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Summertime – Ricordi condivisi L’ultima sorpresa letteraria di Francesco Bollorino

8 Giu 24

Di
«Mi piace pensare la musica come una scienza emozionale»

«I like to think of music as an emotional science»

(George Gershwin)

Summertime, questa ultima fatica di Francesco Bollorino, Collega psichiatra fondatore e direttore della rivista telematica “Pol.it Psychiatry on line Italia”, alla quale collaboro fin dal 2018, non è stata una sorpresa, per me. Diciamo che l’ho ricevuto a pezzi, il libro. Prima la copertina! Bellissima! Un’adolescente filiforme, perplessa e legnosa che sembra sfuggita da pennelli pudibondi di impressionisti o di macchiaioli. Poi, direi quasi a spizzichi e bocconi, come dicono a Roma, il testo, quasi fosse un dattiloscritto. Dunque, il numero di pagina tra parentesi si riferisce alla citazione del testo di Summertime come l’ho ricevuto. Un testo curioso che inizia con la parola “OBLÒ”, in maiuscolo! Attira subito l’attenzione di uno abituato ad andare per mare e guardare da sottocoperta … roba popolare, però! È l’esperienza di chi scrive, uscire coi Pescherecci di Terracina, tanti anni fa, felici di ospitare “u prufessore”, che “Muzzone” – il vecchio padrone del “San Rocco” – aveva conosciuto al manicomio di Roma quella volta che c’erano andati, lui e la moglie, a trovare Candido, il figlio ricoverato. Non so quanti siano stati quelli che hanno ricevuto questo flusso di emozioni solitarie di Francesco Bollorino, in anteprima, e a intermittenza, come annotavo, dove appare implicita la domanda, pudica, di una opinione. In ogni caso, dato anche il carattere molto zeneise del personaggio, ossia burbero per timidezza, ma di buon cuore, un bourru alla Goldoni, mi sembra un dono di colto privilegio! Mi piace la sua prosa diretta il suo raccontare i fatti, descrivere le vicende umane per come lui le vede, molto più avvincenti e partecipate di una semplice anamnesi. Penso che più che una breve recensione, il mio sarà un lungo commentario, pieno di note a margine, come si conviene alla narrazione di brevi periodi in cui l’Autore è presente, spettatore, protagonista e testimone oculare degli avvenimenti e dei vissuti di ciò che narra quando scrive in prima persona.

Dirò subito che tra me e l’Autore del quale ho condiviso, tutto sommato, buona parte della carriera medico-psichiatrica, ci sono diciannove anni di differenza, in cui praticamente è cambiato il mondo. Non era bastato il crollo degli “Imperi Centrali” (1918) ma si è dovuto combattere un secondo conflitto mondiale con tanto di bomba atomica finale e per noi, italiani, la peste bubbonica del Fascismo da spurgare. Francesco Bollorino è persona carissima, di cui ho immensa stima e grande familiarità, potrebbe anche essermi (teoricamente) perfino figlio, ma ne ho già cinque, di madre con origini genovesi, che già mi bastano. Conosco bene le “cose letterarie” di Francesco, che tengo in un “file separato”, come nelle scaffalature della mia libreria, in alto a sinistra, tengo i libri più cari. Il suo ultimo libro – Francesco Bollorino («u fìggiü du megu», come scopriremo in seguito) – lo ha voluto intitolare Summertime, tempo d’estate, come il celebre brano tratto dall’opera musicale “Porgy and Bess” del 1935 di George Garswin, celebre compositore che si fa apprezzare per la sua genialità, oltre che per la sua complicata, drammatica e precocissima storia neurovascolare. Peraltro, sulla polemica ancora irrisolta, tra gli specialisti della “neurologia clinica” sulla semeiologia del tumore del poveretto sul polo temporale dell’emisfero cosiddetto “minore”, che non avrebbe dato i sintomi giusti. Ma che l’emisfero “maggiore”, fosse ritenuto tale, perchè sapeva parlare dai tempi di Paul Broca resta una favola dura a dimenticare!

