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Allucinazioni uditive che ci perseguitano o “voci” interiori che ci arricchiscono? Il “Preludio e fughe” di Saba

28 Ago 23

A cura di Sabino Nanni

La persona “normale” (che non necessariamente è anche sana) di solito scaccia dalla mente i residui di esperienze passate inquietanti. In individui fragili ed in circostanze sfavorevoli, le “voci” di chi ci parlava all’inizio della nostra vita ritornano sotto forma di allucinazioni uditive. Ciò dipende dalla violenza con cui l’individuo espelle dalla mente tali tracce mnestiche. Il Poeta, con la sua sensibilità e le sue tendenze riparative, aiuta la persona più sana a recuperare queste esperienze antiche, sotto forma di “voci” che metaforicamente ci parlano dal nostro mondo interno. Quel che sarebbe potuto diventare motivo di sofferenza diviene, così, fonte di un arricchimento interiore di cui le persone “normali” di cui parlavo più sopra si privano del tutto. Ciò è molto ben illustrato nella serie di poesie “Preludio e fughe” di Umberto Saba.

Preludio – pag. 351
Oh, ritornate a me voci d’un tempo,
care voci discordi!
Chi sa che in nuovi dolcissimi accordi
io non vi faccia risuonare ancora?

L’aurora
è lontana da me, la notte viene.
Poche ore serene
il dolore mi lascia; il mio e di quanti
esseri ho intorno.
Oh, fate a me ritorno
voci quasi obliate!

Forse è l’ultima volta che in un cuore
– nel mio – voi v’inseguite.
Come i parenti m’han dato due vite,
e di fonderle in una io fui capace,

in pace
vi componete negli estremi accordi,
voci invano discordi.
La luce e l’ombra, la gioia e il dolore
s’amano in voi.
Oh, ritornate a noi
Care voci d’un tempo!

[Il Poeta, ricordando gli anni giovanili in cui la sua vita interiore non era ancora sopraffatta dal dolore e dalle perdite, sente risvegliarsi, al proprio interno, “voci” quasi dimenticate: le voci di una emotività giovanile, sensibile al dolore ed alle ombre dell’esistenza e, al tempo stesso, capace di contrapporvi, quale accento discordante, quelle animate dalla gioia e dalla luminosità di una vitalità sana. Da chi lo mise al mondo, il Poeta ebbe in dono la capacità di vivere due vite, senza fuggire dall’una o dall’altra: quella immersa nel mondo esterno, e quella di un’esistenza interiore intensamente vissuta, oltre che la facoltà di fonderle nell’accordo armonioso della Poesia, così come fuse in sé stesso le vite, alquanto discordanti, della madre e del padre: la prima, pervasa da pessimismo, la seconda di ottimismo e di gioia di vivere infantile. Le “voci discordi” in cui si esprimono la gioia e il dolore, le luci e le ombre della vita convivono in lui in un incontro fecondo.]

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Prima fuga (a 2 voci) – pag. 352
La vita, la mia vita, ha la tristezza
del nero magazzino di carbone,
che vedo ancora in questa strada. Io vedo
     per oltre alle sue porte aperte il cielo
azzurro e il mare con le antenne.
Nero
come là dentro è nel mio cuore; il cuore
dell’uomo è un antro di castigo. È bello
il cielo a mezzo la mattina, è bello
il mar che lo riflette, e bello è anch’esso
il mio cuore: uno specchio a tutti i cuori
viventi.
Se nel mio guardo, se fuori
di lui, non vedo che disperazione,
tenebra, desiderio di morire,
cui lo spavento dell’ignoto a fronte
si pone, tutta la dolcezza a togliere
che quello in sé recherebbe. Le foglie
morte non fanno a me paura, e agli uomini
io penso come a foglie.
Oggi i tuoi occhi
del nero magazzino di carbone,
vedono il cielo ed il mare, al contrasto,
più luminosi: pensa che saranno
chiusi domani. Ed altri s’apriranno
simili ai miei, simili ai tuoi…

