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Volti dell’identità. Le scienze psichiche, l’altro, lo straniero

9 Apr 13

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Questo libro si intitola Volti dell’identità. Le scienze psichiche, l’altro e lo straniero il nuovo volume dei "Quaderni della Fondazione San Servolo", che raccolgono a cura di Mario Galzigna contributi, interventi, saggi discussi nell’ambito dei seminari veneziani che la stessa Fondazione dedica periodicamente ai temi più attuali e controversi dei nostri saperi e nostre pratiche mediche e psichiatriche, filosofiche e sociali.

Come vuole l’origine dei materiali da cui nasce, questo Volti dell’identità è un discorso polifonico, composito, segnato da preoccupazioni e orizzonti molto vari e diversificati. Eppure queste pagine risuonano intorno ad uno stesso motivo di basso continuo: quello del gioco, per dire brevemente, dell’uno e del multiplo, dell’io e dell’altro, del familiare e dello straniero, della ragione e della follia. Filosofi, psicoanalisti, etnopsichiatri tentano, in esse, di situare il loro fare e il loro pensare rispetto al comune problema del confronto con quel che ciascuna di esse ha escluso e marginalizzato nell’istituire il proprio canone, il proprio campo d’azione, la propria linea di forza.

Non che si debba intendere, dicendo questo, che in questo libro si parli dell’io e poi dell’altro io, del familiare e poi, accanto ad esso o lontano mille miglia, dello straniero. O, ancora, di quella salda e maestosa signora che è la ragione, e accanto a lei, abbigliata a colori sgargianti, di quell’altra chimerica creatura che è la follia. Non di questo si parla in Volti dell’identità, ma del fatto che l’altro non sta altrove che nell’io, che il familiare non ha mai in effetti espulso lo straniero, che la ragione non ha mai finito di rigettare, e dunque di essere assediata, da ciò che la sua instaurazione ha non tanto tagliato fuori come residuo irriducibile, ma, al contrario, sistematicamente costruito come termine in opposizione al quale disegnare la propria fisionomia. L’altro abita lo stesso.

 

Diffrazione di desideri

Sulla pluralità dell’io ha pagine molto belle Galzigna, che indaga l’insorgere di una consapevolezza e, ancor più, di una pratica antropologica, sociale, politica della pluralità del soggetto concentrando il proprio interesse molto a monte dell’epoca nostra, che di questi temi si è fatta tanto spesso interprete. Molto a monte, cioè, di quei maestri, Marx o Nietzsche o Freud, cui siamo soliti far risalire, con un automatismo culturale ormai logoro, la prima scintilla del rimbaudiano je est un autre, "io è un altro". Si tratta invece, nel saggio di Galzigna, del Seicento. Proprio il barocco è, infatti, quello stile, quell’epoca, quell’atmosfera di pensiero e d’esperienza entro cui qualcosa come la novecentesca alterità dell’io o la contemporanea disidentificazione delle identità sono state non solo intuite, ma coerentemente perseguite e radicalmente attuate in filosofia come in musica, in architettura come in diplomazia o in amore: "I desideri nel cuore dell’uomo — scrive uno degli alfieri del barocco e del suo gusto perennemente oscillante tra la maschera e lo smascheramento, Pierre Charron — sono un abisso infinito, diverso, incostante, confuso e irresoluto, spesso orribile e detestabile, ma ordinariamente vano e ridicolo."

Come negare l’affinità tra questa tonalità e la tonalità, l’incertezza, il manierismo istituzionalizzato e compiaciuto del nostro tempo? Altri direbbero, però, che i desideri umani sono forse orribili o ridicoli, ma tutt’altro che confusi e irresoluti. Che, anzi, essi obbediscono ad una logica a suo modo ferrea. Che, ancora, la loro molteplicità è solo apparente, e il loro significato, in verità, uno solo. Potrebbe obiettare così René Girard, ad esempio, la cui meditazione sul carattere mimetico del desiderio uno psicoanalista come Davide Lopez ripercorre attraverso vivide ricostruzioni e stimolanti accostamenti teorici: dal girardiano Teatro dell’invidia alle dinamiche transferali e controtransferali di freudiana memoria, alla nietzscheana volontà di potenza. Ogni desiderio, ci mostra Lopez attraverso Girard, in ultimo non fa che desiderare ciò che l’altro desidera, non fa che desiderare il desiderio dell’altro. Sicché è l’invidia, cui il recente volume shakespeariano di Girard è dedicato, a custodire la struttura originaria del desiderio (c’è bisogno di dire che Hegel, nella Fenomenologia dello spirito, non pensa altro che questo, e con lui il suo più acuto interprete Kojève, e, con Kojève i suoi diretti discepoli, da Raymond Queneau e Jacques Lacan?).

