clinico.
La posta in gioco di tale riferimento al problema del vivente viene svelata da Straus sin dalle prime battute del suo saggio: se è vero — e qui lo psichiatra tedesco sembra fare eco al suo collega svizzero — che "lo studio del comportamento richiede sempre una conoscenza della specifica struttura del mondo" in cui l’uomo agisce (p. 64), non è dal "mondo proprio o privato dei malati" che si deve partire, ma esattamente da quella "vita nel "mondo comune"" dalla quale Binswanger aveva cercato di distogliere l’attenzione della psichiatria. Ponendosi quindi fin da subito in aperta contraddizione con la proposta binswangeriana, è a von Uexküll stesso, o meglio, a quel von Uexküll che Binswanger aveva riletto attraverso la lente heideggeriana, che Straus sembra alludere allorché scrive che quella "specifica struttura di mondo" a cui si deve rivolgere lo psichiatra è quella "in cui una specie, che si tratti di uomo o animale, di gruppi o di individui, agisce" (ibidem, corsivo nostro). Non è quindi alla malattia come "modo specifico dell’esistenza umana, completamente separato da tutte le valutazioni biologiche" (Sull’ossessione, p. 57) che lo psichiatra tedesco guarda, non è — o meglio, non è solo e, soprattutto, in primo luogo — alla "storia che determina la crescita di ogni persona" che lo sguardo clinico di Straus si rivolge, ma innanzitutto alla "costituzione" che "predetermina" quella storia, ovvero alle "caratteristiche naturali della specie che informano su ciò che essa sarebbe potuta diventare" a prescindere dalla malattia (ivi, p. 51, corsivo nostro).
In tale prospettiva, pertanto, il concetto di possibilità che Binswanger — attraverso la sua frequentazione di Sein und Zeit — poneva quale argomento decisivo a favore della necessità di distinguere una volta per tutte il carattere trascendentale della "presenza" dell’uomo rispetto a quella di qualsiasi altro essere vivente, pur continuando a mostrarsi "costitutivo" di tale presenza, viene ad essere inteso in un senso che appare diametralmente opposto rispetto a quello daseinsanalitico. Per Straus, infatti, il poter-essere dell’uomo è anzitutto quell’insieme di potenzialità che sono predeterminate dall’appartenenza biologica di quest’ultimo alla sua specie, e se certamente è innegabile che anche la malattia faccia parte di questo possibile che inerisce alla situazione di un uomo nel mondo, non lo è certo in relazione a una qualche malcelata autenticità alla quale la malattia, mostrando nell’individualità del malato la separazione da quel mondo comune che è anche il suo marchio biologico, rimanderebbe come al nucleo del nostro "Esserci come trascendenza". È per questo, dunque — scrive Straus in apertura del suo saggio, a proposito della discussione tra Freud e Binswanger sul tema della terapia degli ossessivi — che non è corretto ascrivere tale potenzialità esistenziale a quella "spiritualità", a quella capacità di "decidere per stessi" o di "elevarsi ad un livello di comunicazione spirituale con il terapeuta" che secondo Binswanger consentirebbe agli ossessivi di liberarsi delle loro compulsioni e di mettere fine alla terapia, potenzialità-capacità che invece mancherebbe in questi pazienti (cfr. ivi, pp. 58-59, corsivi nostri). Nulla di tutto ciò. La libertà a cui allude Straus non è quella del "mondo proprio" binswangeriano, e nemmeno quella — alla seconda potenza, potremmo dire — che consentirebbe ai malati di liberarsi dalle costrizioni del loro stesso mondo privato per raggiungere una libertà più autentica da recuperare questa volta nel mondo comune, nella forma della possibilità. In quanto "predeterminata", la potenzialità in cui va ravvisato il carattere dominante del vivente-uomo coincide in ultima analisi con i limiti impressi dalla natura stessa alla sua specie, limiti che possono certamente variare storicamente, singolarmente, soggettivamente, ma che in ogni caso non potranno mai essere decretati da una natura-essenza intesa in termini ontologici, nemmeno qualora quest’ultima intenda esprimersi soltanto per negazione.