[Come già preannunciato nel “Preludio”, il Poeta traduce in versi le due voci che avverte in lui: quella, più antica, della gioia infantile di vivere, dell’ottimismo, della sensibilità alla bellezza; e quella, prevalente nella vecchiaia, del dolore per le perdite, del disperato pessimismo che sembra sopprimere il valore di tutto ciò che è bello nella vita. La prima è la voce dell’Eros, della fiducia nella vita che continua; l’altra è quella di Thanatos: la voce della consapevolezza della precarietà delle cose, del dolore che non riesce a trovare conforto neppure nella morte. Qui persino la dolcezza del ritorno nel grembo materno è soppressa dallo “spavento dell’ignoto”: dalla minaccia di un castigo intollerabile (eppure estrema protezione) di ritrovarsi del tutto impotente, in una situazione in cui la risorsa della consapevolezza e quella della capacità di capire non esisterebbero più.]

… La vita,
la tua vita a te cara, è un lungo errore,
(breve, dorato, appena un’illusione!)
e tu lo sconti duramente. Come
in me in questi altri lo sconto: persone,
mansi animali affaticati; intorno
vadano in ozio o per faccende, io sono
in essi, ed essi sono in me e nel giorno
che ci rivela…

[Con gli occhi del pessimismo e del realismo spietato, il Poeta vede solo, intorno a sé e in sé stesso, una lunga sequela di sbagli, di deviazioni dal proprio progetto esistenziale, di frustrazioni. Ma subito la voce della sensibilità e dell’ottimismo trae, da questa stessa constatazione un motivo di conforto nella solidarietà, che egli avverte, per questo dramma che lo accomuna ai suoi simili e a tutti gli esseri viventi]

… Pascerti puoi tu
di fole ancora? Io soffro; il mio dolore,
lui solo, esiste. E non un poco il blu
del cielo, e il mare oggi sì unito, e in mare
le antiche vele e le ormeggiate navi,
e il nero magazzino di carbone,
che il quadro, come per caso, incornicia
stupendamente, e quelle più soavi
cose che in te, del dolore al contrasto,
senti – accese delizie – e che non dici?

[Ecco qui un secondo, decisivo motivo di consolazione che illumina il quadro a tinte fosche, dipinto dalla voce del pessimismo: per contrasto col dolore della perdita, e al fondo del dolore stesso, il Poeta ritrova in sé le cose più soavi e deliziose. Si tratta delle tracce del “Paradiso perduto”, l’allontanamento dal quale è causa di ogni sofferenza umana; tracce che possono essere riscoperte, come parte del mondo interno, risalendo alle origini del dolore.]

……………………………….
lasciami assomigliare la mia vita
– tetra cosa opprimente – a quella nera
volta, sotto alla quale un uomo siede,
fin che gli termini il giorno, e non vede
l’azzurro mare – oh, quanta in te provavi
nel dir dolcezza!
– e il cielo che gli è sopra.

[Ogni manifestazione poetica di dolore esprime, implicitamente, la dolcezza di quel che si è perduto]

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Seconda fuga (a 2 voci) – pag. 354
L’ultima goccia di dolcezza esprimi,
anima stanca e muori. Oh, nella mia,
di fresco nata, tu degnassi pia_
mente passare!
Un dono tu mi stimi

ben grande! Che se a me tu lo facessi,
    come una nuvoletta i rai del sole,

    t’accoglierei nel mio seno. Non vuole
questo il destino; ed io, se pur potessi,

non lo farei. Perché così m’affliggi?
Perché t’amo. Di amarmi dici, e il dono
    di te non mi faresti.
Chiedi un dono
che sarebbe un castigo. Oh, me lo infliggi!

Anima fanciulletta, anima cara,
ecco prendi di me quel che tu puoi.
    Io prendo tutto: la dolcezza, e poi,
    che più mi piace, la tua essenza amara.

