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Terapia psicoanalitica. Seminari

9 Apr 13

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In questo libro l'autore raccoglie alcuni dei suoi principali lavori scritti negli ultimi 10-15 anni; il filo conduttore dei vari capitoli è l'interesse per gli aspetti teorici e per lo sviluppo storico dei concetti. Gli argomenti dei capitoli sono i seguenti: il problema del trauma "reale" e il futuro della psicoanalisi, che fa da introduzione al libro (questo lavoro, in versione ridotta, uscì come "target paper" sul n. 5/1991 del Giornale Italiano di Psicologia, dove stimolò un dibattito con interventi di Giovanni Liotti [1/1992], Mauro Fornaro [1/1992], Giordano Fossi [1/1992], Giovanni De Renzis [2/1992], e Marco Casonato [3/1992], seguiti da una risposta dell'autore [5/1992]; in una versione ampliata uscì sul n. 60/1994 de Gli Argonauti col titolo "Trauma 'reale' e fantasie: considerazioni su alcuni sviluppi della psicoanalisi contemporanea"); le differenze tra la psicoanalisi e — rispettivamente — la terapia sistemica, la psicoterapia breve ad orientamento psicoanalitico, la psicoterapia psicoanalitica, e la terapia cognitiva (questa è una delle parti più importanti del libro, soprattutto riguardo ai seguenti due temi: la radicale critica teorica alle terapie brevi in cui espone una posizione originale, anche con chiari esempi clinici, e la differenza tra psicoanalisi e psicoterapia, concepite come sovrapponibili, seguendo la concezione "radicale" della psicoanalisi proposta dall'ultimo Gill [1984] al quale Migone fu molto vicino); la storia della teoria psicoanalitica dei fattori curativi (con un accenno al problema della schizofrenia); una esposizione chiara del concetto di identificazione proiettiva; gli aspetti descrittivi, storici e psicodinamici delle personalità borderline, istrionica/isterica, e narcisistica (questi tre capitoli furono originariamente scritti per il Trattato Italiano di Psichiatria a cura di G.B. Cassano, P. Pancheri et al. pubblicato dalla Masson nel 1992); il problema della "validazione scientifica" della psicoanalisi (in cui espone succintamente le posizioni del neopositivismo, di Popper, dell'ermeneutica, e di Grünbaum, con un maggiore approfondimento del contributo di quest'ultimo autore, e inoltre una storia, divisa in tre fasi, del movimento di ricerca in psicoterapia); la diagnosi descrittiva e i DSM dell'American Psychiatric Association, inclusa una presentazione del recente DSM-IV (va ricordato che fu Migone che nel n. 4/1983 di Psicoterapia e scienze umane introdusse in anteprima in Italia il DSM-III aprendo un dibattito sul problema della diagnosi e del rapporto tra psichiatria e psicoanalisi); la scuola di David Rapaport (con un profilo biografico e scientifico di Rapaport, Holt, Gill, George Klein, Schafer e Rubinstein). Alla fine del libro, messi come un'appendice, vi sono due capitoli "giornalistici", molto divertenti e interessanti, riguardanti due scandali avvenuti nella psicoanalisi: il caso Masson (ampliato e aggiornato al secondo processo, quello conclusosi nel novembre 1994), e la storia della causa legale degli psicologi americani contro il monopolio della della psicoanalisi da parte dei medici (entrambi questi capitoli contengono una breve nota scritta dai principali protagonisti di questi due processi, rispettivamente Jeff Masson e Bryant Welch).
E' un libro quindi che tratta argomenti diversi, che riflettono un percorso personale, uno tra i tanti possibili, caratterizzato dalla curiosità dell'autore e da uno spirito critico che non si accontenta delle frequenti stereotipie di certi settori della psicoanalisi contemporanea. Tutti i capitoli possono essere letti indipendentemente l'uno dall'altro, e vari riferimenti incrociati rendono facile la lettura (la raccolta di alcuni di questi lavori, in versioni precedenti, sono pubblicati integralmente su Internet).

Intervista a Paolo Migone

L'idea dell'intervista è nata, oltre che dalla lettura del libro, anche dall'incontro con l'autore stesso nella mailing-list: mi è sembrata una buona occasione per riproporre alcuni temi discussi anche con altri colleghi della lista, rendendone partecipi anche i lettori di POL.it.