In ogni caso con Bollorino ci sono sempre delle sorprese e, questa volta, se non avessi letto le avvertenze per l’uso, dell’acutissimo “Gabrio”, alias Gabriele Vitali, che si trovano esattamente nella Postfazione di Summertime – da p. 105 a p. 109 – non avrei potuto apprezzarlo come si deve. Francesco è nato a Genova nel 1951, dove vive e lavora. Ricercatore presso il Dipartimento di Scienze Psichiatriche, insegna Psicologia Clinica nel Corso di Laurea in Medicina e Chirurgia e Psicopatologia alla Scuola di Specialità in Psichiatria. La sua grande passione, però, è fare il videomaker per vocazione, come dice esplicitamente Vitali, ossia un artista che racconta, girandole con cinepresa, situazioni colte al volo o immaginate per le emozioni che producono o per le riflessioni che inducono. Detto altrimenti, Francesco Bollorino, è il regista delle cose che gli vengono in mente, mettendoci anche la musica e la voce. Ma è anche il tecnico del girato, lo speaker e il produttore di se stesso. In realtà fa anche il distributore, per usare il linguaggio italiano di un tempo, ora basta dire filmmaker e videomaker. Ma ne riparleremo. Al momento, per esempio, basterebbe citare il racconto minimalista della sua tesi di laurea ad Arenzano che mi è rimasto impresso per due tratti originali: il titolo «20 LUGLIO: UN ALTRO SBARCO SU UN’ALTRA LUNA» e la descrizione della «Morgan 4 / 4 canonicamente british racing green», semplicemente una automobile inglese vecchio stile, anche un po’ ridicola, per quelli che da bambino erano andati a vedere le Mille miglia che passavano da Casalecchio di Reno, ma con «una spifferosa capotte di tela leggera». Arenzano, poi, splendida cornice rivierasca della “Grande Genova”, è anche una invidiabile cornice per festeggiare una Laurea in Medicina e Chirurgia di quelle vere! Non online! Il 20 luglio 1969, Francesco Bollorino faceva appena notare, con uno di quei cenni del capo accompagnati da un “mite” (guardate, imperativo presente plurale di guardare “Amiâ” in zeneise) leggermente sussurrato con soddisfazione, che la vita nel mondo era cambiata, ma anche la sua, perché avrebbe potuto aggiungere nel suo biglietto da visita un dottore in Medicina e Chirurgia, come suo padre. Una Laurea vera, di oro zecchino, quelle di un tempo, non quelle telematiche di oggi, un tanto al chilo, col finale in maschera al “triccheballache scevetaiasse e pitipù”. Sono consapevole che tecnicamente si tratta di “proiezioni” mie, ma quello che mi aveva catturato erano le operazioni di smontaggio della predetta cappottina e una traccia prodromica della solitudine del neolaureato: «smonto i traballanti vetri laterali, metto in tasca la cravatta e mi lascio inghiottire dal traffico dell’ennesima serata in cui nessuno mi aspetta, qualcuno guarda la macchina eccentrica ed esclusiva, nessuno è in ansia per me, nessuno sta per correre ad abbracciarmi: niente feste di Laurea, niente di niente, solo io con un Dott. in più sul biglietto da visita, i miei giocattoli costosi, la mia solitudine infinita, coltivata con rabbiosa determinazione» (p. 47)