[In questa seconda fuga, è più chiaro che le due voci provengono dagli oggetti interni: la    

voce della madre, pervasa da pessimismo e da spietato realismo, e quella del bambino (che fu anche quella del padre) in cui domina la gioia di vivere infantile. Qui il bambino   esprime il desiderio d’avvicinarsi alla madre, d’entrare nella sua vita intima. Vorrebbe darle, in cambio, la sua freschezza infantile. Tuttavia, per la genitrice, è un atto d’amore il suo tenere il figlio lontano da lei: ha un pessimo rapporto con sé stessa e con la vita, e non vorrebbe coinvolgere il bambino, corromperlo. Gli propone di prendere, di lei, solo quel che può giovargli. La risposta del bambino, divenuto Poeta, è che lui prende tutto: non solo la dolcezza della madre (che lei stessa non vede) ma anche e soprattutto la sua “essenza amara” che egli riscatterà con la sua Arte]

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Quarta fuga (a 2 voci) – pag. 357
Sotto l’azzurro soffitto è una stanza
meravigliosa a noi viventi il mondo.
A guardarla nei cuori la speranza

e la fede rinasce. Da un profondo

carcere ascolto. Tutto in lei risplende,
nuovo ed antico: ogni vita al suo cammino
prosegue lieta, e ad altro più non tende
che ad esser quale ti appare…

… io dentro una segreta
mi chiusi, dove l’un l’altro tortura
nell’odio e nel disprezzo. E chi ti vieta
d’uscirne, e qui goder con noi la chiara

luce del giorno? Oh tu, che troppo sai
farti del mondo una bella visione,
hai mai sofferto di te stesso? Oh assai,
oh al di là di ogni immaginazione!  

[Qui la voce dell’ottimismo e della gioia di vivere sembra, in un primo momento, quella del bambino ingenuo, cui basta lo splendore di una bella giornata per suscitare in lui una gioia fatta di niente. Ad essa si contrappone la cupa voce materna, che guarda il mondo da un “profondo carcere” (il suo mondo interno) in cui dominano presenze tormentose (i suoi oggetti interni) legate fra loro da odio e da disprezzo. La risposta della visione gioiosa della vita si rivela tutt’altro che infantile ed ingenua: qui parla l’uomo maturo che, avendo vissuto fino in fondo la sofferenza interiore (il dolore della perdita), ha recuperato interiormente ciò che ha perduto: la capacità, da parte delle cose belle del mondo, di “far rinascere la speranza e la fede”, ossia il contatto con l’oggetto interno idealizzato. Ecco come un uomo vivente e sano tende ad essere “come appare”, ossia tende a superare il tormento interiore ed a sentirsi tutt’uno con quel che di vivente e sano c’è nel mondo esterno. Ecco il motivo per cui l’uomo maturo, con la sua recuperata capacità di gioire, può sembrare un bambino]

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Quinta fuga (a 2 voci) – pag. 358
M’ascolta, voce fraterna, m’ascolta
voce perdutamente un giorno amata:
io t’odio e con la mia ti “devo” spegnere.

Tu m’ami ancora, tu m’amerai sempre,
tu mi sarai sempre congiunta. Forse
una certezza che non provi ostenti,
forse t’illudi. Nei tuoi cari accenti
altro mai non udivo che me stessa,
me stessa ed il lontano mio avvenire;

m’erano cari per questo. Non altra
cosa in “noi” t’era cara, altro più eterno
in me non ascoltavi? Troppo scaltra
tu mi risuoni, e troppo antica; io sono
l’acerba primavera.
Ed io l’autunno,
il tardo autunno. Amo i paesi strani,
i mari azzurri d’isole fioriti,
………………………………………
… Restare,
andare – tu non sai? – sono una cosa.
Tutto è sempre in un punto che paurosa-
mente circonda lo stesso infinito.
Il vecchio stanco ed il ragazzo ardito
Sono anch’essi una cosa?
Un aureo anello,
che nel suo giro mirabile ha unito
il principio e la fine. Ed io il principio
sono di un’altra primavera; io “sono”
la primavera.
Ed io l’autunno; un tardo,
un dolcissimo autunno. E quando a sera
il cor d’occulta nostalgia si sface,
vorrei lasciarti, fuggire.
Con pace
lasciami dunque; sotto l’ingiallito
fogliame parlerò sola a me sola.
Ecco, al pianto m’inclini; ecco, tu sola
spegni in me la mia forza. Oh, non è giusto
che in te io spenga la tua debolezza?

