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UBI MAIOR. Il tempo e la cura delle lacerazioni del Se

2 Apr 13

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L’ultimo libro di Roberto Speziale "Ubi maior.Il tempo e la cura delle lacerazioni del Se’" riprende ed approfondisce le riflessioni iniziate in ‘Colpa’ (1997) e in ‘Freud messo a fuoco’ (2002), temi cari all’Autore che trovano qui un loro ampliamento coerente ed unitario.

Sembra che con "Ubi maior" il cerchio si chiuda, dopo aver percorso gli assi concettuali portanti del discorso di Speziale-Bagliacca, che potremmo individuare come: la scissione, la persona dell’analista, lo scopo della psicoanalisi.

Su quest’ultimo punto, il libro apre con un’affermazione esplicita e, come e’ noto, non cosi’ scontata: la psicoanalisi deve curare.

Ma quale psicoanalisi e’ deputata a fare questo? Esiste forse una sola psicoanalisi o, dopo il suo iniziale big bang come lo definisce l’Autore, la psicoanalisi si e’ frantumata in mille particelle perdendo, o rischiando di perdere, il suo corpus teorico-clinico originario? E infine la frantumazione, possiamo domandarci, e’ scissione impoverente o le mille particelle possono creativamente portare il loro contributo?

La psicoanalisi deve curare, dice Speziale-Bagliacca, e curare significa tendere alla "ristrutturazione relativamente stabile della personalita’"; pur consapevole che il termine ‘ristrutturazione’ puo’ evocare fantasmi di rimaneggiamenti ingegneristici, l’Autore lo preferisce al piu’ blando ‘individuazione’ che appare forse piu’ rispettoso e politically correct ma rischia di non andare a mettere mano su cio’ che sta a cuore al nostro discorso: la psicoanalisi e’ cura delle lacerazioni del Se’ ed il suo scopo e’ portare alla luce le parti scisse della personalita’ del paziente.

Perche’ cio’ avvenga, occorre che l’analista entri come soggetto vivo e partecipe nella coppia analitica, non si senta il portatore di un’autorita’ da difendere a tutti i costi (ubi maior) rispetto alla quale le angoscie del paziente, persecutorie e percio’ negate e scisse, finiscono per essere escluse e sottratte alla compresione. Questo il cuore del libro: se l’analista si propone come un maior, negando inconsciamente i sottorivoli ideologici che inevitabilmente lo percorrono, non potra’ aiutare il paziente a ritrovare quell’unita’ del Se’ che sola puo’ garantire dai fallimenti terapeutici, dalle ricadute e puo’ considerarsi l’obiettivo di una guarigione analiticamente intesa.

I primi tre capitoli sono in qualche modo preparatori al IV, centrale nell’ossatura del libro ed interamente dedicato alla scissione.

Lo stesso movimento psicoanalitico e’ stato fin dalla sua nascita devastato da scissioni, forse inevitabili in ogni contesto gruppale: i primi allievi Jung e Adler non seguirono Freud, negli Stati Uniti hanno davvero proliferato le mille particelle, la rottura in Francia con Lacan, e via dicendo. La scissione, nella vita psichica individuale cosi’ come nel piu’ ampio contesto sociale, sembra in qualche misura fisiologica e non evitabile. Ma fino a che punto? Con il tipo di approccio gia’ utilizzato su altri autori che hanno fatto la storia della psicoanalisi, Speziale-Bagliacca intreccia il fil ruoge del testo con un’interessante rivisitazione del lavoro clinico e della biografia di Melanie Klein. Lavoro e vita personale – soprattutto nei pionieri, ma non solo – ricerca psicoanalitica ed urgenze interiori sono inseparabili; l’una influenza l’altra e viceversa, in un continuo interscambio drammatico talvolta ma sempre creativo.

Il movimento psicoanalitico e’ andato avanti, sulle fondamenta delle straordinarie scoperte di Freud, attraverso il contributo di altri che via via hanno chiarito cio’ che in precedenza era rimasto oscuro, ed era rimasto oscuro per i conflitti inconsci irrisolti di ciascun autore, su cui hanno poi lavorato i successivi, e cosi’ via. Si possono ovviamente giudicare gli autori solo con l’occhiale della Storia, ma e’ tesi importante del libro la constatazione che ciascun autore, per quanto geniale, porta in se’ un mondo interno conflittuale, le cui aree scisse lasceranno un’ombra nella sua teorizzazione, che sara’ compito dei successori individuare. Lo studio della biografia dei pioneri, come per il Freud di ‘Freud messo a fuoco’, e’ dunque parte integrante dello sviluppo delle teorie. Alla Klein, scrive Speziale-Bagliacca, e’ toccato un destino "doppiamente tragico: con alcune sue intuizioni introdusse il rigore e mise in crisi il clima maniacale in cui molti analisti del tempo lavoravano; su un altro versante, pero’, fu impedita dai suoi stessi conflitti non analizzati ad aprire un confronto profondo con se stessa che le permettesse di vedere i propri limiti, i propri errori e le proprie opzioni ideologiche".