Domanda: Ripensando al panorama della psichiatria americana, che tu tratti nel tuo testo ampiamente, desidero conoscere la tua opinione sull'attuale dibattito nel campo delle neuroscienze e in particolare sugli effetti che certa stampa di divulgazione scientifica rischia di produrre nell'immaginario collettivo. Anche l'enfasi scaturita dagli sviluppi del "progetto genoma", ha riproposto il problema della genetica delle malattie psichiatriche: la rivista Fortune ha divulgato recentemente una ricerca di psicologi dell'evoluzione dell'università inglese di St. Andrew secondo cui persino i gusti estetici degli individui non sarebbero frutto di un influsso culturale, ma determinati in base a criteri programmati nel cervello. Inoltre la tecnica del brain imaging tende a rappresentare l'attività delle aree cerebrali come una delicata trama meccanica neuro-ormonale, attraverso la metafora di un computer chimico analogico che elabora informazioni tratte dall'ambiente.
Come dice lo scrittore Tom Wolfe abbiamo ormai "un cervello senz'anima". Secondo questa ipotesi saranno le neuroscienze a dominare il nostro futuro anche in senso professionale?

Risposta: I progressi delle neuroscienze portano certi mass media a fare queste generalizzazioni, ma secondo me molti progressi delle stesse neuroscienze invece sembrano dimostrare proprio il contrario. Ad esempio Edelman, un autore che conosco un po', e come lui altri autori che seguono la stessa linea di ricerca (quella del darwinismo neuronale, o della biologia evoluzionistica), hanno ampiamente dimostrato che i geni non possono determinare molte caratteristiche dello sviluppo senza l'importante contributo di fattori ambientali. Questi fattori, come ha mostrato Edelman, agiscono persino già in utero, prima della nascita, e possono ad esempio portare a importanti differenze tra due gemelli mono-ovulari a partire dalla sola dislocazione spaziale delle cellule embrionali, la quale indurrebbe già uno sviluppo in una direzione piuttosto che in un'altra. Possiamo immaginarci quanto macroscopiche possano essere le differenze a seguito di fattori ben più potenti dopo la nascita (equilibrio psicoaffettivo, nutrizione, ecc.). Del resto era noto da sempre che i gemelli mono-ovulari, nonostante quello che dicono i sostenitori del ruolo determinante della genetica, non sono affatto uguali: uno ad esempio può diventare schizofrenico e l'altro no. Come spiegano questo fatto quegli psicologi dell'università inglese di St. Andrew citati dall'articolo della rivista (divulgativa) Fortune? La mia impressione è che certi giornalisti, comprensibilmente, deformino un po' le informazioni allo scopo di indurre un maggiore effetto emotivo sul lettore. I giornalisti sanno benissimo che l'Io di molti lettori è influenzabile da emozioni forti, e tende a non "rinviare le gratificazioni" del lettore, perché riflettere e ponderare le cose richiede un po' più di tempo e di fatica.

D: E' possibile, secondo te, formulare l'ipotesi che l'attuale crisi della psicoanalisi (in particolare negli USA) sia stata determinata dalla crescente spinta della cura dei disturbi psichiatrici con la psicofarmacologia? Alcuni autori, tra i quali ad esempio Torrey, autore di Surviving Schizophrenia, denunciano che l'adesione sempre più crescente a questo tipo di trattamento da parte degli psichiatri, anche se coadiuvato da tecniche psicoterapiche, in caso di insuccesso della terapia o di cronicità dei disturbi gravi (schizofrenia e altre psicosi), conducono nel tempo ad un abbandono del malato, ovvero favoriscono una sorta di "nichilismo terapeutico" dell'istituzione psichiatrica. Qual è la tua opinione?