Come potresti? Da me nell’ebbrezza
Ti slanci, e in me ricadi. E, se non menti,
dirai che m’ami. Quando i tuoi accenti
mi sono cari, è perché in essi ascolto,

credo ascoltare il mio avvenire. O il nostro,
invece, il nostro lontano passato?

[In questa poesia parlano le voci di due generazioni. Quella giovanile esprime l’urgenza d’affermare la propria esistenza autonoma, la propria originalità. Per far questo, le occorre uccidere il rapporto di sudditanza verso la generazione precedente (qui rappresentata chiaramente dalla madre), ed annullarne l’autorità. Nonostante cerchi di trasformarlo in odio, l’amore, tuttavia, persiste. Tenta, quindi, di convincersi d’aver amato, nella genitrice, soltanto quel che vedeva di sé stesso in lei: ciò che, nello sguardo materno, preannunciava il suo avvenire. Vuole inoltrarsi nella vita, scoprire nel mondo cose ed esperienze nuove, lasciandosi alle spalle la sua infanzia. Ma la voce materna gli fa presente che la meta ultima di ogni viaggio non è altro che un ritorno. È un viaggio che s’intraprende per l’ebbrezza delle nuove scoperte, ma lo slancio di questo salto s’esaurisce, e si ricade inevitabilmente a terra, al punto di partenza. L’avvenire, in ultima analisi, non è altro che un ritorno al lontano passato in cui non esisteva un “io”, ma soltanto un “noi”: soltanto un tenero abbraccio che rendeva il legame con la madre indissolubile.]

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Settima fuga (a 2 voci) – pag. 371
La vita,
che d’altre vite si nutre, o è fugace,
o tace,
pauroso arcano, la sua propria meta.
Sapessi almeno, non triste e non lieta,
giungere, in pace con me stessa, al giorno
estremo

Io tremo
quando tu parli, io tremo d’ogni cosa.
Il mio cuore è una piaga dolorosa
aperta.

Esperta
io di mali, pur vivo ansia dell’ora
che ancora
deve arrecarmi il più grande. Un amore
mi nomava alla gioia, ed il dolore,
solo il dolore, è quello che mi ha fatta
matura.

Oscura
è ancor più la mia sorte, e disperata.
Tale sei divenuta, io sono nata
tremante.

Amante
delle forme immutabili, a me intorno
il giorno
con la sua guerra, con i suoi piaceri
la notte, mi fa l’oggi ognor dall’ieri
diverso, e cosa in tanto moto ferma
non trovo.

M’innovo
con onta. In triste vicenda infinita,
quante vite per vivere una vita
divora!

…………………………………..
Siamo prese nel turbine, infelici
sorelle; e penso che una colpa è stata
il nascere.

Il nascere,
come il vincere, è contro gentilezza.
E la pietà di chi soggiace spezza
il cuore.

Orrore,
pietà, di lacerarmi fanno a gara.
Amara
sono ad altri e a me stessa… Eppure in fondo,
nell’intimo dell’essere, profondo
più del dolore, hanno stanza pensieri
celesti. 

Ridesti
anche in me sono. È come se oltre il folto
del bosco a un tratto m’apparisse il volto
del cielo.

Il gelo
Si scioglie al fiato della primavera,
la nera
terra discopre di germogli piena.
Tale è l’anima mia sotto la pena.
Che mi vorrebbe ad essere felice?
Osare.

Mi pare
ch’io lo potrei. Ma nell’attimo sento
che un più dolce rifugio è il mio tormento
antico.