Il capitolo II, Ubi maior, ripercorre alcuni passaggi dell’analisi della Klein con il figlio Erich, collocandoli sotto la doppia luce dell’importanza delle scoperte che ella veniva facendo in quel periodo da un lato, ma pesantamente oscurati, dall’altro, dai dinieghi stessi di Melanie e dalla sua insistenza, potremmo dire in termini non scientifici, a voler mantenere a tutti i costi una visione idealizzata della propria madre, Libussa. Risulta relativamente semplice oggi, per noi, comprendere come la Klein, identificata con una madre in parte ostile e rifiutante abbia agito gli stessi sentimenti verso il proprio bambino, ma costretta dal diniego a mantenere la madre dentro di se’ come oggetto ideale, non potendone riconoscere e dunque elaborare gli aspetti persecutori, abbia visto nella sola aggressivita’ del bambino, nel suo innato istinto di morte l’origine del male. Sappiamo che su questo dibattuto nodo della teorizzazione kleiniana interverra’ Winnicott, che rivalutera’ l’importanza dell’ambiente e della qualita’ della relazione madre-bambino, che invece la Klein, in virtu’ dei propri dinieghi, fu costretta a vedere sbilanciata tutta dalla parte della ‘cattiveria’ del bambino. Se vogliamo, e’ sempre per effetto di una scissione (in senso tradizionale orizzontale, forse, tra conscio e inconscio) che questa autrice, che da un lato capisce e teorizza l’importanza di tutto questo, d’altro canto ne e’ incosciamente vittima.

In riferimento a Winnicott e alla concettualizzazione del vero Se’, e’ interessante notare l’accento che ad esso pone Speziale-Bagliacca, quando scrive " Tutte le volte che lo teniamo nascosto, il vero Se’, non e’ per ‘custodirlo gelosamente’, ma per proteggerlo, che e’ cosa ben diversa. Lo teniamo separato dal resto della nostra personalita’ non per libera scelta ma perche’ siamo costretti: si tratta infatti di un processo difensivo inconscio".

Tornando alla Klein, non e’ l’oggetto totalmente buono o ideale quello che dobbiamo preservare, non e’ la madre Libussa totemicamente innalzata a divinita’; e’ solo salvaguardando l’oggetto reale, che e’ sempre un po’ buono e un po’ cattivo, che possiamo accedere, pur con tutte le nostre oscillazioni, all’unita’ del Se’ di cui parla questo libro.

Sebbene vi sia nella vita psichica una spinta necessaria verso l’integrazione, la Klein stessa riconosce che non e’ facile accettarla, e noi tutti sappiamo, dal lavoro con i pazienti e dalle nostre stesse emozioni, quanto sia piu semplice, in certi momenti, trovarci un nemico da odiare o qualcuno da idealizzare, quanto le soluzioni manichee siano sempre a portata di mano. Ci colleghiamo qui nuovamente al ruolo dell’analista.

Molto opportunamente, Speziale-Bagliacca e’ tra coloro che ritengono che la persona dell’analista, la sua personale stoffa (frutto anche di un lavoro e di un impegno non privo di sofferenza e che dura tutta la vita) sia una qualita’ essenziale al lavoro analitico: se non banalmente intesi, termini come tatto e tenerezza acquistano qui tutto il loro piu’ ampio e umano significato. Come il genitore, verso il quale il bambino vive inizialmente una totale dipendenza, l’analista ha la grossa responsabilita’ di usare questa dipendenza, che tutti i pazienti temono, non per incistarla ma per superarla, non per creare adepti (si pensi in particolare al pericolo delle analisi di training) ma come vettore emancipante. Scopo della psicoanalisi e’ accedere alla soggettivita’, laddove il percorso evolutivo non abbia consentito che cio’ avvenisse naturalmente.