E tuttavia, è bene rimarcare fin da subito, il riferimento di Straus alla natura biologica dell’esistente-uomo non intende inscriversi in un troppo semplice riduttivismo positivistico, quello stesso rispetto a cui il programma binswangeriano aveva trovato, alle origini — come "atto di liberazione", scrive Straus — la propria ragion d’essere [cfr. E. Straus, Psychiatry and Philosophy, in M. Natanson (a cura di), Psychiatry and Existence, Berlin-Heidelberg-New York 1969, § 1: Introduction. Nature and Existence, pp. 1-18, p. 16]. La posta in gioco del richiamo dello psichiatra tedesco alla nozione di "specie" è lungi dal voler riprodurre l’angusta opposizione di Leben e Dasein e si propone invece precisamente come tentativo di ripensare tale problematica a partire da una riflessione psichiatrica che si faccia carico della relazione fra natura ed esistenza storica, giacché è di questo che si tratta, in ultima analisi, allorché ci si interroga sulla malattia in termini di potenzialità. Detto in altre parole, il riferimento al "biologico", in Straus, ha un significato più ampio di un semplice richiamarsi alla biologia come scienza specifica, ai suoi postulati o ai suoi stessi risultati teorici, ed è precisamente il significato di tale riferimento, pertanto, che cercheremo di interrogare.
Si può vedere dunque come le considerazioni che Straus elabora nel suo saggio del 1948, a partire dal problema specifico del disturbo ossessivo, possiedano in realtà un respiro di carattere più marcatamente epistemologico, prima ancora che clinico. Il problema che sta alla base della sua convinzione per cui "solo se si conoscono i requisiti necessari ad una specie si può stabilire quali sono le condizioni storiche che potrebbero o hanno davvero agito su un esemplare individuale" (Sull’ossessione, p. 52) non è certo quello del cercare una spiegazione positiva finalmente risolutoria del disturbo psichiatrico in questione, ma coincide con la problematica più generale che sta alla radice della stessa psichiatria come "scienza", ovvero la relazione fra la singolarità del caso clinico e l’universalità, potremmo dire, della sua esplicazione-comprensione. Il ricorso di Straus al concetto di specie nasce in primo luogo dalla convinzione epistemologica secondo cui "il singolo caso in quanto tale è incomprensibile" (ivi, p. 108), da cui consegue la necessità — per comprendere lo stesso singolare "in quanto tale" — di affidarsi ad una "cornice di riferimento" più ampia, che Straus identifica nella "struttura fondamentale della vita comune" (p. 115, corsivo nostro). La tesi di fondo del saggio di Straus emerge precisamente in questo particolare frangente teorico: "L’individuo è una particolarizzazione della specie e per capire la particolarizzazione, sia essa patologica o meno, si deve ricorrere alla normalità: non c’è altro modo" (p. 129).
A prima vista, tale prospettiva sembra davvero porsi agli antipodi di quella Daseinsanalyse che, prigioniera del suo debito heideggeriano — a detta dello stesso Straus — non riuscirebbe a liberarsi dall’ipoteca di una sorta di "totalitarismo" antropologico, laddove invece la psichiatria sarebbe alle prese con degli uomini che, proprio in quanto malati, in quanto condizionati dalla malattia, mostrano tutta la loro dipendenza da quella naturalità che fa da sostrato imprescindibile al loro essere nel mondo come viventi, al loro essere, più precisamente, delle "particolarizzazioni" della specie a cui appartengono. "Nessun uomo è l’uomo" — scrive Straus — e la psichiatria non può arrogarsi a nessun titolo il diritto filosofico di postulare un qualsivoglia statuto di carattere "essenziale" per questi uomini singoli sui quali essa si interroga (cfr. Psychiatry and Philosophy, cit., p. 11). Lo psichiatra tedesco sembra qui dare atto a quanto Georges Lanteri-Laura osserverà esattamente cinquant’anni più tardi, allorché mostrerà come uno dei lasciti del "paradigma strutturale" all’interno del quale si collocherebbe la psichiatria fenomenologica sia precisamente il rischio, per quest’ultima, di rinchiudersi in un discorso "globalistico" che finirebbe per intendere la psicopatologia "come una delle parti di un’antropologia compiuta e definitiva" (G. Lanteri-Laura, Essai sur les paradigmes de la psychiatrie moderne, Paris, Éditions du Temps, 1998, p. 198). Eppure, sorge spontaneo obiettare, il riferimento di Straus alla nozione di "specie", e per di più nei termini in cui esso viene formulato, ovvero come "struttura fondamentale della vita comune", non rischia anch’esso, rimandando costantemente ad una normalità che fa da sfondo al poter-essere dei singoli uomini, di incorrere in quella stessa "deriva filosofica" che lo psichiatra tedesco rimprovera alla Daseinsanalyse? In realtà, la questione non è così semplice e ci sembra che solo tentando di sciogliere tale apparente aporia potremmo finalmente riuscire a rendere giustizia all’originalità della prospettiva elaborata da Straus.