…………………………………………

S’innova
Ogni vita per altre in lei distrutte;
di tutte
una non v’è che dica di sì atroce
legge il modo d’uscire. E quanto nuoce
n’è caro, ed anche noi l’incerta vita
amiamo. 

Restiamo,
per meglio amarla, in questo ascoso porto.
Qui nessuno può toglierci il conforto
di piangere.

[Le due voci che qui parlano sono quella della maturità consapevole e quella della disperazione. La prima, temprata da esperienze dolorose, pur accettando l’ineluttabilità della separazione e della perdita, continua a nutrire un sentimento d’amore per la vita che si rinnova; sente che, per immergersi completamente in questa ed essere felice, le basterebbe osare. L’altra voce vive esclusivamente di nostalgia e, nel tormento antico del distacco dall’oggetto d’amore, trova un rifugio. Entrambe ammettono che, per sopravvivere (anzi, per vivere come individuo indipendente), occorre rinnovare continuamente quell’atto ostile, di separazione violenta (“contro gentilezza”) che è la nascita. Vi sono, qui, sottintese fantasie cannibalesche di matricidio: per uscire dalla simbiosi, occorre “uccidere” l’essere con cui si era fusi, e “divorare” la sua vita per sostenere la propria. Questo, tuttavia, comporta l’essere lacerati da sentimenti di orrore per l’atto compiuto e di pietà per la vittima. Per lenirli, non basta aver conservato “pensieri celesti”, ossia il ricordo del Paradiso perduto; occorre anche un “porto ascoso”, ossia un luogo protetto dalle influenze della vita che tenderebbero a banalizzare questo problema esistenziale; luogo che offre, indisturbato, “il conforto del pianto”. Si tratta della Poesia. Una considerazione di ordine clinico: qui il Poeta espone con un certo ordine quelle realtà interiori che, in alcune manifestazioni patologiche (segnatamente negli stati confusionali psicotici) si presentano come caotiche e apparentemente incomprensibili. In esse l’inconscio, con le sue caratteristiche peculiari, è come messo a nudo. In particolare, non esiste una successione temporale: l’atto del matricidio è continuamente rinnovato, come fosse costantemente in corso. Simultaneamente, e non successivamente, si avvertono i sentimenti di colpa e la consapevolezza della propria separazione. Simultanei e confusi sono anche i sentimenti ostili e quelli di tenerezza che portano a desideri riparativi: nell’inconscio, oltre che mancare l’ordine cronologico, non vige neppure il principio di non contraddizione. Alla persona comune, che ha espulso dalla coscienza quest’esperienza insopportabile, le manifestazioni dello psicotico appaiono incomprensibili. Non così al Poeta, o al clinico che alla propria sensibilità e alla Poesia sappia ispirarsi.]

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Ottava fuga (a 2 voci) – pag. 374
 Sono una fogliolina appena nata,
e intenerisco ai giovanetti il cuore.
Son la fresca vernice d’un vapore
che fischia per salpar la prima volta.

La dolcezza di muovermi m’è tolta,
se non è al venticello della sera.

Duolmi lasciarti, affollata riviera,
dove con esso anch’io venni ammirata.

Oh, potessi seguirti! Oh te beata
che “devi” rimanere! E tu, potendo,
non partiresti?
Non lo so. M’attendo,
come il giovane mozzo alla sua prima

prova, veder di grandi cose. In cima
del mio ramo attaccata, io ti saluto.

Io, se ritorno, quello che ho veduto,
ed altro ti dirò, foglia bennata.

[Le due voci rappresentano, qui, due momenti dello sviluppo: quello della simbiosi e quello dell’acquisizione della motilità, che implica la possibilità di separarsi dall’antico oggetto d’amore, decidere autonomamente dove stare, andare alla scoperta del mondo. Ciascuna delle due gode della propria situazione, ma soffre anche d’essere esclusa da quella dell’altra. Godere di entrambe non è possibile, se non con la Poesia e con la comprensione empatica di chi si trova nella situazione opposta.]