A dire il vero non ho mai pensato alla solitudine di Francesco Bollorino, anzi non mi è mai sembrato solo! Ma adesso che ci ha scritto su un libro intero per raccontare la sua inconsolabile malinconica solitudine fin da quando gli è nata la sorella e ancor prima, mi è suonata alta e fragorosa entro i padiglioni auricolari, l’esclamazione tipica dei “camalli” del porto: “t’è scemmuu?” In lingua viene proprio “Sei sciemo?”, con la sci a sottolineare la tua stupidità nell’esserti distratto e non aver pensato alla cosa principale, nel momento topico. Certi interrogatori della magistratura sui portuali di questi giorni cruciali tra politici regionali e GIP che ti mostrano in televisione dentro macchine oscurate che vanno e vengono, me l’hanno ricordato mentre leggevo Summertime in anteprima. Ma certo, come dimenticare che Francesco Bollorino, dopo tutto, è genovese! Naturalmente non ho potuto evitare quella frana di luoghi comuni che vien giù, quando appena sfiori la “Superba”, dài un’occhiata alla “Lanterna”, allunghi lo sguardo sulla nuova diga foranea, su “Bocadâze”, laggiù dov’era “a’ Fôxe”, il piccolo borghetto di pescatori sul Bisagno, purtroppo pericolosamente tombato, a levante del porto, dov’è sorta la zona residenziale liberty umbertino … ma, alla fine, quello che ti resta dentro, anche se ci sei passato una volta sola, sono quattro parole intonate: «Ma se ghe penso alôa mi veddo o mâ, / veddo i mæ monti, a ciassa da Nonçiâ, / riveddo o Righi e me s’astrenze o cheu, / veddo a lanterna, a cava, lazù o Meu…… » Fondamentale è però, per comprendere questo stato d’animo, di Bollorino, a metà strada tra malinconia, tristezza, solitudine, regrette, forse rimpianto, è studiare a fondo Jean Starobinski. Questo straordinario medico ginevrino scomparso 5 anni fa, saggista, critico letterario, storico della medicina e più in generale delle idee, premiato nelle più antiche accademie europee, aveva iniziato con una tesi di laurea proprio sulla malinconia (Histoire du traitement de la mélancolie, 1960). Ecco, il modo di essere e di affrontare la vita di Francesco Bollorino mi è apparso più chiaro dopo aver riletto “L’ encre de la mélancolie” del medico ginevrino. Si badi bene, non la maledizione divina della “bile nera” (la mélainé-cholé), l’atrabile degli Ippocratici, una pura invenzione degli asclepiadi adatta a spiegare collera o mestizia, riflessività, natura fredda e tenebrosa, generate da questo potente “umore”, all’origine di sofferenze e disordini del temperamento, ma che certamente suscitava una fertile sensibilità artistica e creatività intellettuale. Tuttavia i suoi giudizi non sono mai indulgenti, anche se arguti e piacevolmente ironici. «Gli psichiatri curano ultimi che non saranno mai primi, gli psichiatri rubano i sentimenti dalla bocca della gente, gli psichiatri, a una certa età, si fanno crescere la barba, vanno a congressi uggiosi portando pantaloni di fustagno o di velluto col cavallo troppo basso e la collega con cui intrecciano romanticissime storie segrete di sesso assatanato, gli psichiatri fanno continue riunioni di équipe e hanno lo sguardo finto indagatore dietro occhiali da vero architetto, le psichiatre […] vanno a congressi soporiferi portando, sotto il braccio, pacchi di quotidiani una volta rigorosamente di sinistra, ora doverosamente radical-chic […] si realizzano “molto” nel loro lavoro, gli psichiatri e le psichiatre hanno almeno un matrimonio fallito alle spalle, gli psichiatri e le psichiatre cercano di parlare con voce impostata o, forse, tentano di impostare con voce parlata e sembrano sempre sul punto di dire qualche grande verità, in realtà pensano poco, come tutti, solo che hanno in grande spregio il darlo a vedere, […] a volte vorrebbero cambiare mestiere, gli psichiatri e le psichiatre hanno la mente triste, probabilmente è per questo che in comune tra me, che ho il cuore triste, e loro c’è solo una tristezza non condivisibile» (p. 47)

Il caso ha voluto dunque che anche io, pur avendo studiato medicina e fatto neuro-psichiatria abbia precedentemente frequentato una scuola di Teatro importante: quella di Pietro Sharov. Per questo ne apprezzo maggiormente anche i piccoli dettagli di videomaker, ma il fatto che sia nato 19 anni prima di lui, o lui 19 dopo di me, ci sta tutto e si vede. Per giunta, lui è sempre stato un ragazzo timido e il suo imbarazzo traspare eccome, ora che leggo – ricucendola come una storia clinica – la sua vita trasfusa in successioni temporali nel suo Summertime. Anche se abbiamo fatto lo/gli stessi mestieri/professioni, assecondato le stesse passioni irrazionali, entrambi rossoblù, il caso ha voluto che io seppur bolognese di nascita mi sia innamorato di Genova, fin da quando andavo a trovare il cugino Gianni, mio coetaneo, che i genitori avevano messo a studiare nel prestigioso Collegio Emiliani, a Nervi in via Provana di Leyni, l’ammiraglio sabaudo della battaglia di Lepanto. Questo mi ha indotto in un errore madornale, facendomi dare per scontate cose genovesi che devono essere vissute, come dire in lingua madre: il mugugno, la scontrosità, il fare burbero, la cultura dello scagno, il parlato pluritonale, una vicina di casa di mia suocera, a Roma, le chiese una volta “ma suo marito canta?” Parlavano in dialetto stretto tra loro, per sentirsi a Genova, e rigorosamente in lingua con le due figlie nate a Roma. È per questo che con mia moglie, in casa nostra, abbiamo sempre desiderato Genova, e io, in particolare, Francesco Bollorino, per esserci nato. Ma certo! la sua timidezza! Il suo imbarazzo, appena dissimulato, come quello di Govi nella “Buonanima” che chiede la fasciatura di un dito alla cameriera la quale risponde “Ehh! … neanche una spellatura!” Francesco, solo per un po’ figlio unico, di famiglia benestante, figlio di medico, si sente un bambino solo, imbarazzato, è anche un po’ timido, confessati a tratti, nel suo Summertime, come fossero anomalie psicologiche, derivanti da un presunto difetto di fabbricazione: una innocente “ginecomastia”. Il dramma personale inizia con l’agognata vacanza estiva da trascorrere al mare sulla battigia: «Ogni giorno andavo di buon’ora ai Bagni Punny prima che arrivassero i bagnanti e i molti amici che ospitavo regolarmente nella mia cabina […] Facevo il bagno e attendevo l’inizio della giornata di mare, seduto sulla sdraio, con addosso un corto accappatoio senza maniche, da cui non mi separavo mai in pubblico, che lasciavo sulla battigia prima di immergermi, che reindossavo di filato appena uscito dall’acqua, che ogni stagione mia madre mi confezionava per coprire, per nascondere la mia ginecomastia, […] la mia vergogna e il mio imbarazzo». Ho contato 6 volte la parola “imbarazzo”, riferito dall’Autore a se stesso, nel testo di Summertime. Prosegue poi alla visita di leva, allora obbligatoria: «Il Capitano medico scrive qualcosa sul foglio, poi, indicando le tette, mi chiede se son sempre state così, io arrossendo dico, con un filo di voce, che stanno diminuendo, è tutto grasso che sto smaltendo con diete e ginnastica… Abile avvocato, abile arruolato,“C 3”, giusto una tacca sopra un paralitico, sono riuscito nel mio intento di essere considerato normale…. Complimenti, diciotto mesi di marina ora non te li toglie nessuno!» (p. 43) Oggi verrebbe da sorridere vedere cristoni di calciatori, stazza extra large, tipo il marmoreo Romelu Lukaku, nazionale belga di Anversa, del 1993, esultare in campo dopo un goal, togliersi la maglietta ed esibire un reggiseno che si chiama “sport bras” il quale serve a registrare la performance atletica dei calciatori che li indossano, praticamente un Gps che registra tutto quello che succede e quello che il giocatore fa in campo.