È anzitutto al ruolo che il riferimento di Straus al concetto di "specie" riveste all’interno della sua proposta teorica che dobbiamo in primo luogo rivolgerci, e più in particolare alla considerazione secondo cui tale concetto viene utilizzato non come spiegazione di quel disturbo sul quale lo psichiatra intende indagare, ma come strumento per spiegare quest’ultimo. Detto in altri termini: il funzionamento della specie, al quale Straus si richiama per affrontare quella sua "particolarizzazione" che è la malattia, non possiede mai, all’interno del discorso dello psichiatra tedesco, uno statuto positivo, Straus non ci dice mai, in fin dei conti, quale è, in che cosa consiste, positivamente, quel funzionamento "normale" a cui va paragonato il disturbo. Egli afferma, invece, che:
"Solo se si conoscono i requisiti necessari ad una specie si può stabilire quali sono le condizioni storiche che potrebbero o hanno davvero agito su un esemplare individuale. La stessa distinzione tra ambienti favorevoli o sfavorevoli fa riferimento ad un modello che non ha a che fare con la sua storia" (Sull’ossessione, cit., p. 52, corsivo nostro).
E la precisazione è di estrema importanza, giacché in questo modo, integrando al modello biologico l’apertura verso la profonda ed imprescindibile storicità che lo caratterizza, anziché insistere sull’attualità positiva che contraddistingue invece quella biologia alla quale la psichiatria fenomenologica in genere si oppone, Straus mostra di utilizzare tale riferimento anzitutto quale strumento per distinguere e affrontare i vissuti psicopatologici. Volendo ricorrere ad una terminologia che, in ambito filosofico, fu cara a Merleau-Ponty, potremmo spiegare questo richiamo di Straus alla nozione di specie attraverso il concetto di "a priori della specie" o "a priori dell’organismo". Nell’ottica del filosofo francese, l’appello al modello biologico quale quadro di riferimento più ampio per ripensare su nuove basi la "struttura del comportamento", aveva precisamente lo scopo di consentire alla psicologia di integrare alle proprie analisi il fattore storico del comportamento umano come essere nel mondo, senza però ricadere nei dogmi tanto dell’intellettualismo quanto del suo contrario, nella forma del materialismo biologistico oppure behaviorista. La nozione di specie, pensata però — si badi bene — nei termini dell’a priori, aveva precisamente questa funzione: essa forniva quella "struttura" indispensabile, quella "cornice di riferimento" necessaria — per utilizzare le parole dello stesso Straus — per poter formulare delle considerazioni intelligibili sulla singolarità, sulla storicità del comportamento umano senza però incappare nell’elaborazione di un’antropologia filosofica pronta a rivendicare le prerogative di un Menschsein irrimediabilmente lontano dalle sue attuazioni particolari.
È in questo senso, dunque, che vorremmo suggerire come anche il riferimento biologico attraverso il quale Straus invita a rileggere la "struttura del mondo" a cui rimanda la Daseinsanalyse debba essere inteso a partire dalla nozione di a priori, o meglio, a partire da quel particolare utilizzo del concetto di a priori che coniuga al proprio interno l’esigenza di universalità del discorso epistemologico della psichiatria con la singolarità delle esistenze storiche di cui essa deve farsi carico. Anche in Straus, infatti, la "cornice" specifica all’interno della quale l’uomo si trova ad agire costituisce quell’a priori — nella forma di una comune "legalità" biologica di riferimento — al quale lo psichiatra non può fare a meno di rimandare per poter comprendere la singolarità dei suoi casi, quella legalità solo alla luce della quale lo stesso caso singolo può essere individuato "come tale". E tuttavia — Straus lo dice chiaramente — questa stessa cornice, questo stesso a priori, è a sua volta storico, giacché "la specie non è mai interamente realizzata, né può essere rappresentata da una ipotetica media tra molti individui" (Sull’ossessione, p. 52). Esso è sempre relativo all’esistenza effettiva di una specie, alla sua specificità storica appunto, alla cui mobilità esso, potremmo dire, si adatta a sua volta storicamente. Si tratta insomma di una cornice mobile, atta a definire delle condizioni di possibilità nel senso più "genuinamente" kantiano del termine, ovvero nella misura in cui essa delimita, condiziona certo l’effettualità che da essa in un certo modo dipende, ma, tale effettualità, non la riempie, aprendo al contrario uno spazio di possibilità per il dispiegarsi storico effettivo di quest’ultima.
