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Vivere e morire. Un modello di intervento con i malati terminali

9 Apr 13

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In questi ultimi anni molti autori, psichiatri e psicoanalisti, hanno evidenziato come in un'epoca in cui l'idea dominante è quella di prolungare la giovinezza e la vita in una condizione di piacere e di benessere, la malattia, la vecchiaia, ma soprattutto il dolore e la morte siano fonte di orrore perché appaiono come esperienze cariche di significati esclusivamente deprivanti e negativi. Esiste quindi antropologicamente e culturalmente nella nostra epoca, un'incapacità ad accettare il limite biologico ed esistenziale della vita umana, che rende particolarmente difficile il compito di rendere il  più possibile sereno la parte finale dell'esistenza. Come ha osservato Norbert Elias nel saggio La solitudine del morente (1985) uno dei problemi più comuni della nostra epoca è costituito dalla nostra incapacità a prestare ai morenti l'aiuto e l'attenzione di cui hanno particolarment ebisogno nel momento in cui la possibilità dell'esistenza viene meno. Secondo questo autore, contrariamente a quanto sostiene lo storico Ariès (1977), la morte ha sempre costituito un ostacolo insormontabile per l'individuo. Il problema sociale della morte,  è sempre particolarmente difficile da risolvere, anche se le esperienze della morte possono variare da un contesto sociale all'altro, e modificarsi nella prospettiva storica. Questo testo dello psicoanalista Zapparoli, legato anche all'esperienza dei collaboratori che con lui lavorano nella funzione di orthotanasisti (orthotanasia è un concetto introdotto da Eissler in contrapposizione ad eutanasia), vuole riproporre il problema dell'assistenza di malaticronici come gli psicotici o i tossicodipendenti, ma anche dei malati di cancro e di AIDS che pongono agli operatori sanitari, ai familiari problemi sul piano psicologico e del comportamento di non facile soluzione. Il traitd'union che individua tra queste patologie è quello dello svilupparsinel mondo intrapsichico dei pazienti, di una area illusionale, che diviene poi modalità di accettazione del limite. In questo tipo di malato, sempre dolorosamente in bilico tra la vita e la morte anche se in modi diversi, attraverso l' illusione di immortalitàpuò costituire una difesa efficace dall'angoscia della caducità dell'esistenza. Freud stesso (1915) considerava che l'idea di immortalità ha lo scopo di ottenere la sicurezza assoluta di non dover soccombere a quelle forze distruttive che sono pronte ad ucciderci ed annientarci in modi anche peggiori della morte. Allo stesso modo il panico avvertito inrelazione alla consapevolezza di sentirsi mortale, come pure lo sgomento di fronte alla condizione di precarietà dell'esistenza non sempre può essere fronteggiato efficacemente quando l'evento-morte si preannuncia come reale. Il malato terminale pone dunque una contraddizione di fondo, non facilmente affrontabile sul piano teorico, perché le persone che si trovano ad affrontare la diagnosi di una malattia incurabile, quandochiedono di essere aiutate ad affrontare la morte nelle periodo terminale dell'esistenza,  ci pongono di fronte ad una realtà complessa e soprattutto ci costringono ad affrontare tal compito senza poter ricorrere a tutti i mezzi che siamo soliti usare nella pratica clinica. Ma la reazione di panico di fronte al limite è un elemento che accomuna diversi gruppi di pazienti, in modo diverso, così come il bisogno difensivo,di sviluppare un'area illusionale, di conseguenza. Per questo Zapparolie collaboratori propongono per gli operatori che sono impegnati nella assistenza dei malati terminali un percorso specifico di formazione che consenta una funzione di intermediazione tra i bisogni del morente e le necessità del mondo circostante.

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