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Nona fuga (a 2 voci) – pag. 375
Cielo che splende dopo l’uragano
più terso;
bimbo che trova la materna mano,
ch’errava sperso;

tale io mi faccio, se da me il dolore
vien tolto;
e la felicità torna al tuo cuore,
e sul tuo volto.

Ma come un’ombra in me rimane, un mesto
Pensiero.
Anch’esso, credi, anch’esso come il resto
è passeggiero.

No, che in me potrà solo con la morte
passare;
sì che dovresti la tua umana sorte
ancor più amare.

Noi gli effimeri siamo, e siamo quelli
cui tocca
maggior grazia? Un mio bacio ti suggelli
ora la bocca.

Dov’eri, che più baci non mi davi,
fuggita?
Non sono quella che un tempo tu amavi,
la calda vita?

che più fugge chi n’è più disperato
amante;
che nel petto il suo artiglio t’ha piantato
più straziante;

che in me la voluttà, l’amore ardente
profonde;
e se ti lagni, oh come dolcemente
l’Eco risponde!

[Qui parla la voce dello sconforto, della consapevolezza che l’infelicità esiste e che è sempre possibile ricadervi; consapevolezza che permane anche nei momenti felici (il “mesto pensiero”, l’ombra che rimane anche quando il cielo è divenuto sereno). Ad essa risponde la voce dell’amore e della fiducia nella vita: quella che parla al bambino che si era perduto e che, ritrovando la mano della mamma, dimentica l’angoscia che aveva provato poco prima: è la voce di chi ritrova, in sé, l’oggetto interno soccorrevole. Questo, più che con le parole, con il gesto d’un bacio testimonia l’esistenza e la potenza dell’amore: una forza capace di dissolvere l’angoscia di fronte al carattere effimero della vita. – Viene qui in mente il bacio di Cristo al Grande Inquisitore, bacio che vale più di mille parole e che “tappa la bocca” a chi, fino a poco prima, aveva parlato della paura insopprimibile della libertà e della vita – La voce dello sconforto deve ammettere che l’oggetto interno soccorrevole è fonte di “voluttà, d’amore ardente, di calda vita”; ed anche nei momenti d’angoscia, di solitudine, chi ha orecchio per ascoltarlo può avvertirne la voce, come un Eco dolcissimo all’asprezza dei lamenti.]

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Decima fuga (a 2 voci) – pag. 377
Io che una tregua vanamente imploro,
sempre agitato da un intimo moto;
io che sempre ritorno, e ti percuoto
sempre, eppure non t’odio, antica sponda;

– ti sento come una carezza: l’onda
a me che fa? – la ferma tua quiete
oh quanto, io mare, invidio!
In mare liete
vivono l’onde; io solitaria esploro;

non vedi come e in quante vite io moro,
per ricompormi in lor sonoramente?
e alla mia noia immobile silente
nave alcuna da lungi più non viene.

D’essere un porto nostalgia ti tiene?
Già l’ero, e grande. E azzurro cielo ed acque
altro non vedi?
Il fanciullo cui piacque
a te sposarsi nel tramonto d’oro.

[Dialogo fra la vita nel suo pieno vigore (il mare) e la vecchiaia ormai spenta (la sponda cui ritorna sempre il moto delle onde). Sembra parlare la voce di un figlio ormai cresciuto, tutto preso dalla frenesia della giovinezza e dell’età adulta, con le sue gioie, le sue esperienze sempre nuove, e le sempre rinnovate perdite: “in quante vite io moro”. Egli invidia la “ferma quiete” (la stabilità, l’assenza d’imprevisti che possano turbare) della terraferma (la vecchia madre, la sua “sponda”). Questa, a sua volta, invidia la vivacità, l’apertura a sempre nuove esperienze gioiose o dolorose, il continuo movimento di chi è completamente immerso nella vita. A tutto questo fa contrasto la solitudine della persona anziana, che non può che guardare in silenzio, senza esserne coinvolta, la chiassosa vita dei più giovani. Questa “sponda” fu un tempo “porto”: fu la madre che accolse nel suo grembo, e poi tra le sue braccia quel fanciullo che un giorno la lasciò per prendere il mare, mentre iniziava il tramonto di chi l’aveva messo al mondo]

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Dodicesima fuga (a 3 voci: l’Uomo, l’Eco e l’Ombra) – pag. 381
Io sono l’Eco, e dai recessi azzurri
Del cielo la tua voce ti rimando.