R: E' certo possibile che una adesione acritica ed esagerata alla psicofarmacologia possa in seguito portare a disillusioni e a frustrazioni, con i rischi che tu ricordi. Ma a proposito delle oscillazioni del pendolo della psichiatria americana, permettimi di parlare liberamente, anche sull'onda di certi ricordi. Quando io lavoravo negli Stati Uniti, alla fine degli anni '70, si era in piena crisi della psicoanalisi. Era stata troppo gonfiata negli anni '50-'60, troppo usata come una ideologia che poi infatti è stata messa da parte con la stessa rapidità con cui è stata considerata una religione o una panacea. Alla luce di questo, io non ho mai considerato quella crisi della psicoanalisi americana come una cosa solamente negativa, ma anche come un aggiustamento di tiro. Non a caso mi sono appassionato del DSM-III per i suoi aspetti innovatori, di stimolo per la cultura psichiatrica nel suo complesso, compresa quella psicoanalitica, e volli presentarlo in anteprima in Italia aprendo un dibattito, che con una punta di provocazione scelsi di farlo proprio su una rivista di psicoterapia (Psicoterapia e scienze umane). Inutile dire che molti colleghi mi furono contro, ma quasi tutti quei colleghi che mi criticarono hanno in seguito abbracciato il DSM-III (o DSM-IV), e alcuni con la stessa superficialità con cui prima lo criticavano. Ma per tornare alla crisi della psicoanalisi, ricordo che a quei tempi a New York vi era quella che io chiamai la "moda dei pentiti" (era appena iniziato in Italia il fenomeno dei pentiti del terrorismo, che allora era un fenomeno nuovo). Ricordo che un caro amico, uno psichiatra italiano molto bravo che era emigrato a New York, e che aveva impostato tutta la sua carriera sulla psicoanalisi, aveva seguito una prestigiosa scuola di psicoanalisi, ecc., si era messo ad interessarsi quasi unicamente di elettroshock e di psicofarmaci, diventando peraltro molto bravo in questo settore. Erano in tanti che facevano l'abiura. Dicevano che non ci credevano più, che la psicoanalisi non serviva a niente, e così via. Del resto trovare un posto di lavoro con alle spalle un diploma di psicoanalisi era molto difficile in certe università (alla Columbia University, per esempio, che categoricamente non assumeva psichiatri con un diploma di psicoanalisi — la Columbia, dove lavorava Spitzer, fu una delle fucine del DSM-III). Il motivo per cui ho voluto ricordare questi tempi è che adesso mi sembra che si incominci a intravedere un fenomeno uguale e contrario: vi sono autori che si dichiarano pentiti (un esempio tra i tanti, John Strauss), autori che dopo aver combattuto gloriosamente (e molto seriamente) in tutta la campagna di guerra per il DSM-III, ora improvvisamente dicono che bisogna stare attenti, che la cultura del DSM-III può essere pericolosa, che vi è una "persona" dietro i sintomi, che questa "persona" può avere una influenza, un controllo sulla sintomatologia, per cui bisogna individuare strumenti clinici per rapportarsi a questa variabile. Strauss ad esempio, in una serie di articoli su riviste prestigiose (vedi ad esempio il suo articolo "The person-key to understanding mental illness: towards a new dynamic psychiatry", sul British Journal of Psychiatry, 1992, 161: 19-26), parla di "nuova psichiatria dinamica" (è ovvio che non è nuova, è sempre la vecchia psichiatria dinamica, ma la mia impressione è che Strauss sia costretto a dire che è "nuova" perché ancora non è del tutto "politicamente corretto" elogiare esplicitamente la psicoanalisi).
Per tornare alla tua domanda, ritengo che vi siano segni che l'onda della psichiatria antipsicoanalitica in USA si stia un po' rallentando, e questo già da alcuni anni. Ne è un piccolo segno che le domande di ammissione agli istituti di psicoanalisi siano aumentate di nuovo un po', dopo che per alcuni anni hanno rischiato di essere cancellate delle intere classi. Mi sembra poi che vi sia più rispetto per la psicoterapia, non viene così tanto liquidata con superficialità. Si accumulano sempre più dati di ricerca in favore dell'efficacia della psicoterapia, anche per disturbi gravi. E' vero, vi è la tendenza a dire che le terapie efficaci sono soprattutto quelle "cognitive", anche perché è soprattutto su queste che è stata fatta ricerca. Non solo, ma sono convinto (anche di questo ho parlato nel mio libro) che non ci vorrà molto tempo prima che sempre più colleghi si rendano conto che la terapia cognitiva e la psicoanalisi sono destinate ad avvicinarsi sempre di più, anzi, che molte terapie cognitive (come la tanto decantata Inter-Personal Therapy, o IPT, per la depressione, sulla quale abbiamo discusso in rete in un recente dibattito) non sono altro che terapie dinamiche, profondamente radicate nella tradizione di Sullivan e di tutta la scuola della psicoanalisi interpersonale (che oggi tra l'altro è maggioritaria nel movimento psicoanalitico). La IPT non è altro che una terapia dinamica semplificata (e, se vuoi, banalizzata) allo scopo di essere facilmente manualizzata e insegnata anche ad operatori paraprofessionali (perché saranno loro, non gli psichiatri, che in futuro dovranno praticare la psicoterapia, considerata sempre di più una bassa manovalanza dalla classe medica americana, un lavoro lungo e faticoso, fatto di tante ore poco retribuite, e non a caso svolto spesso da psicologi e assistenti sociali). Non solo, ma con l'esigenza della manualizzazione (comprensibilissima) la IPT è stata anche un po' banalizzata e peggiorata come tecnica: vedi, tra le altre cose, la direttiva a non parlare del transfert, cioè del rapporto col terapeuta, ma solo del problema che il paziente porta come possibile causa della sua depressione durante la settimana precedente (vorrei proprio vedere come fa un terapeuta a intervenire se il paziente gli dice che sta male per una cosa che gli ha detto il terapeuta stesso nella seduta precedente). Ma non vorrei andare troppo oltre con queste mie riflessioni libere, e preferisco sentire un'altra tua domanda.