Il fatto di menzionare l’autoritarismo implicito e sommerso degli analisti, e quindi di molti istituti di training soprattutto in passato, e’ a mio parere uno dei tratti piu’ significativi – e piu’ coraggiosi – del libro. E’ vero che pochi autori se ne sono occupati (Fornari in Italia, forse proprio per questo oggi relativamente poco frequentato), mentre al contrario, come scrive Speziale-Bagliacca "la psicoanalisi non dovrebbe tagliar fuori gli aspetti ideologici, ma approfondirli". Questo "tagliar fuori" non e’ proprio l’oggetto del nostro discorso, non si taglia fuori appunto per eliminare quello che non va, quello che non vogliamo o non riusciamo ad affrontare?

L’autoritarismo che impregna l’atteggiamento conscio o piu spesso inconscio del tipo di analista di cui stiamo parlando (questo "soggetto supposto sapere" di Lacan (Lacan J: "Ecrits", 1966, Paris (trad. it. "Scritt", Einaudi, Torino, 1974) che non accetta, o mortifica, il sapere del pz) non solo puo’ fomentare l’idealizzazione, ma e’ anche sottilmente colpevolizzante: e’ l’analista del tipo "lei mi vive come se….". La colpa e’ sempre del paziente, e’ lui che non va bene.

Speziale-Bagliacca si ricollega qui ad un tema che ha gia’ estesamente trattato, quello della Colpa (Speziale-Bagliacca R.: "Colpa", ed. Astrolabio, Roma, 1997). Al pari del genitore intrusivo e del medico che infetta la piaga, l’analista che satura lo spazio con interpretazioni colpevolizzanti, che impone seppur sottilmente la sua autorita’ impedisce che emergano quelle parti scisse, dolenti, che il paziente porta dentro di se’ e che stanno alla base del suo malessere, viene bloccata quella "discesa agli inferi" necessaria in un’analisi ben condotta dove l’analista non deve porsi ‘come se’ fosse il persecutore, ma come colui che accetta la proiezione e quindi in quel momento e’ il persecutore, e’ colui che fa davvero danno al paziente; in altre parole, deve prendere su di se’ la responsabilita’ di queste proiezioni. Talvolta, non si tratta neanche di proiezioni ma l’analista e’ davvero un oggetto nuovamente traumatico per il paziente.

Le parti scisse non riconosciute, sottratte al lavoro analitico non restano corpi estranei indolori per il paziente; spesso si ritrovano proiettate nella sua vita esterna, nei rapporti con il coniuge o i figli, o si ritorcono contro il se’ esponendo ad atti autolesivi, o vengono tenute a bada sotto l’idealizzazione, il diventar a propria volta analisti, in caso di colleghi, o dovendo ricorrere in seguito ad una seconda analisi, Il destino degli aspetti persecuori scissi e non portati al terreno analitico e’ variabile, ma mai indifferente; l’Autore ritiene questo esito la causa della maggior parte dei fallimenti analitici. Di nuovo ritroviamo un parallelo tra psicoanalisi dell’individuo e storia della psicoanalisi.

IL concetto di scissione, che come detto e’ centrale nel libro e che trova ampio spazio nel cap IV, non ha avuto una storia lineare in psicoanalisi. Speziale-Bagliacca lo introduce con l’ausilio di esempi tratti dalla letteratura (Wilde, Calvino, Stevenson..), dalla cinematografia, dalla Sonnambula di Bellini e, piu’ in generale, dalla vita quotidiana. Esempi grossolani e a tutti evidenti di scissione costituiscono l’anima stessa del dibattito politico, delle guerre, del tifo calcistico, di svariati fatti di cronaca nera dove si scopre che, a un certo punto, un padre di famiglia di tutto rispetto viene denunciato come pedofilo o assassino. La scissione e’ concetto che occupa la psicoanalisi ma anche la psichiatra in maniera trasversale, dalle prime intuizioni di Freud nelle isterie fino a Fairbain, autore a cui Speziale-Bagliacca dedica uno spazio particolare in quanto fu il primo, indipendentemente dalla Klein, a comprendere che la scissione in se’ non e’ malattia, ma che l’Io e’ sempre un Io scisso. Siamo tutti in misura diversa portatori di scissioni, in quanto e’ proprio uno stato schizoide alla base della vita psichica originaria e quindi l’Io (o meglio il Se’, concetto piu’ utilizzato nel testo) anche maturando, non abbandonera’ mai del tutto questa tendenza a scindersi, anche se dovra’ prevalere, per non diventare psicotici, una spinta all’integrazione.