L’incontro con l’analista, a lungo soppesato, tutto sommato mi sembra il colloquio che avrebbe potuto avere con una vecchia nonna, prima di tutto per sanare carenze affettive infantili. «L’analista mi ha fissato finalmente l’appuntamento per il primo colloquio, sono arrivato in largo anticipo […] mi sono messo il vestito buono come per andare a dar un esame. Le racconto, in rapido sunto, con gli occhi bassi ma senza apparente imbarazzo, la mia vita con i suoi contre e surcontre e gli ultimi miei guai affettivi, che mi hanno convinto, definitivamente, a risolvermi a chiedere una analisi, ora che lo stipendio di assistente mi dà una certa indipendenza economica; adesso la guardo in viso: no, non ho chiesto colloqui ad altri analisti; non ho nessuna intenzione di diventare psicoanalista, dimentichi che sono medico, dimentichi che sto specializzandomi in psichiatria, io desidero solo trovare un migliore rapporto con me stesso, perché, vede, io non mi voglio bene, soprattutto non mi piaccio e questo succede ogni volta che mi sento di nuovo ottanta chili». Una nonna, come non pensarci? La moglie di quel nonno importante e trascurato che stava in una tenuta con vigneti del “Piemonte-ligure”. Ma quasi tutti i genovesi importanti sono sempre venuti da fuori. Figurarsi dai contrafforti vicini come quelli L’Oltregiogo, un tempo appartenuti storicamente a Genova per cultura, economia, e interessi commerciali, ma oggi spartiti tra la provincia di Alessandria, e in piccola parte tra quelle del piacentino e del pavese. Non so se si chiamasse Francesco, ma l’ho cercato a lungo nel testo di Summertime, inseguendolo dietro un’esile traccia, niente da fare, ma infiniti dettagli da scoprire sul protagonista. «… non sono mai riuscito a provare qualcosa per le abitazioni in cui ho vissuto, non ho posti delle fragole, le cose hanno per me l’odore di un passato con cui non riesco a riconciliarmi, che provo a disattivare, che dovrei imparare a rispettare; odio solo la nostra tenuta di campagna per le estati da deportato che vi ho passato alle soglie dell’adolescenza, ombrosamente isolato e solo, con l’unica svogliata compagnia del figlio del Luigin, il nostro mezzadro, in fantasie a quattro mani su favolosi tesori nascosti in cascinali sperduti e irraggiungibili sulla collina di fronte, all’altro capo del mondo, che, nella vecchia casa del nonno sembrava, per me, avere i tratti di un aristocratico ingozzamento a base di annoiato pane e burro davanti al televisore che trasmetteva le Olimpiadi di Roma […], la luce del tramonto che filtrava attraverso le tapparelle abbassate, le gambe intrecciate sul bracciolo di una scomoda poltrona rococò. Quando si è piccoli le mappe del tesoro sono scritte dentro cuori di vetro che solo la ruminazione infeconda di genitori distratti o troppo lontani non riesce a vedere; ai ragazzi non mancano mai i desideri, difettano a volte gli strumenti per realizzarli.[…] Non ricordo di essere mai andato in vacanza con i miei, non perché escluso dalla loro vita ma perché partecipe coatto della loro esclusione dalla curiosità del mondo, vittima per molto tempo inconsapevole, per troppo tempo connivente di una malattia tanto diffusa quanto perniciosa: la mancanza di ricordi condivisi.» (p. 71)