D: Pensi che in Italia la situazione sia diversa da quella statunitense e ci sia maggior spazio per salvaguardare la relazione tra psichiatra e paziente? L'impressione (data anche delle discussioni della mailing list di psichiatria) è che anche qui è ormai tramontata la "fase eroica" della psichiatria (attuazione della legge 180, istituzione dei servizi psichiatrici, ecc.) e che prevalga tra gli psichiatri un diffuso senso di frustrazione, soprattutto per i problemi di organizzazione interna dei servizi, ma anche per le difficoltà che si incontrano nella pratica clinica (penso al tema della violenza del malato psichiatrico che oggi domina la cronaca nera, alla drammaticità del TSO, al ritorno dell'elettroshock, ecc.).

R: Mi sembra che la fase di grossa frustrazione e di sofferenza presso gli operatori psichiatrici italiani sia stata già assorbita negli anni passati, nel senso che l'onda alta è passata. Oggi (è sempre però una mia sensazione, e potrei sbagliarmi) molti psichiatri si attrezzano, studiano, imparano le "tecniche", ma in modo forse più equilibrato, meno ideologico, con meno quella "fame" che avevano dopo il periodo basagliano in cui vennero deenfatizzati gli aspetti tecnici della nostra professione in favore solo di quelli sociologici. Quella strategia aveva il fiato corto, ed è per questo che c'è stato un grande riflusso, con una corsa affannosa (ma spesso altrettanto ideologica — vedi ad esempio quelli che nel mio libro ho chiamato i "militanti dello specchio unidirezionale" riferendomi ai sistemici della metà degli anni '70, molti dei quali erano reduci dal fronte basagliano) all'apprendimento delle tecniche (terapie brevi, terapia familiare, sessuale, ecc.). Adesso uno di questi approcci settoriali a cui viene data molta enfasi è la psicofarmacologia, come se esistesse solo questo tipo di approccio, e qui si possono notare dei residui di quella impostazione assolutistica, ideologica, a cui accennavo prima: alcuni psichiatri giovani, che si formano adesso in certi centri, rischiano di crescere con poca cultura psicoterapeutica.

D: Sempre pensando alla situazione italiana, quale modello di formazione professionale in campo psichiatrico pensi sia utile promuovere, anche alla luce di ciò che illustri nel tuo testo? Anche i problemi posti dalla "legge Ossicini", la 56/1989 (vedi sempre la discussione sulla mailing list), che partiva dall'intento di regolamentare la professione di psicoterapeuta attraverso il controllo degli Ordini Professionali dei Medici e degli Psicologi, mi sembra abbia aperto numerose contraddizioni attraverso una sorta di "frammentazione" di scuole e di indirizzi, che rendono ancora più difficile (rispetto ad un tempo dove la tecnica psicoanalitica regnava sovrana) acquisire un'identità professionale.