La parte finale del libro e’ prevalentemente dedicata agli aspetti tecnici, sebbene il termine ‘tecnico’ mi paia qui leggermente improprio e riduttivo. Speziale-Bagliacca parla infatti di "strategie", altro termine poco amato dagli psicoanalisti perche’ rimanda a un certo fantasma di bellicosita’.

Strategie e’ da intendendersi non contro qualcosa, ma per qualcosa. Fanno parte della strategia – ossia quello stile, quel procedere interno che ogni analista ha o dovrebbe avere al fine di curare il suo paziente – strumenti che sembrano appartenere sia al bagaglio umano che a quello tecnico del terapeuta: avere coraggio, onesta’ intellettuale, saper aspettare anche a lungo, valorizzare le parti sane, creare un clima favorevole, non giudicante, che consenta la lenta emersione di tutti gli aspetti di cui il paziente e’ portatore, essere sempre pronti a mettersi in discussione e a una sincera autoanalisi.

Fra le strategie, Speziale-Bagliacca si sofferma in particolare sull’uso della reverie, particolarmente utile nelle empasse. Non la si puo’ evocare a comando, ma ci si puo’ allenare a stimolare in noi una capacita di abbandono, di sogno a occhi aperti, quello stato ‘ugualmente sospeso’ in cui puo’ sorgere un’immagine, qualcosa che ci aiuta, ci indica una strada, ci fa "ampliare un dettaglio", crea uno spazio potenziale tra noi e il paziente nel quale non dobbiamo abusivamente inserirci, ma attendere che il preconscio, autore delle reverie, faccia il suo lavoro. E’ importante sottolineare quello che gia’ acutamente osservava Freud, cosi’ citato da Blanton: "Lei e’ talvolta troppo ansioso con i suoi pazienti. (….) Lasci che vadano un poco per loro conto. Lasci che elaborino la loro stessa salvezza " (Blanton S. "La mia analisi con Freud" (1957), trad. it. Feltrinelli, Milano, 1974)

Se avviato nelle giuste condizioni, "laddove non vi sia stata un’eccessiva proliferazione di strutture psicopatologiche, il processo analitico e’ destinato naturalmente a sviluppare nel pz la funzione della consapevolezza, che e’ rimasta inconscia perche non e stata validata" (De Masi, presentazione del libro al Centro Milanese di Psicoanalisi, 2005

corsivo mio). Occorre tempo, la dimensione qui evocata del tempo chiude il libro, che si era aperto parlando di cura. Il tempo e la cura.

Concludiamo la visita, necessariamente incompleta, dentro questo libro ricco di spunti, che parla di psicoanalisi ma che costantemente la intreccia con la sociologia e i grandi temi della storia e che si puo’ pertanto leggere con differenti angolazioni, con un ultima riflessione su cui, personalmente, mi ritrovo spesso a interrogarmi. Il superamento della logica della colpa, il lavoro di integrazione della personalita’, il nostro lavoro sui pazienti, in una parola, non e’ senza prezzo, come non lo e’ stato per noi: accettare i limiti, nostri e altrui, fa cadere onnipotenza e idealizzazioni che pure tanto consolavano, distorciamo meno la realtà a nostro piacimento, siamo destinati a quel po’ di solitudine che deriva dallo scioglimento di certi legami e a rinunciare a certi rassicuranti conformismi. I pazienti temono l’analisi, avvertendo in cuor loro che acquisteranno ma perderanno anche qualcosa, patologico ma inizialmente prezioso, durante questo processo.

In un’intervista dai toni personali, Meltzer ebbe a dire: "Il mio sviluppo mi ha portato in questa direzione. Il mio bisogno degli altri e’ diminuito e anche la mia socievolezza, compreso il piacere di frequentare gli altri in un contesto sociale. Il mio bisogno di approvazione e’ sparito (….) Sono un isolato, perche’ mi sono messo nella posizione K e, di conseguenza, ho dei comportamenti che danno l’impressione di una certa freddezza o distacco o insensibilita’. Credo pero’ che il mio bisogno degli altri, per sentirmi sicuro, sia diminuito e che la mia sicurezza venga sempre piu’ da fonti interne, salvo per uno o due legami" (Fano Cassese S.: "Introduzione al pensiero di Donald Meltzer", ed Borla, Milano, 2001)

Speziale, dal canto suo, non poteva descrivere meglio il senso della responsabiltia tragica che con queste parole: "non ci facciamo illusioni, ma non ci tiriamo indietro".

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