Ora, se abbiamo insistito sul carattere "genuinamente" kantiano del dispositivo trascendentale in ambito biologico, è per un motivo ben preciso. È bene infatti sottolineare la fondamentale distanza che separa l’impostazione "biologica" di questo che abbiamo definito, foucaultianamente, l’a priori storico messo in campo dall’analisi psichiatrica di Straus, da un’altra impostazione che, sempre nell’ambito della biologia — e più in particolare dall’etologia — ha fatto uso a sua volta del concetto di a priori per spiegare la relazione fra vivente e mondo. Così, riflettendo sulle considerazioni di Straus sul rapporto tra comportamento individuale e "requisiti della specie", non si può certo evitare di pensare al modo in cui il riferimento alla nozione kantiana di a priori è stato condotto dal celebre etologo tedesco Konrad Lorenz, il quale — va ricordato — si preoccupa di contrastare gli argomenti del comportamentismo negli stessi anni in cui anche Straus è intento nello stesso obiettivo nel suo Vom Sinn der Sinne [Berlin, Springer, 1931 (19562). Il primo articolo anti-behaviorista di Lorenz è del 1935: Der Kumpan in der Umwelt des Vogels, in "Journal für Ornithologie", 83, 2-3, pp. 137-215, 289-413; poi in Id., Über tierisches und menschliches Verhalten, München, Piper, 1965, vol. I]. Nella prospettiva di Lorenz, che — va subito precisato — a differenza di Straus, muove da una preoccupazione eminentemente gnoseologica, la condizione di possibilità che determina le caratteristiche peculiari del comportamento di una specie è "biologica" nel senso, potremmo dire, tradizionale del termine, essa coincide cioè con quegli "apparati", "organi" o "funzioni storicamente determinate" che precedono materialmente le singole prestazioni storiche che da esse dipendono, vale a dire l’apprendimento e quindi le funzioni superiori del conoscere. In altre parole, l’a priori della specie è "storico" in quanto costituito da "funzioni di strutture già completamente adattate", "assicurate contro ogni possibile modificazione" [cfr. K. Lorenz, Die Rückseite des Spiegels. Versuch einer Naturgeschichte menschlichen Erkennens, München, R. Piper & Co., 1973; tr. it. di C. Beltramo Ceppi, L’altra faccia dello specchio. Per una storia naturale della conoscenza, Milano, Adelphi, 1974 (20026), cit. risp. a pp. 44, 30, 117, 159 corsivi nostri]. A priori, insomma, nella prospettiva neo-darwiniana di Lorenz, significa "preesistente", "preesistente a ogni apprendimento e la cui esistenza è necessaria per rendere possibile l’apprendimento stesso" (ivi, p. 159), e coincide in ultima analisi con quegli apparati "reali" che guidano un "essere nel mondo" inteso essenzialmente in termini di adattamento.