R: Non solo, ma un grosso pericolo della legge 56/1989, oltre a quello, come tu dici, di frammentare scuole e indirizzi, è quello di frammentare la professione dello psichiatra: da una parte lo psicoterapeuta, e dall'altra lo psichiatra "non psicoterapeuta", una figura che purtroppo esiste ma che in questo modo verrebbe legittimata. Si tratterebbe di uno psichiatra che sa dare solo farmaci e che è ignaro delle implicazioni del rapporto interpersonale. Ma a questo proposito, se mi permetti, vorrei riprendere parte di una E-Mail che mandai nella mailing list a proposito del rapporto tra psichiatria e psicoterapia.
Una collega aveva detto "che non si può sostenere una causa organica delle malattie mentali, ovvero che non è assolutamente dimostrato che le alterazioni umorali che possono riscontrarsi in una situazione psicopatologica X siano la causa della malattia stessa. Di conseguenza — continuava la collega — ritengo, che, almeno in teoria, qualsiasi patologia vada affrontata con strumenti psicodinamici". Le risposi che la malattia mentale è il prodotto di tante cause, anche biologiche, e in certi casi prevalentemente biologiche, per esempio posso iniettare una sostanza e provocare una psicosi tossica. Io penso che noi che ci interessiamo anche o prevalentemente di psicoterapia non dovremmo fare l'errore uguale e contrario di quegli psicofarmacologi che ritengono che "qualsiasi patologia vada affrontata con strumenti farmacologici", cioè non dovremmo essere riduzionistici. Infatti, se la mettiamo su questo piano, tutti sanno che ci sono malattie psichiatriche che hanno una chiara base organica, e che rispondono meglio ai farmaci che alla psicoterapia.
Ma ritengo che questo sia un modo sbagliato di impostare il problema. L'errore concettuale è vedere i farmaci e la psicoterapia (o l'organico e lo psichico, o la psichiatria e la psicoterapia) come contrapposti. Non esiste alcun fenomeno umano, alcun comportamento, che non abbia una base organica. Uno degli effetti della psicoterapia è ovviamente anche quello di provocare modificazioni "biologiche"; se l'ansia o la depressione diminuiscono, a queste si accompagna sempre una modificazione dei neurotrasmettitori (altrimenti diminuirebbero in modo magico, a meno che non aderiamo a una concezione dualista del problema mente-corpo alla quale ormai quasi nessuno aderisce più).
Il problema è prima di tutto avere chiaro che la farmacologia non è una "clinica", cioè non è "psichiatria". Il "metodo clinico" include una notevole complessità di variabili che non sono presenti nel laboratorio o negli studi su ratti in cui si esamina una sola funzione o valore ematico, né si può paragonare il paziente nel nostro studio a un cadavere sul tavolo autoptico. Se do un farmaco a un paziente metto in atto tutta una serie di operazioni complesse che agiscono a vari livelli nel paziente. Per farla breve: le prove scientifiche della complessità di queste variabili vengono proprio dalla seria tradizione scientifica delle ricerche farmacologiche controllate, vengono dal vituperato (secondo me ingiustamente) modello medico classico (che è estremamente sofisticato, anche se oggi va di moda criticarlo), dove per esempio si è visto che l'effetto placebo è di dimensioni impressionanti. La psichiatria classica sa benissimo che il farmaco agisce sempre sommato all'effetto placebo, non può essere isolato da esso: già questa affermazione, in nuce, contiene tutte le questioni epistemologiche relative al rapporto tra psichiatria e psicoterapia (contrapposizione falsa perché basata su termini impropri). "Placebo", schematicamente parlando, significa "psicoterapia", significa cioè massimizzare questo effetto, individuare quelle operazioni interpersonali che mettono in atto determinate cose e producono determinati risultati (Freud, che era un neurologo positivista, costruì la psicoanalisi proprio per portare avanti questo progetto ambizioso e sempre più sofisticato). E' in questo senso che lo psichiatra farmacologo quando lavora fa sempre psicoterapia, così come la fa il medico condotto. Quei farmacologi che trascurano le sottigliezze del rapporto interpersonale, oppure che non ci credono, ecc., badando unicamente ai milligrammi di questo o di quell'altro cocktail farmacologico, all'occhio dell'antropologo (ma anche della persona mediamente colta) appaiono con tenerezza come quei medici o stregoni di una volta che prescrivevano le code di lucertola o cose del genere, credendoci fermamente (del resto sappiamo che vi sono rispettabili psichiatri che prescrivono i fiori di Bach o certe medicine alternative, o le stesse vitamine, non a caso mai prescritte nei paesi anglosassoni perché sono inutili se un paziente segue una dieta normale). Certo, i pazienti migliorano un po' sempre, se non altro perché ottengono una razionalizzazione del loro disturbo, un inquadramento teorico che dà un senso al loro malessere, che li aiuta a dare un nome a certe cose (il fenomeno della psichiatrizzazione che dà a volte dignità alla cosiddetta "miseria quotidiana" — che però non è mai banale o normale, ma è specifica per ogni singolo paziente!), rassicurandoli perché viene spostato altrove (ad esempio sulla parola "depressione", sul nuovo nome, caricato di potenti fantasie che ovviamente non vengono analizzate) quel problema che era dentro di loro, che non aveva nome (o doveva rimanere rimosso in quanto