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“SUMMERTIME IL LIBRO” Jazz, solitudine e taxi

23 Mag 24

Di Gabrio Vitali
Sono due le cose che colpiscono subito nella lettura di questo libro di Francesco Bollorino, psichiatra di professione, ma di vocazione videomaker.

La prima è la scrittura e la seconda il montaggio. La scrittura procede tersa, con andamento allegro ma non troppo, alternando il ritmo jazzistico, a volte sincopato o segnato da innesti melodici rock, di un sax, a quello classico di un largo sinfonico, anche molto lento, guidato dal pianoforte. Il jazz è l’impianto musicale della narrazione degli episodi e del movimento dei personaggi che emergono nella memoria del soggetto che racconta; la sinfonia è quella delle riflessioni del narratore e delle descrizioni dei contesti, con indugio sui dettagli più significativi o sull’intensità di certi passaggi psicologici.

Il montaggio è cinematografico e procede per collocazione narrativa di scene su diversi piani temporali che si succedono, ma anche si sovrappongono e si intrecciano in un movimento di analessi e prolessi, che inserisce anticipazioni e rievocazioni in quasi ogni sequenza cronologica o nel suo rapido commento; le singole scenografie sono “girate” sia con zoomate di macchina sugli elementi specifici di un’ambientazione o sui tratti che delineano un carattere o una postura; sia con campi larghi che abbracciano l’insieme di un’ambientazione o inseguono la complessità mobile di un pensiero, cogliendolo nel suo farsi e sciogliendone il groviglio nel racconto. Interessanti e originali sono anche la lingua e la partitura adottate nel testo: la prima utilizza i registri di un parlato colto, ma quotidiano, nei quali l’innesto, vuoi di lessici specifici, vuoi di momenti lirici, non crea aporie né contrasti; la seconda si risolve in una scansione, secondo la successione dei mesi, di una lunga estate della vita che va dalla prima adolescenza (maggio) alle soglie della prima senilità (settembre).

Il tono, infine, è quello di un’ironia rivolta in primis a sé stesso, che pervade l’intera narrazione senza mai sconfinare nella di-stanza del sarcasmo o nel sentimentalismo del rammarico e che addolcisce in semplice amarezza o stempera in malinconia leggera i passaggi più dolorosi del narrato o quelli più acutamente nostalgici del ricordo.

Summertime è, quindi, il racconto di una vicenda di vita che muove da situazioni di inadeguatezza penosa o di comica insufficienza dell’intera giovinezza (dall’educazione in famiglia o in collegio, alla solitaria discussione di laurea; dalle passioni calcistiche frustrate, alla visita di leva frustrante; dall’incapacità di sentirsi gruppo con gli altri, alle prime e inevase esperienze d’amore) e approda agli scenari dell’età adulta attraversati in una solitudine sempre irrisolta, ma con un’adesione rinnovata, vivace e curiosa alle situazioni in cui avviene, di volta in volta, di doversi immergere (dalle conquiste e dai fallimenti professionali, alle relazioni d’amicizia e d’amore, pervase sempre dal senso d’incompiuto; dai viaggi percorsi con fascinazione e intensità esperienziale, agli ambienti di lavoro abitati con partecipazione e, insieme, con critico distacco; dai paesaggi naturali, soprattutto di mare, accolti con stupore e gratitudine, a quelli urbani e abitativi, attraversati con malcelata ostilità o con sottile disagio).

In tutto ciò, la postura del narratore è collocata in una dimensione di solitudine pressoché ontologica («I ragazzi troppo soli camminano col passo svelto di chi non ha un posto importante dove andare […] I ragazzi troppo soli pensano molto, osservano, dall’alto dei parapetti, il mondo passare, scrutano […] I ragazzi troppo soli hanno gli occhi avidi d’affetto, sogni banali nel cassetto, poche avventure da raccontare […] I ragazzi troppo soli, sono troppo soli») che, né una raffinata cultura, anche professionale, sui modi e le storie della vita, né un’esperienza poliedrica dei fatti, dei luoghi e delle persone di questo mondo, riescono a risolvere o anche solo ad attenuare, ma che il soggetto che scrive sa accogliere con saggezza e vivere, tal-volta, persino in allegria. E anche con grande tenerezza: «Ognuno deve avere una casa dove stare, ognuno deve avere una casa dove tornare. Vuoi essere la mia casa? Vuoi che io sia la tua?».

Ma, in fondo, fra personaggi indimenticabili, tratteggiati con partecipe delicatezza; fra critiche devastanti ad atteggiamenti e prossemica intellettuale di psico-esperti professionali, frequentati in ambito lavorativo; fra intensità di paesaggi sentimentali abitati con dedizione e, insieme, partecipati con distacco; fra avventure di viaggio e relazioni personali vissute con slancio e meditate poi con cauta attenzione, il succo di tutta la storia (e dell’atteggiamento verso la vita, i suoi fini e il suo senso) mi pare affidato, con un sorriso e come per caso, alla battuta di un tassista ispano americano bloccato nel traffico verso l’Aero-porto J. F. Kennedy di New York. Al cliente preoccupato di ar-rivare in ritardo all’imbarco, con saggezza e ironia, quel «Socrate baffuto» ribatte: «Señor, si usted tiene una solución, no está problema; si usted no tiene una solución, dónde es el problema?».

E il gioco della vita continua e la narrazione pure.

Che sia per questo, che la sezione di chiusura, con ben tre racconti finali, Bollorino l’ha intitolata Ouverture?

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