Il significato peculiare del riferimento di Straus alla biologia appare dunque in tutta la sua ampiezza se messo a confronto con tale posizione naturalistico-"realista". Attraverso il trattamento che Lorenz riserva alla "presenza" dell’essere vivente nel mondo a partire da condizioni di possibilità intese come "meccanismi specifici innati", appare in tutta chiarezza il ruolo anzitutto epistemologico-metodologico che assume invece il riferimento di Straus al concetto di "specie". Questo, infatti, non può essere pensato a prescindere dal concetto filosofico di a priori storico, in guisa del quale esso agisce all’interno del discorso dello psichiatra tedesco. Come è stato giustamente affermato, il "tentativo di accesso all’"essenza" del vivente", in Straus, non avviene né a partire da una sorta di eidetica a priori anteriore alla biologia, né tanto meno da un riferimento positivistico alla natura. L’a priori attraverso cui egli cerca di affrontare la storicità particolare dei viventi è "ricercata in seno al vivente stesso", ovvero nella sua stessa storicità [G. Thinès, L’œuvre critique d’Erwin Straus et la phénoménologie, in P. Fédida – J. Schotte (a cura di), Psychiatrie et existence, Grenoble, Millon, 1991 (20073), p. 84]. Ed è per questo, allora, che Straus può opporre all’interpretazione "biologistica" dell’"esperienza del mondo", alla connessione "speculare" di soggetto conoscente e mondo esteriore, la considerazione che è "con un medesimo atto" che "facciamo esperienza di noi stessi e del mondo, potremmo anche dire del mondo e di noi stessi" (Sull’ossessione, p. 75). In ultima analisi, è questa "relazione simpatetica con il mondo" a costituire l’a priori della specie all’interno del quale devono essere comprese quelle "particolarizzazioni della specie", quegli "esperimenti della natura stessa" che sono i disturbi psichiatrici (ivi, p. 51). Un a priori, com’è allora facilmente ravvisabile, che non predetermina materialmente quelle particolarizzazioni, ma che si limita ad offrire loro un quadro di riferimento all’interno del quale esse possono essere pensate in tutta la loro profonda storicità. Il compito dello psichiatra, pertanto, sarà quello di farsi carico della singolarità storica dei suoi pazienti rapportandola precisamente a tale cornice di riferimento, a tale a priori della specie. Ma, per fare questo, sarà necessario soprassedere alle manifestazioni contingenti, "superficiali" dei disturbi — il "come le cose sono realmente accadute" — per indagarne invece la struttura, ovvero il "come esse sarebbero potute accadere" (ivi, p. 60), una struttura che in ultima istanza si rivela essere appunto l’a priori storico della "presenza".
Ciò ha una conseguenza importante per la comprensione della specificità della proposta epistemologico-psichiatrica di Straus e allo stesso tempo anche l’originalità dell’appartenenza di quest’ultima al movimento "fenomenologico" della psichiatria. Sulla base di quanto sopra affermato, siamo costretti pertanto a dissentire dall’interpretazione che i curatori italiani del saggio in questione offrono della prospettiva messa in atto dal nostro autore. Essi partono infatti dalle critiche che lo psichiatra tedesco muove alla psicoanalisi freudiana per definire le prerogative della fenomenologia strausiana in termini di "sapere di superficie" (cfr. C. Muscelli – G. Stanghellini, L’approccio fenomenologico di Erwin Straus, ivi, pp ss. 44). Alla passione per il "sospetto", per la "profondità" del significato che caratterizzerebbe l’astratto approccio ermeneutico freudiano, infatti, Straus opporrebbe l’esigenza di volgersi alla relazione dell’uomo con il "mondo della vita", una relazione pensata in tutta la sua fisicità e quindi la "superficialità" del fenomeno. E certo è inevitabile che la critica alla psicoanalisi e all’idea che al di sotto dei fenomeni morbosi vi sia un processo inconscio "più vero" di cui quei fenomeni sarebbero semplicemente la "sovrastruttura" (Sull’ossessione, pp. 53, 60) — critica che costituisce uno dei fili conduttori del saggio di Straus — porti necessariamente a cogliere la diversità delle due prospettive in una sorta di opposizione alto/basso, superficie/profondità, sovrastruttura/struttura. Eppure, se è vero quanto abbiamo sopra affermato, se è vero cioè che l’analisi psichiatrica, nell’ottica dello psichiatra tedesco, deve saper riportare "le cose come sono realmente accadute" al "come sarebbero potute accadere", ovvero i comportamenti ossessivi particolari alla "struttura del mondo ossessivo" e da qui alla struttura generale della relazione simpatetica con il mondo che caratterizza l’esistenza "naturale", "normale", allora è innegabile che questa "analisi strutturale" possa essere definita a pieno titolo un’archeologia. Certo, un’archeologia profondamente diversa rispetto a quella freudiana, e in un certo senso più affine a quella kantiana — benché, si badi bene, l’archeologia di Straus non sia votata alla fondazione di una gnoseologia — nella misura in cui essa mira a rinvenire e analizzare le "condizioni di possibilità" del nostro essere nel mondo e del nostro agire in esso. Se si vuole definire l’analisi strutturale come "sapere di superficie", quindi, sarà soltanto nella misura in cui essa si trova a decretare, in modo solo apparentemente tautologico, che la malattia coincide con la sua struttura, e la tautologia è apparente perché questa struttura, benché contemporanea alla malattia, lo psichiatra la deve portare alla luce tramite l’analisi e il lavoro clinico:
"L’indagine psichiatrica inizia dalla fine e deve lavorare a ritroso poiché deve ricostruire le condizioni iniziali e determinare quali siano stati i fattori che hanno agito fino a produrre il disturbo psicotico" (ivi, p. 51, corsivi nostri).