doloroso ecc.). (Tra l'altro, il concetto che la terapia inquadra la malattia del paziente in una nuova cornice teorica appartiene alle vecchie tesi di Frank del 1961 sui fattori aspecifici). In un certo senso, la psicoterapia funziona secondo queste linee, compresa quella psicoanalitica, che dà un nome alle cose, le interpreta, le trasforma, ecc.: il problema è quale "narrativa" funziona di più (se quella che possiamo chiamare il "delirio farmacologico", tipo folie a deux, anche come rassicurazione magica, o altre narrative basate su significati esistenziali legati alla storia soggettiva del paziente e alla (ri)costruzione di senso – questo dipende anche dalla cultura del soggetto e dal suo assetto difensivo). L'importante comunque è la modificazione nel medio-lungo periodo. Non è difficile cambiare qualche paziente nel breve periodo, è molto difficile stabilizzare il cambiamento nel lungo periodo.
Faccio un esempio, che qui io voglio utilizzare per mostrare la complessità del rapporto tra psicoterapia e farmaci in una malattia così importante come la depressione maggiore (parte dei brani seguenti è ritagliata da un mio articolo intitolato "La ricerca in psicoterapia: storia, principali gruppi di lavoro, stato attuale degli studi sul risultato e sul processo", Rivista Sperimentale di Freniatria, 1996, 2: 182-238). Una recente review meta-analitica di Wexler & Nelson (pubblicata nel 1993 sull'International Journal of Mental Health e tradotta sulla Rivista Sperimentale di Freniatria, 1/1994) sulla terapia ambulatoriale della depressione maggiore, ha dimostrato che la psicoterapia risulta essere nettamente superiore ai farmaci: il 58% dei pazienti trattati solo con psicoterapia mostra un risultato positivo, contro il 46% di quelli trattati solo con farmaci, e la percentuale dei successi sale al 64% se la psicoterapia è combinata a farmaci; non solo, ma la superiorità della psicoterapia aumenta ulteriormente se si considera il numero dei drop-outs, che nei pazienti trattati solo con farmaci è più alto, e precisamente il 26%, mentre per i pazienti in psicoterapia i drop-outs sono il 14% e per quelli in terapia combinata il 28%. La maggiore efficacia della psicoterapia della depressione rispetto agli psicofarmaci è sottolineata anche dalla autorevole review di Lambert & Bergin (pubblicata nella quarta edizione, del 1994, p. 145, dell'Handbook of Psychotherapy and Behavior Change, la fonte più autorevole delle ricerche controllate sulla psicoterapia), i quali ammettono una superiorità degli psicofarmaci solo nella depressione endogena e nel breve periodo, ma non certo nel medio-lungo periodo; l'italiano Fava nel 1994 (vedi Rivista Sperimentale di Freniatria, 2/1995) ha anche avanzato l'ipotesi che i farmaci possano predisporre ad un aumento di recidive e alla cronicità. (Tutte queste cose non vogliono affatto dire che "la psicoterapia è meglio dei farmaci", ma sono solo valori medi, e sicuramente indicano che moltissimi pazienti vengono trattati in modo improprio – vedi il trattamento implicitamente "psicoterapeutico" in massa della popolazione sana con la Fluoxetina in USA e ora anche da noi). Questo solo per dire che nella clinica di una delle malattie più importanti come la depressione maggiore il rapporto interpersonale gioca un ruolo complesso e sicuramente importante. Il fatto che questo venga ignorato da molti psichiatri non riguarda la scienza medica (che è molto avanti), ma questioni che andrebbero esaminate dai sociologi della conoscenza, riguarda sacche di arretratezza culturale (una carente formazione che impedisce a certi colleghi di non essere consapevoli del ruolo dei fattori interpersonali) in paesi che hanno avuto uno specifico ritardo nella cultura psicoterapeutica e dove le ideologie hanno spesso imperato (come accennavo, prima quella antipsichiatrica nella sua versione antitecnicistica, poi quella degli "psicanalismi" settari – freudismi, lacanismi, kleinismi, junghismi, ecc. – di quei colleghi affamati di tecniche dopo il digiuno antipsichiatrico e che non davano mai i farmaci o li facevano dare da altri per non "sporcare il setting", poi quella dei "militanti dello specchio unidirezionale", ecc., ora quella – uguale e contraria – della dittatura farmacologica). Nei miei anni di lavoro negli Stati Uniti, dove c'è una cultura psicodinamica molto viva dai primi decenni del secolo, io non ho mai incontrato qualcuno che mettesse in dubbio l'importanza del rapporto interpersonale, della psichiatria dinamica, neanche tra i fautori del DSM-III (seguire un paziente con farmaci là per molti psichiatri vuol dire vederlo una volta alla settimana, quindi fare anche psicoterapia nel senso di cercare di affrontare i suoi problemi anche col farmaco "persona del terapeuta" – si ricordi anche che Spitzer, il padre del DSM-III, aveva lavorato come psicoanalista per otto anni a quattro sedute alla settimana!). In questo senso adesso, con le nuove norme per le scuole di specialità che impongono anche una certa formazione psicoterapeutica, è possibile che la formazione dei futuri specializzandi italiani migliorerà.
In conclusione, ritengo che lo psichiatra non possa non essere sempre anche uno psicoterapeuta, e lo statuto della categoria degli psicoterapeuti come separata dai non psicoterapeuti è, in ultima analisi, una minaccia alla identità "scientifica" della psichiatria come disciplina clinica.