Ogni desiderio desidera quest’unica cosa che non è una cosa ma una relazione, o una relazione di relazioni. Desidera, cioè, il desiderio dell’altro. Mentre questo semplifica, per un verso, la natura del desiderio stesso, per un altro verso però ne moltiplica l’evento: ne sfrangia il profilo in un’irresolubile diffrazione, ne disperde il nocciolo in un gioco di specchi privo di sostanzialità, di consistenza, di radice. Privo, cioè, di origine. Questo, infatti, suggerisce Galzigna nella sua introduzione alla raccolta, Multum in parvo, studiando i quattro celebri sogni romani di Freud e mostrando come un’altra interpretazione, o un altro metamodello interpretativo sia possibile al di là di quello che Freud stesso ne offre (nell’Interpretazione dei sogni), riducendo ogni desiderio a semplice ripetizione, calco, più o meno pallida copia di quel desiderio originario e sostanziale cui solo spetterebbe, in verità, questo nome: il desiderio edipico. Un’altra interpretazione è possibile, si diceva, ed è quella che fa del desiderio, deleuzianamente, un’istanza plurale, mobile, capace di essere ogni volta di nuovo e interamente se stessa senza necessità di rifarsi ad origini, paradigmi, archetipi la cui fondatività è in effetti tale sempre e solo après coup.

Donne, criminali, libertini

Sono invece dedicate ai complessi percorsi dell’identità femminile, all’impatto che sulla sua dimensione corporea esercitano le rappresentazioni dei media e il moltiplicarsi degli innesti del tecnologico sul biologico le stimolanti, rapide pagine che Silvia Vegetti Finzi scrive sul Corpo-macchina. Come gli imperativi dell’immagine si ripercuotono sugli equilibri di corpi che, siamo soliti pensare, hanno una loro naturalità che non può essere integralmente infranta pena la distruzione? Come la medicalizzazione sempre più pervasiva del corpo — maschile e, forse ancor più, femminile: a scopo terapeutico o, più spesso, preventivo o correttivo o estetico — ne sollecita, ne mette in questione, e ne cancella, al limite, l’immemorabile, forse chimerica dimensione di naturalità?

Donne, criminali, libertini: uno dei percorsi portanti di questi Volti dell’identità. L’ironia dell’accostamento ha, oltre che il plauso dei misogini, una sua serissima necessità teorica. Si tratta, infatti, sia nel caso della donna, sia in quello del criminale e del libertino, di altrettante figure antropologiche situate a margine di quell’ipostasi che la religione, poi la metafisica, la politica, le scienze hanno da sempre voluto al centro dell’agorà: l’uomo, o il cittadino virtuoso, il maschio europeo o, ancora, il bianco anedonico e, per quanto possibile, amico della verità e dell’ordine di cui essa è garante, sentinella, giudice.

Del libertino si occupa un secondo testo di Galzigna, che ricostruisce con minuto rigore la complessa, sfumata genealogia d’idee che, nel volgere di un secolo circa, tra Settecento e Ottocento, ha fatto slittare i connotati di questa figura dall’ideale umanista di un uomo capace di esprimersi con libera spregiudicatezza, realizzando se stesso al di là degli angusti confini delle idées reçues (Diderot), al sacerdote e sperimentatore instancabile dei limiti dell’umano e del male, del dolore e del sangue come esperienze sovrane (Sade), sino al malato preda di passioni erotiche ingovernabili, di "monomania istintiva" e di "furore genitale" (Esquirol), e al perverso i cui eccessi esulano dalla giurisdizione di qualsivoglia pratica medica, psichiatrica, pedagogica, per rientrare semplicemente, e inesorabilmente, in quella poliziesca (Lunier).

Del criminale, del criminale contemporaneo, per dire così, del criminale quale si incontra nella prosa quotidiana e desertica delle carceri scrive, invece, Gemma Brandi, una psicoanalista impegnata sul campo, come si usa dire, al cui intervento si deve una testimonianza cui poche volte capita di avere accesso (e che, proprio per questo, avrebbe forse necessitato maggiore dettaglio). La testimonianza, cioè, dei carcerati stessi, dei conflitti e delle ragioni di cui è intessuta la loro vita: tanto più nascosta, impercettibile, inimmaginabile quanto più eccentrico, efferato, eclatante è il gesto che l’ha consegnata alla custodia severa o feroce delle mura. (Non è forse questo che mostra la Vie des hommes infâmes, uno dei testi più radicali e struggenti di Foucault, quando sostiene la perfetta congruenza e identità tra i due estremi paradossali — l’infamia intesa come macchia criminale, socialmente esorbitante e scandalosa, e l’in-famia come grigia assenza di gloria, come oblio forzoso cui quest’ultima viene condannata dalla società che ne sia stata trafitta?)

In cerca di Psiche

Sono dedicati invece alla Cina e all’Africa due dei saggi più densi e stimolanti di Volti dell’identità, quelli di Giangiorgio Pasqualotto e di Roberto Beneduce rispettivamente. Una comune domanda è sottesa ai due contributi, pur nella loro diversissima impostazione, pur nelle loro peculiari, specifiche conclusioni. Entrambi sono, a loro modo, in cerca di psiche.