Il mare. La sua strordinaria passione per il mare, mi ricorda il Sándor Ferenczi di “Thalassa”, che non credo sapesse andare per mare, ma la struggente tristezza di Francesco Bollorino mi rammenta le insufficienze affettive materne del medico ungherese rimasto orfano di padre in piena adolescenza. Questa carenza ebbe un ruolo importante nello sviluppo della sua personalità complessa e sofferente di “bambino precocemente saggio” (wise baby), secondo la definizione, che egli stesso formulò di se stesso. In altri termini precorre e anticipa quello che sarà definito ai nostri giorni, in senso cinematografico, un “deficit di accudimento“. Per i cinefili basterebbe citare il film “Habemus Papam”, di Nanni Moretti, Italia 2011, dove si vedono all’opera due celebri psicoanalisti (marito ed ex moglie Nanni Moretti e Margherita Buy) nell’intento di “curare” un Papa recalcitrante verso il suo arduo impegno, che forse, invece di andare in seminario, avrebbe voluto fare l’attore. Uno splendido Michel Piccoli, che “somatizza” in ogni modo la sua inadeguatezza: attacchi di panico, fughe improvvise, crisi d’identità, lampeggia tratti sindromici di Capgras, finché incontra una compagnia teatrale che porta in giro “il Gabbiano” di Cechov, ma gli si è impazzito “Trigòrin”, di cui il neo-Papa fuggitivo conosce benissimo la parte, ma non viene preso in considerazione… ecco, questo malaccoglimento familiare, secondo le tesi dei luminari della psicoanalisi consultati e sequestrati dal capo dei servizi del Vaticano, lascerebbe tracce indelebili sul carattere dei bambini. Nella citazione seguente entrambi i genitori dell’Autore di Summertime sembrerebbero peccare di complicità « … dopo la nascita di mia sorella: mio padre, che non sapeva bene come farmi digerire l’avvenimento e in ogni caso si riteneva in dovere di indorarmi la pillola, dal momento che per tutta la gravidanza nessuno si era peritato di spiegarmi perché la mamma era tanto ingrassata e, a volte, era rimasta a letto la mattina anziché prepararmi il caffelatte, pensò bene di portarmi alla “Fata dei bambini” di Galleria Mazzini lasciando libero sfogo, per una volta al di fuori delle feste comandate, alla mia fantasia; più tardi alla Clinica Internazionale, giù, nel posteggio, le scatole gialle vuote ammonticchiate sul sedile posteriore della FIAT 1400 B bicolore, sù, nella linda stanza della maternità, stretto tra le braccia un intero convoglio militare britannico completo di ambulanza, carro armato e automezzi di appoggio, mi fu presentato per la prima volta quel microbo nato settimino fasciato di bianco, ancora rosso in viso, io la squadrai per un po’ senza perplessità, poi con un’alzata di spalle commentai la cosa a beneficio del parentado in trepida attesa con un “intanto io rimango sempre il primo “gemito” e mi misi a giocare con le macchinine sul letto». (p. 13)

Una confessione troppo masochista – con fraseggi a frustate – mi pare il giudizio sui professionisti della psiche. «… gli psichiatri e le psichiatre hanno almeno un matrimonio fallito alle spalle, gli psichiatri e le psichiatre cercano di parlare con voce impostata o, forse, tentano di impostare con voce parlata e sembrano sempre sul punto di dire qualche grande verità, in realtà pensano poco, come tutti, solo che hanno in grande spregio il darlo a vedere, spesso non sanno cosa fare e a volte vorrebbero cambiare mestiere, gli psichiatri e le psichiatre hanno la mente triste, probabilmente è per questo che in comune tra me, che ho il cuore triste, e loro c’è solo una tristezza non condivisibile» (p. 47). Se penso alla mia vetusta promiscuità neuropsichiatrica, quando ancora la specialità non era così rigorosamente separata in due: psichiatri di qua e neurologi di la, dalla cosiddetta “Legge Cazzullo” del 27 aprile 1976, mi sembra di essere tornato alle elementari dell’abominevole “ventennio” dove i maschi e le femmine frequentavano scuole rigidamente separate. La Riforma Gentile “la più fascista” delle riforme come la battezzò Mussolini mi prese in pieno perché durò dal 1923 al 1962. Rammento che le piccole alunne, fin dalle materne, per me, erano un miraggio, confinate da un’altra parte della scuola a fare insieme alle “aste” i cosiddetti “lavori donneschi”, mentre noi maschietti, facevamo i “lavori manuali”. Proprio come nel vecchio manicomio proviciale romano di Santa Maria della Pietà, femmine a sinistra, maschi a destra, un medico di guardia pei maschi, uno per le femmine, ma con Massimo Marà ne venimmo fuori nel 1978 con la centottanta. Questo mi fa pensare di aver goduto, dopo la caduta del fascismo, anche di un lungo privilegio, con l’adozione scolastica della classi miste.