D: Pensi che abbia ancora significato affrontare un training psicoanalitico didattico, dopo il caso Masson in USA (di cui parli nel libro) e in Italia dopo le complesse vicende della scissione della Società Psicoanalitica Italiana?

R: I problemi rimangono gli stessi di sempre. Quelli evidenziati da Masson (alludo ad esempio non tanto ad Assalto alla verità, ma al divertente libro Analisi finale, dove mette a nudo il problema del training) erano conosciuti da decenni. Per quanto riguarda la scissione della SPI e la nascita della AIPsi, la mia impressione dall'esterno, e da quello che mi hanno raccontato certi amici didatti della SPI, è che si è trattato anche del fatto che vari analisti volevano decentrare il potere, cioè accedere al ruolo di didatta. Secondo me è un errore parlare del problema della formazione psicoanalitica da una prospettiva di questa o di quella associazione. Esistono ottimi e pessimi analisti sia dentro che fuori entrambe quelle associazioni, e tante altre associazioni (in Italia esistono tante scuole indipendenti di psicoanalisi, e purtroppo tante di queste scuole indipendenti fanno a gara nell'imitare gli aspetti deteriori delle scuole da cui vorrebbero distinguersi, "scimmiottando" un po' la SPI, per intenderci). Un giovane interessato alla psicoanalisi oggi dovrebbe formarsi nella scuola che preferisce o che gli consiglia un amico di cui si fida, secondo anche la sua localizzazione geografica, fare l'analisi con una analista di sua fiducia, a qualunque associazione appartenga. Dovrebbe guardarsi in giro, seguire gli stimoli della sua curiosità, frequentare tutti i seminari, corsi e scuole che può e che lo attirano, anche in modo non formalizzato, scegliersi una scuola sulla base della sua preferenza e non per il fatto che è "approvata" dal ministero (sia perché oggi poche sono state approvate — in futuro tante lo saranno — e quelle che dicono che lo sono fanno pubblicità ingannevole, sia per non subire il ricatto di dover scegliere una scuola che magari è peggiore di una non "approvata" — spesso sono state approvate le scuole più raccomandate). Una scuola è utile soprattutto per non essere isolati, per avere stimoli, per respirare una atmosfera professionale, ecc. La formazione "vera" viene fatta quasi sempre da soli, attivandosi autonomamente. Se non si attivano meccanismi autonomi di crescita e percorsi individuali, non si diventerà mai dei buoni terapeuti.
Consiglierei a un giovane di incominciare una analisi se ne sente la necessità (ma assolutamente non per la formazione, perché altrimenti non sarebbe una analisi) con un analista di propria fiducia. Bisogna incominciare a vedere pazienti molto presto, anche se dicono di aspettare, e bisogna andare subito in supervisione (sempre con terapeuti di fiducia) una volta alla settimana. La supervisione verrà pagata con i soldi dei pazienti, e all'inizio ovviamente si faranno dei sacrifici. Ritengo che bisognerebbe cambiare supervisore almeno ogni sei mesi, e vedere più supervisori che si può, per conoscere diversi modi di lavorare e assimilare poi un modo proprio.
L'importante è non entrare nella logica delle scuole. Cioè non legarsi subito (e forse mai) a una sola scuola o approccio, ma mantenersi distaccati e critici, usando la propria testa. Spesso i tanti approcci si pongono di fatto come "paranoie culturali", che fanno un vanto di ignorarsi reciprocamente. Inoltre molte scuole hanno continuato ad esistere per motivi di sopravvivenza istituzionale. Tra l'altro, come una volta disse Galli, la psicoanalisi è una disciplina con caratteristiche curiose, se paragonata ad una specialità medica: nelle specialità mediche i docenti anziani e non al passo con la letteratura recente in genere vengono messi da parte, mentre in molti istituti psicoanalitici coloro che rimangono ancorati a nozioni antiquate, che non si aggiornano, ecc., spesso vengono nominati didatti, messi su in piedistallo, e chiamati "ortodossi"… Per un giovane, l'aderire subito a un approccio è quasi sempre una difesa, un segno di insicurezza. A mo' di provocazione, ti dico: io ho fatto tante cose, fatto tante scuole, mi sono diplomato in psicoanalisi negli Stati Uniti dove ho lavorato anni, ecc., e sono fiero di poter dire che non so ancora bene a che approccio appartengo (questo mi dà molta sicurezza), non solo, ma non so ancora bene cosa sia la psicoanalisi (e questo è un esempio di un modo "analitico" di procedere: se scopri definitivamente cosa è una cosa, quella cosa muore).

D: Parliamo ora del delicato problema dell'importanza della formazione analitica per un'aspirante psicoterapeuta. Una buona parte della psichiatria contemporanea (vedi ad esempio alcuni interventi nella mailing list) ritiene la teoria psicoanalitica obsoleta e la sua applicazione in campo clinico inutile se non dannosa. La psicoterapia può quindi essere a tuo avviso proposta come una "tecnica" da apprendere in tempi rapidi, e che altrettanto rapidamente deve produrre risultati per i sintomi del paziente, prescindendo dalle implicazioni personali (vissuti, storia personale, motivazioni, ecc.) del terapeuta?