Si vede bene allora come a tale cornice di riferimento "biologica" resti davvero poco in comune con quel "punto di vista delle scienze naturali" contro cui Binswanger incitava la psichiatria a "compiere la rivoluzione kantiano-copernicana". In effetti, questo "contatto col mondo" (ivi, p. 103) che Straus individua come la "struttura fondamentale" della presenza della specie-uomo nel suo "ambiente", è più vicino ad una nozione come quella minkowskiana di contatto vitale con la realtà che a quella "costituzione" o a quelle "caratteristiche naturali della specie" alle quali pure Straus rimanda all’inizio del suo saggio opponendosi in questo modo, almeno di primo acchito, alla prospettiva daseinsanalitica. Ma se così è, se cioè la struttura biologica alla quale Straus allude assume il significato di quel concetto generale che in Minkowski riassumeva "l’essenza della personalità vivente nei suoi rapporti con l’ambiente", un ambiente, però, "che è lungi dall’essere sinonimo di "mondo esterno"" (cfr. E. Minkowski, La schizophrénie, Paris, Payot, 1927; nuova ed. Desclée de Brouwer, 1953; Payot, 19973; tr. it di G. Ferri Terzian e A.M. Farcito, La schizofrenia, Torino, Einaudi, 1998, pp. 49 e 98), siamo ancora così sicuri allora che tale prospettiva tracciata da Straus sia da concepire in opposizione a quella binswangeriana dalla quale siamo partiti? Se l’appello strausiano al biologico è dell’ordine dell’esigenza di un quadro di riferimento a priori inteso quale spazio d’azione potenziale, vitale — direbbe Minkowski — entro cui collocare la singolarità soggettiva dei casi clinici, non è allora anch’esso dell’ordine di quella "concordanza metodologica" che Binswanger ravvisava tra il concetto biologico-etologico di essere nel mondo e quello daseinsanalitico? E, in effetti, è sulla base di questo preciso significato metodologico del riferimento della psichiatria alla biologia che Binswanger poteva affermare, almeno nella fase heideggeriana della sua ricerca, che:
"È buon segno per l’armonia tra il metodo delle scienze della "natura" e dello "spirito" — quale si profila nel nostro tempo — per il resto così lacerato, che, nonostante tutti i discorsi sulla "crisi della scienza", il filosofo arrivi alle stesse conseguenze metodologiche non solamente dello psichiatra, che si cura della struttura esistenziale della psicosi, ma anche del biologo e del neurologo che pensano biologicamente nel senso pieno della parola" [Über Ideenflucht, in "Schweizer Archiv für Neurologie und Psychiatrie", 27, 2 (1932), pp.203-217; 28, 1-2 (1932), pp. 18-26, 183-202; 29, 1 (1932), pp. 193 ss.; 30, 1 (1933), pp. 68-85; poi in volume, Zürich, Orel Füssli, 1933 (ripr. facsim. New York, Garland, 1980); poi in Id., Ausgewählte Werke, vol. I: Formen miβglückten Daseins, ed. a cura di M. Herzog, Heidelberg, Asanger, 1992, pp. 1-231; tr. it. di C. Caiano, Sulla fuga delle idee, introduzione di S. Mistura, Torino, Einaudi, 2003, p. 237].