La generosità di Francesco, invece, è prodiga, cospicua e ubiquitaria. «Più tardi la televisione annuncia l’esondazione del fiume a Voltri e il mare di fango che ha percorso la vallata e si è schiantato conto il ponte portando vai tutto […] La mattina dopo di buon ora imbracciata la mia Exacta […] mi incamminai verso Voltri a piedi per […] immortalare di persona il disastro […] Arrivato all’imbocco della discesa che portava al centro della delegazione mi fermai a guardare in basso quel mare di fango che copriva tutto ma non il mio improvviso imbarazzo: mi vergognavo di avere la macchina fotografica in mano e tornai a casa incrociando molte persone che con un badile in spalla facendo il percorso in senso opposto stavano avviandosi a dare una mano un braccio e un cuore a quel quartiere distrutto […] … dissi a mia madre, attonita, che andavo a comperare un badile e che nel pomeriggio sarei andato a spalare. Un breve giro di telefonate mi permise di organizzare la squadra di compagni […] agivamo un po’ alla rinfusa dove capitava poi si concretizzò una certa organizzazione e alla mattina venivamo spediti, a volte dentro a bassi cigolati dell’esercito (figata pazzesca) a spalare dove serviva cercando di stare insieme tra amici » (p. 83).

Summertime è praticamente un diario intimo della primissima fase della vita di Francesco Bollorino, con riflessioni adulte che spesso inducono autoriflessioni e confronti. Ci fa così sapere che il padre ha partecipato alla “Campagna d’Etiopia” per delusione sentimentale «Non ho mai avuto romanticamente o disperatamente (dipende sempre dai punti di vista e dalle fitte al cuore) una guerra lontana dove fuggire da me stesso e dai miei fantasmi, come mio padre volato volontario in Africa Orientale per un amore finito e mai rimarginato completamente» (p. 82). Io ho avuto un fratello di mio padre, lo “Zio Peppino”, che andò volontario in Africa perché era disoccupato. Ai tempi di Mussolini, andare sulla “quarta sponda” era un modo come un altro per sbarcare il lunario, però mi ricordo benissimo di aver conosciuto giovani borghesi che si arruolavano nella “Legione straniera” suggestionati da “Beau Geste”, USA 1939, bianco e nero, 114 m., con Gary Cooper, doppiato da Emilio Cigoli, Ray Milland, doppiato da Giulio Panicali e Robert Preston doppiato da Gualtiero De Angelis. Io non correvo questo pericolo perché ai tempi della leva obbligatoria nei “tre giorni” avevo fatto di tutto per guadagnarmi l’ambito titolo di “RAM” (ridotta attitudine militare)!

Leggendo Summertime ho riconosciuto luoghi noti, persone familiari, oggetti e soprattutto «ricordi condivisi». Per esempio, «nel lavandino del bagno facevo il rumorista, con un po’ d’acqua, la bocca e le mani registravo il sonoro di incredibili western d’azione con sparatorie (mi veniva meglio lo sparo del winchester di quello della pistola), cavalcate e guadi e scalpiccii di destrieri» (p. 61), mi fa venire in mente il rumorista di professione, il Sig. Antonio Caciottolo, che ho conosciuto personalmente alla Rai e alla “Fono Roma”, coi suoi gusci di noci di cocco per riprodurre il rumore degli zoccoli dei cavalli. Più leggo e più mi si affacciano ricordi personali appartenuti ad altri, ma genovesi e dunque «ricordi condivisi».