Hanno i cinesi qualcosa come una psiche, un’interiorità, un’anima nel nostro senso, nel senso di noi europei? La questione, se riferita a quell’ambito filosofico ed esistenziale che è il buddhismo, ha una sola risposta, mostra Pasqualotto: non ce l’hanno, e per loro fortuna. Non ce l’hanno, perché la sostanzialità del soggetto, per dire rapidamente, è solo un idolo occidentale, un’ipostasi falsa e pericolosa da cui la Cina (e l’India e il Giappone storici) sono rimasti indenni.

Un’ipostasi falsa perché, argomenta Pasqualotto, incapace di innalzarsi (poche ma grandissime, qui dove il sole tramonta, le eccezioni: Spinoza, Nietzsche) alla comprensione della non sostanzialità dell’io, del suo carattere puramente relazionale, della sua natura di labile, evanescente evento di senso. Non un’orgogliosa statua di marmo, come spesso la metafisica greco-cristiana ha voluto credere, ma un’umile nodo che si stringe e allenta di continuo nella trama molteplice e cangiante del divenire del mondo e degli altri. L’io orientale è, apprendiamo, anicca e anatta, privo di sé e privo di permanenza. Consapevole di questa sua vitale mobilità e labilità, non teme l’evento che ne costituisce il transito essenziale e la necessaria metamorfosi: non teme la morte. (Insostenibile è invece la morte per una cultura — in questo senso, si diceva, pericolosa oltre che falsa — dell’io: essa diventa contraddizione assoluta di senso, paradosso la cui logica destina il soggetto ad uno statuto melanconico che in occidente è, vien fatto di dire, condizione ontologica ancor prima che situazione esistenziale o congiuntura biografica.)

Infine: hanno gli africani un’anima, o un’esistenza interiore, o una vita psichica? No, ha risposto a lungo l’Europa dei colonizzatori, degli schiavisti, e dei ricercatori più solerti nel servirne le ragioni economiche, politiche, storiche. No, e per loro chiara inferiorità, pensava ad esempio Carothers, lo psichiatra americano (tra l’altro non il più ingenuo e unilaterale tra i suoi colleghi) noto per avere equiparato la mente di un africano medio a quella di un europeo medio lobotomizzato. Nessuna vita interiore, per i figli d’Africa, ma un’esteriorità fatta di passioni intense, slanci sconnessi, bambineschi entusiasmi: nel 1914, l’autorevole "Journal of Nervous and Mental Disease" poteva infatti compitamente asseverare che "il negro è irresponsabile, spensierato, facilmente portato a gioire, e la sua infelicità è transitoria, scomparendo come quella di un bambino quando altri interessi attraggono la sua attenzione…".

Tale è il quadro all’interno del quale la psichiatria, storicamente, ha iniziato a confrontarsi con il tema della "black depression", cioè della possibilità o meno che, all’interno delle culture e delle etnie africane, si dia qualcosa di analogo alla melanconia, al lutto, alla depressione europee. Ciò che Beneduce dimostra, rifacendosi ad un vasto lavoro etnopsichiatrico di cui è stato anche diretto protagonista, è, se ce ne fosse stato bisogno, proprio questo: qualcosa come una vita interiore è ben riscontrabile anche nelle culture africane; e tra le molte sfumature di cui essa è intessuta non manca quella che noi chiameremmo malinconia. Che noi chiameremmo in questo modo; ma che le culture africane definiscono in tutt’altri modi: "il cuore diventa debole", "il cuore non è a riposo", "la testa è legata", "il cuore è due due, è doppio"….

Le culture africane somatizzano, si è spesso ripetuto a questo proposito, e non psicologizzano. Salvo che, osserva Beneduce, ciò è vero solo rispetto al pregiudizio psicologistico europeo (che, quindi, nel dire quel che dice tutt’al più descrive se stesso, non certo l’altro). Le culture africane non somatizzano affatto, a voler essere rigorosi, e, comunque, non più di quanto esse psicologizzino: i due decorsi di senso si danno congiuntamente, prendendo significato l’uno dall’altro, o non si danno affatto. Ma quale statuto assegnare, allora, al tormentoso sforzo con cui l’etnopsichiatria ha riconosciuto, là dove vigeva l’assunto di un’Africa priva di psiche, qualcosa come un’interiorità e, pur tra ripetute e imbarazzate virgolette, una vita "psichica"? Accade come se l’etnopsichiatria, per affrancarsi da una certa costellazione di premesse razziste e positiviste, tentasse di restituire dignità a ciò che aveva svilito, ma attribuendo l’Europa stessa proprio a ciò che non è Europa, a ciò che merita di essere compreso juxta propria principia. Sono forse le insidie di questo sempre possibile inciampo ermeneutico che l’etnopsichiatria di oggi è chiamata a pensare con sempre maggiore rigore, pena, mi pare, il fraintendimento teorico di un lavoro empirico e terapeutico in sé assolutamente ammirevole.

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