Ma il fanciullo dov’è che qui esultando
corse a destarti, aerea meraviglia?

Dallo stupore inarcava le ciglia,
commosso udendo i tuoi suoni lontani.
E batteva di gioia anche le mani.
……………………………………….

Io del tuo corpo son l’ombra. Sull’erba
La tua forma ripeto ingigantita.
Non ti compiaci a mirarmi?
La vita
che ricevi da me, ripeti in strana

forma. E una cosa tu mi credi vana
perché ti riesco impalpabile? Eppure
esisto.
Esisti; ma le mie sventure
non provi. Anche tu a vuoto, Eco, sussurri.

…………………………………………

Di quante voci tu ascolti, più care
non ti sono le mie? Eco ripete
le tue parole. Se le dici liete,

liete le ascolti; se tu piangi io piango.

Discacciarmi non puoi; con te rimango,
io che nacqui con te. Ma fare io posso
che non mi veda. – Che non m’oda io posso
fare. – Egli tace. – Nelle dure membra,

grave in volto, dimora. – Sì che sembra
il demonio, che in fine è poi scornato.

……………………………………………

……………………………………………
Io sono un’ombra, vana cosa,

lo so, ma ad occhi mortali paurosa
anche talvolta.
E da me vuoi che ancora
di te mi meravigli?
…………………………………………..

Se t’accorgi di noi, questa è la prova
Che la vita non t’ha, Uomo, distrutto;
che sai ancora stupire.
Del tutto
a voi m’arrendo, amabili parvenze

di me stesso. E di molte amare assenze
consolarti sapremo.
Ed io in mercede
godrò sempre di voi, di voi che fede
tenete, da me nate ombre e sussurri.

[Il Poeta ritrova, in questo dialogo a tre, i suoi primi oggetti transizionali: l’Eco e l’Ombra. Come sempre è forte la nostalgia dell’epoca in cui scopriva il mondo, delle sue sensazioni infantili. Tuttavia non può fare a meno di pensare che egli, ora, non è più il fanciullo capace di provare meraviglia e di battere le mani dalla gioia udendo, nell’Eco, la sua stessa voce o vedendo le proprie fattezze riprodotte dalla sua ombra. Non può fare a meno di pensare che l’adulto che c’è in lui non sa più vedere gli oggetti transizionali come tali: qualcosa di “scoperto” nel mondo esterno e al contempo, paradossalmente, qualcosa d’inventato, ossia proveniente dal mondo interno. C’è, alla base di questo realismo, una delusione: l’Eco e l’Ombra sono soltanto “cose”, incapaci di provare i suoi stessi sentimenti, non in grado di offrirgli un sostegno empatico nella sventura. Nel realismo c’è anche un’esigenza di ordine difensivo: l’Ombra, talvolta, fa paura (l’effetto perturbante del vedere gli oggetti transizionali acquisire una vita propria e sfuggire al controllo: l’immagine allo specchio che diviene un sosia persecutore, come in Dostoevskij, le bambole che diventano esseri viventi malvagi, come in molti film. Tutto ciò rimanda alla sensazione di non esistere più). Tuttavia, da queste sensazioni e da questi pensieri, il Poeta trae una consolazione: se sa ancora avvertirli, vuol dire che la vita non ha ancora distrutto il fanciullo capace di stupirsi che c’è in lui; non ha annientato una vitalità della fantasia che lo fa ritrovare, nell’Eco e nell’Ombra, compagne fedeli, che lo consolano nei momenti di assenza di chi ama.]

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