Lo scirocco. Ho sempre provato una punta d’invidia per Bollorino perché lui il mare ce l’ha sotto casa a qualsiasi ogni ora del giorno e della notte, mentre io ci dovevo andare in treno, a Rimini o a Riccione, solo l’estate. «A volte il mare era veramente agitato e sorpassava, impetuoso, persino la Diga Foranea: la spiaggia allora si spopolava anche dei più temerari […] gli ultimi bagnanti giocavano a carte al riparo, al suono dell’ultimo successo del juke-box e seguivano, alzando ogni tanto gli occhi […] il ritmico tonfo esplosivo dei marosi, increspati di spuma bianca, che sollevavano spruzzi e nubi di goccioline che il vento portava in alto, riempiendo l’aria, dilatando l’acqua in cielo e il cielo in acqua in un universo confuso, in cui mi piaceva perdermi […] respirando a pieni polmoni quell’aria umida di salsedine che appiccicava i capelli alla testa, percorrevo la riva con l’acqua alle ginocchia, combattendo con la risacca che mi toglieva la sabbia da sotto i piedi e mi bagnava i pantaloncini di tela […] L’ora più bella era il tramonto, quando il sole formava, prima di scomparire dietro il Monte Beigua, bruno e lontano all’orizzonte, mille arcobaleni con le nubi di fumo umido sollevate dallo Scirocco» (p. 86). Cambiava anche il sottofondo musicale diciannove anni prima. Nella riviera romagnola – tra i morsi dell’autarchia e il furto dell’oro alla Patria – De Sica cantava “Tornerai”, Natalino Otto “Non dimenticar le mie parole” e una malinconica Alida Valli “Ma l’amore no”. L’ossessività nella riproduzione musicale di Bollorino si spiega con «Quando si è piccoli la musica è un rumore di fondo, uno dei tanti, difficilmente associato ai fatti della vita; l’unico motivo che ho ancora in mente è il Piccolo Montanaro, che con i miei compagni di sventura storpiavamo e stonavamo, all’unisono, nei lunghi pomeriggi di studio al pianoforte nella scuola di musica di Suor Maria Benvenuta, la mano più pesante del West, nelle stanzette dell’ultimo piano della torre del collegio» (p. 61) Chi non ha avuto da bambino una suora noiosa tra il metronomo e la tastiera per il solfeggio?

Il bagnino Giovanni. «In alto, sul pennone dei Bagni Punny, sbatteva la bandiera rossa di pericolo che il bagnino Giovanni aveva issato alla mattina [….], seduto nel terrazzo a cavalcioni di una seggiola, dopo avere ritirato tutte le sdraio e gli ombrelloni, il bagnino Giovanni, col mento perplesso appoggiato sugli avambracci abbronzati, ci guardava scuotendo il capo e bofonchiando, sotto i baffi grigi, rimproveri in genovese stretto […] un giro di telefonate, «Hai visto il mare?», «Ma non sarà troppo grosso?», «Onda lunga, fa anche la schiuma, ogni tanto. Grandioso!», «Che scusa racconti, tu?», «Alle quattro?», sembrava una cerimonia, ci si sentiva quasi dei toreri in slip». Come dicevo, noi dovevamo montare sul treno e fare più di 130 km, loro, i genovesi, bastava che si svegliassero presto e avevano anche il bagnino che metteva la bandiera rossa. «Ci lasciavamo trascinare dalla risacca, scivolando, a pancia in giù, fino al gradino di sabbia dove l’acqua batteva fragorosa, infilandoci proprio sotto l’ondata che ci sorpassava massaggiandoci la schiena, per riemergere più al largo, trasportati dalla corrente limacciosa con cui dovevamo lottare, aspettando un momento di maggiore calma per tornare a terra a ripetere il gioco, agitando i piedi all’impazzata per restare a galla in un continuo saliscendi, ora sulla cresta ora nel seno precipitato tra marosi che strozzavano in fondo alla gola riarsa dal salino l’urlo di meraviglia […] a volte, un po’ per fatica, un po’ per eccesso di confidenza l’indispensabile sincronia cronometrica dei gesti si inceppava e, presi dal gorgo, venivamo scaraventati a riva dal mare e a casa dal bagnino Giovanni stufo di preoccuparsi per noi […] i ragazzi più grandi, che se ne fottevano dei rimproveri del bagnino Giovanni e che, tante volte, avevamo studiato, bevendo Oransoda al salsoiodio seduti sulla scaletta di legno che portava alla cabine, a guardare le loro imprese.» (pag. 78) Il burbero bagnino Giovanni mi ricorda quello di mia suocera, la leggendaria “scià Griffi” della spiaggia con ciottoli levigati di Cornigliano, ai piedi di Castello Raggio, fine anni Venti, del secolo passato, che involontariamente fece da paraninfo. Mio suocero, che non sapeva nuotare perché troppo impegnato a studiare Chimica con Giulio Natta, di cui era coetaneo, gli aveva domandato chi fosse mai quella sfrontata temeraria che nuotava con la bandiera rossa e il “bagnino Giovanni” dell’epoca rispose «Quella? Ma l’è ‘a scià Griffi, a peu!» A Genova un “bagnino Giovanni è per sempre!