R: Su questo problema ho delle posizioni che potrebbero definirsi radicali. Ritengo che la psicoterapia (intesa come non psicoanalitica) non esista, non possa esistere, e che esista solo la psicoanalisi declinata nei vari modi con cui ci rapportiamo al paziente. Uso quindi una accezione di psicoanalisi come teoria, non come tecnica, e questo tra l'altro per salvare le sorti di questa disciplina. La definizione di psicoanalisi che proporrei è quella di "analisi della relazione", cioè non tenere intenzionalmente il paziente all'oscuro dei possibili significati della relazione (o, se vogliamo, del transfert). Mi rendo conto che questo è un argomento complesso, ci vorrebbe più tempo per approfondirlo, e questa intervista è già molto lunga. Mi dispiace che siamo arrivati a parlarne solo alla fine. Mi limito a dire che la trattazione di questa problematica, cioè la identità della psicoanalisi e la sua differenza con la psicoterapia, rappresenta uno dei capitoli centrali del mio libro (il cap. 4 [vedi il dibattito in rete su questo argomento], ma anche il cap. 3, quello dedicato alla critica teorica alle terapie brevi, poggia su queste basi teoriche). Le idee che presento derivano sia dalle implicazioni del pensiero di Sullivan (che integrava la psicoanalisi non solo nella psicoterapia ma anche nella psichiatria) che di quelle di un autore recente a cui devo molto, l'ultimo Merton Gill (1984), in cui ho ritrovato, teorizzate in modo estremamente lucido e coerente, le idee in cui ho sempre creduto. In merito alla tua domanda, Gill diceva che non è possibile non insegnare la psicoanalisi a un giovane studente, in quanto non è possibile insegnargli ad ignorare il transfert in cui è comunque sempre coinvolto, e più lo ignora (cioè più fa "psicoterapia") più i suoi effetti agiscono senza che lui se ne accorga, aumentando quindi i danni e gli errori. Diceva inoltre che non si può insegnare la psicoterapia, perché non ha una chiara teoria alle spalle. La psicoanalisi va insegnata a tutti, e presto nel corso del training, e ciascuno la apprenderà secondo le sue capacità. Come vedi, queste posizioni hanno un aspetto rivoluzionario perché allargano molto la psicoanalisi, abbattendo barriere (mi viene in mente il patetico tentativo da parte di alcuni di differenziare psicoanalisi da psicoterapia psicoanalitica, e c'è chi cerca anche di istituzionalizzare questa differenza con appositi associazioni separate, dove l'elemento qualificante è il numero di sedute settimanali). Vi sono delle belle pagine di Gill (che — non dimentichiamolo — è stata una delle figure più importanti della tradizione psicoanalitica classica) in cui dimostra che lo psicoanalista "classico" in realtà funziona, senza rendersene conto, da psicoterapeuta manipolatorio, e viceversa che un terapeuta che analizza costantemente la relazione (cioè il transfert) fa analisi.

D: Dicevi prima che una analisi fatta per la formazione non è una vera analisi. In che senso?

R: E' problematico "richiedere" o "imporre" l'analisi, perché sarebbe essa stessa una operazione "antipsicoanalitica", cioè contraria alla stessa scuola che la richiederebbe (una analisi è tale solo se non viene fatta per scopi diversi da quelli dell'analisi stessa). Si potrebbe parlare a lungo su questo punto, ma vedi tutto il dibattito molto vivo oggi in USA sulle degenerazioni del training psicoanalitico, su certe "paranoie" presenti all'interno degli istituti psicoanalitici, ecc., che vede ad esempio Kernberg, neo-eletto presidente dell'International Psychoanalytic Association, molto attivo su questo fronte, come testimoniato anche dal divertente articolo pubblicato di recente sia sul sito Internet dell'IPA che sull'International Journal of Psychoanalysyis, 5/1996, "Trenta metodi per distruggere la creatività dei candidati degli istituti psicoanalitici", che esce anche in italiano (Gli argonauti, 1998, 76: 1-14).
La decisione di fare l'analisi dovrebbe essere lasciata ai singoli, e si dovrebbe solo promuovere delle iniziative per eventualmente farne nascere l'esigenza; tanto meno la si può imporre a chi appartiene a una scuola che non l'ha mai inclusa nei suo repertorio tecnico, e che ha diritto di continuare ad esistere, nella "galassia psi", a fare ricerca, ad esplorare eventuali strade nuove.
A proposito della problematicità della analisi "didattica", mi viene in mente un motto che spesso sentivo dire negli Stati Uniti: "la prima analisi per l'istituto, la seconda per te". Cioè la prima analisi era quella didattica, che era subita, fatta per la scuola, non del tutto autentica, piena di inquinamenti, ecc. (in certi casi anche falsificata), ma importante per ottenere il diploma, e la seconda finalmente per se stessi, per stare meglio, dopo che si è finita la scuola psicoanalitica, senza dirlo all'istituto, con un analista di propria scelta e indipendente. Dopo aver speso tanti soldi per la prima analisi, alcuni dovevano trovare anche i soldi per la seconda. Preferisco non fare commenti su queste cose e sulle loro implicazioni.

[Paolo Migone, Via Palestro 14, 43100 Parma, tel./fax 0521-960595, E-Mail <migone@unipr.it>]

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