Nel Binswanger degli anni trenta-quaranta, dunque, ma fin anche a quello degli studi sulla schizofrenia, malgrado l’infatuazione heideggeriana, è possibile rintracciare precisamente questo valore archeologico della Daseinsanalyse, rispetto al quale l’analisi strutturale di Straus — nella sua rinuncia a caratterizzare in senso ontologico il concetto di presenza — appare, potremmo dire, come una sorta di archeologia "naturalizzata". Grazie all’originalità della connotazione "biologica" che in essa assume il richiamo alla "struttura", la prospettiva di Straus sembra pertanto potersi considerare parte integrante della "rivoluzione kantiano-copernicana" verso la quale Binswanger incitava la psichiatria. E si tratta, ci sembra, di quella stessa rivoluzione "archeologica" alla quale rimanderà uno fra gli psichiatri che a nostro avviso ha compreso meglio di chiunque altro la direzione verso cui si muoveva, sin dalle sue origini, il progetto binswangeriano, ovvero Wolfgang Blankenburg. Nella sua opera più celebre — La perdita dell’evidenza naturale (Der Verlust der natürlichen Selbstverständlichkeit, Stuttgart, F. Enke, 1971; tr. it. di F.M. Ferro e R.M. Salerno, Milano, Raffaello Cortina, 1998) — egli utilizza infatti la concettualità daseinsanalitica in modo analogo a quanto già compiuto da Straus mediante quella che abbiamo individuato come la nozione di a priori della specie. Nel momento in cui Blankenburg ravvisa il nucleo strutturale della schizofrenia nella mancanza di un "ancoraggio dell’essere umano nel mondo in generale" (ivi, p. 1, corsivo nostro), nel momento in cui indica tale "perdita dell’evidenza naturale" come perdita "in generale, di ogni possibilità di legame" con l’ambiente (ivi, p. 108, corsivo nostro), egli mostra di saper cogliere a fondo il significato che il rinvio di Binswanger alla nozione di a priori rappresentava per l’indagine psichiatrica, al di là di qualsiasi sua ambizione fenomenologica filosoficamente intesa e, soprattutto, a prescindere dalla compromissione ontologica con una filosofia hedeggeriana o pseudo-heideggeriana. L’a priori messo in luce da Blankenburg, infatti, possiede quel carattere eminentemente strutturale che Straus aveva saputo evidenziare attraverso il suo ricorso alla biologia, attraverso la convinzione che non fosse possibile affrontare il singolo caso psicopatologico a prescindere da quell’"ogni possibilità di legame" con l’ambiente che costituisce il nostro essere nel mondo in generale, ovvero come specie. Ecco allora in che senso possiamo affermare come anche in Straus il concetto di "mondo comune" — nella forma "naturalizzata" dell’a priori della specie — rivesta in ultima analisi la stessa funzione, lo stesso ruolo che esso possiede nella dinamica della riflessione binswangeriana. A patto però che Binswanger non sia preso alla lettera, che non si prendano alla lettera i suoi dettagliati riferimenti filosofici, ma del quale si cerchi di estrapolare innanzitutto quella convinzione "genuinamente" fenomenologica — e filosofica tout court, in fin dei conti — per cui del singolo caso non si dà conoscenza, che esso non può essere pensato senza una "struttura generale" di riferimento, una struttura, però, che a sua volta non può essere concepita a prescindere dalla particolarità che ne offre "l’occasione", e che solo "attraverso la sua applicazione ad altri casi può essere verificata" (Sull’ossessione, cit. p. 108).
Ma allora, quello che in apertura abbiamo visto essere per Lanteri-Laura uno dei paradigmi della psichiatria — il paradigma "fenomenologico-strutturale" — una volta sfuggito al pericolo filosofico-"totalitario" attraverso la rinuncia ad un’antropologia filosofica, una volta liberato cioè dalla sua complicità con una teoria generale dell’uomo e concepito nel suo valore esclusivamente archeologico, non coincide, più in generale, con quello stesso approccio archeologico che spinge lo psichiatra francese a concepire una storia della psichiatria attraverso un’analisi dei suoi paradigmi, delle progressive strutturazioni che stanno "en arrière-plan", ovvero del suo a priori storico? "Tout est histoire", esordiva lo psichiatra francese citando Lévi-Strauss, eppure è questa storia stessa a costituire "la condizione di possibilità della nostra pratica" (Lanteri-Laura, Essai sur le paradigmes…, cit., p. 19), "No one man ist the man", scrive Strauss, eppure è la molteplicità stessa dei modi del relazionarsi al mondo a guidarci verso la "struttura fondamentale della vita comune", quella vita comune che è, appunto, il nostro a priori storico.
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