«Ogni vita ha il suo Soundtrack» (p. 60) Ho lasciato in fondo le mie considerazioni sulla “colonna sonora” della pellicola cinematografica, quella bucherellata che gira avanti e indietro nella moviola, due oggetti di culto di Francesco Bollorino. Non sono competente, ma conto di leggere i suoi raffinati tecnicismi, quando li incontrerò, a due compagni di lavoro della sincronizzazione cinematografica: Franco il fonico del mixaggio e a Gianni il montatore, che incollava gli anelli per il doppiaggio. A mio avviso, Franco e Gianni sicuramente apprezzeranno la nota 7 di Summertime «Metodo di biamplificazione passiva, priva di crossover elettronico interposto tra pre e finali […] si può inviare un segnale musicale identico proveniente dalle uscite sdoppiate del preamplificatore a due finali di potenza […] che vanno, rispettivamente, ad alimentare gli altoparlanti della sezione bassi e della sezione medio-acuti delle due casse. I finali […]vengono usati, inviando, due segnali destri o sinistri, per alimentare una singola cassa […]con lo stesso tasso di guadagno per evitare sbilanciamenti tra le due sezioni […] in funzione di un interfacciamento ottimizzato e timbricamente più seducente …» Il regno dei predetti era lo “Stabilimento Santini”, davanti la “Fono Roma”, storica sigla di doppiaggio, fin dal 1929, a Palazzo Corrodi, in fondo a Piazzale Flaminio, affaccio Lungotevere Arnaldo da Brescia. Un secolo fa iniziò come studio privato di Trilussa, ossia Carlo Alberto Camillo Salustri, poeta romanesco. Una volta, per dirla breve, c’era il video e la colonna sonora internazionale, col parlato, separato dalla musica. La parte audio di un film, composta da parola (dialogo), rumori (effetti sonori) e musica con eventuale cantato, riprodotta da segnali luminosi da un lato della pellicola cinematografica che, letti dal proiettore, si trasformavano in suoni. Ogni colonna andava lavorata separatamente e alla fine mixata in un mastodontico apparecchio, per il prodotto finito, nelle mani di un fenomeno, che pareva un direttore d’orchestra. Oggi, è cambiato tutto. Il doppiaggio si fa per telefono col PC via mail. Sparite le sale doppiaggio, per dire, alla “Fono Roma” c’è un ordine professionale. La stagione leggendaria della sincronizzazione delle voci in sala con lo scorrere del film intero negli anni Trenta o con lo spezzettamento in “anelli” di pellicola tagliata, è sparita da un pezzo. Se n’è andata con tutti i protagonisti, grandi, piccoli, minuscoli. Difficile dire cosa sia successo nel mondo del doppiaggio negli ultimi vent’anni. Certamente i costi sono divenuti insostenibili, ma lo stragismo come arma politica internazionale, la smisurata sperequazione della ricchezza mondiale, l’aumento rapido del termometro della terra e la fuga generale dalle aree depredate e invivibili del pianeta, forse hanno fatto passare la voglia di andare al cinema.

Isolotti. Panarea, la più piccola delle Lipari con un padrone che la sorveglia dal mare circumnavigando i 3,4 km quadrati di residui vulcanici ricoperti di macchia mediterranea, è splendidamente descritta da Francesco Bollorino, che c’è stato, con una malinconica e struggente pittura a guazzo: «I ricordi sono isole che emergono, a distanza variabile tra loro, nel grande, apparentemente placido, mare del dimenticato e noi passiamo la vita a collegare, con fili sottili e fragili, queste isole tra loro, per provare a dare un senso al nostro percorrere un tempo più o meno vissuto […] Spiaggia di Cala Zimmari, Panarea, esterno giorno, seduto sul terrazzino a palafitta del baretto accidentato che guarda la baia […] Il mare è limpido, la sabbia nera, il sole del sud a settembre picchia forte e abbaglia la meraviglia di un posto con cui non riesco ad entrare in sintonia […] Poco più in là, Barbara Bach prende il sole […] ere geologiche prima di Ringo Starr, ospite abbronzata della bianca villa del “Greco”, il padrone dell’isola, che la circumnaviga ogni giorno in piedi sul suo gozzo … » Finalmente si comincia a capire la copertina di Summertime. Anche per quelli come chi scrive che frequentando scuole di teatro, apprezzando una formidabile Monica Vitti e, per andare sul dark, Annie Girardot, poteva scegliere in loco, come fece. La conclusione di Bollorino è sempre malinconica, tuttavia mai lontana dalla sua realtà «Le vite degli altri incrociate con la mia, vicine ma irraggiungibili, film diversi, ricordi diversi, in comune il mare del rimosso che resta sempre lì, pronto a riemergere per ricordarci da dove veniamo […] Nel bene o nel male, questa è la vita». (p. 101-102)..

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