La persona “normale” (che non necessariamente è anche sana) di solito scaccia dalla mente i residui di esperienze passate inquietanti. In individui fragili ed in circostanze sfavorevoli, le “voci” di chi ci parlava all’inizio della nostra vita ritornano sotto forma di allucinazioni uditive. Ciò dipende dalla violenza con cui l’individuo espelle dalla mente tali tracce mnestiche. Il Poeta, con la sua sensibilità e le sue tendenze riparative, aiuta la persona più sana a recuperare queste esperienze antiche, sotto forma di “voci” che metaforicamente ci parlano dal nostro mondo interno. Quel che sarebbe potuto diventare motivo di sofferenza diviene, così, fonte di un arricchimento interiore di cui le persone “normali” di cui parlavo più sopra si privano del tutto. Ciò è molto ben illustrato nella serie di poesie “Preludio e fughe” di Umberto Saba.
Preludio – pag. 351
Oh, ritornate a me voci d’un tempo,
care voci discordi!
Chi sa che in nuovi dolcissimi accordi
io non vi faccia risuonare ancora?
L’aurora
è lontana da me, la notte viene.
Poche ore serene
il dolore mi lascia; il mio e di quanti
esseri ho intorno.
Oh, fate a me ritorno
voci quasi obliate!
Forse è l’ultima volta che in un cuore
– nel mio – voi v’inseguite.
Come i parenti m’han dato due vite,
e di fonderle in una io fui capace,
in pace
vi componete negli estremi accordi,
voci invano discordi.
La luce e l’ombra, la gioia e il dolore
s’amano in voi.
Oh, ritornate a noi
Care voci d’un tempo!
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Prima fuga (a 2 voci) – pag. 352
La vita, la mia vita, ha la tristezza
del nero magazzino di carbone,
che vedo ancora in questa strada. Io vedo
per oltre alle sue porte aperte il cielo
azzurro e il mare con le antenne. Nero
come là dentro è nel mio cuore; il cuore
dell’uomo è un antro di castigo. È bello
il cielo a mezzo la mattina, è bello
il mar che lo riflette, e bello è anch’esso
il mio cuore: uno specchio a tutti i cuori
viventi. Se nel mio guardo, se fuori
di lui, non vedo che disperazione,
tenebra, desiderio di morire,
cui lo spavento dell’ignoto a fronte
si pone, tutta la dolcezza a togliere
che quello in sé recherebbe. Le foglie
morte non fanno a me paura, e agli uomini
io penso come a foglie. Oggi i tuoi occhi
del nero magazzino di carbone,
vedono il cielo ed il mare, al contrasto,
più luminosi: pensa che saranno
chiusi domani. Ed altri s’apriranno
simili ai miei, simili ai tuoi…
… La vita,
la tua vita a te cara, è un lungo errore,
(breve, dorato, appena un’illusione!)
e tu lo sconti duramente. Come
in me in questi altri lo sconto: persone,
mansi animali affaticati; intorno
vadano in ozio o per faccende, io sono
in essi, ed essi sono in me e nel giorno
che ci rivela…
… Pascerti puoi tu
di fole ancora? Io soffro; il mio dolore,
lui solo, esiste. E non un poco il blu
del cielo, e il mare oggi sì unito, e in mare
le antiche vele e le ormeggiate navi,
e il nero magazzino di carbone,
che il quadro, come per caso, incornicia
stupendamente, e quelle più soavi
cose che in te, del dolore al contrasto,
senti – accese delizie – e che non dici?
……………………………….
lasciami assomigliare la mia vita
– tetra cosa opprimente – a quella nera
volta, sotto alla quale un uomo siede,
fin che gli termini il giorno, e non vede
l’azzurro mare – oh, quanta in te provavi
nel dir dolcezza! – e il cielo che gli è sopra.
[Ogni manifestazione poetica di dolore esprime, implicitamente, la dolcezza di quel che si è perduto]
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Seconda fuga (a 2 voci) – pag. 354
L’ultima goccia di dolcezza esprimi,
anima stanca e muori. Oh, nella mia,
di fresco nata, tu degnassi pia_
mente passare! Un dono tu mi stimi
ben grande! Che se a me tu lo facessi,
come una nuvoletta i rai del sole,
t’accoglierei nel mio seno. Non vuole
questo il destino; ed io, se pur potessi,
non lo farei. Perché così m’affliggi?
Perché t’amo. Di amarmi dici, e il dono
di te non mi faresti. Chiedi un dono
che sarebbe un castigo. Oh, me lo infliggi!
Anima fanciulletta, anima cara,
ecco prendi di me quel che tu puoi.
Io prendo tutto: la dolcezza, e poi,
che più mi piace, la tua essenza amara.
[In questa seconda fuga, è più chiaro che le due voci provengono dagli oggetti interni: la
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Quarta fuga (a 2 voci) – pag. 357
Sotto l’azzurro soffitto è una stanza
meravigliosa a noi viventi il mondo.
A guardarla nei cuori la speranza
e la fede rinasce. Da un profondo
carcere ascolto. Tutto in lei risplende,
nuovo ed antico: ogni vita al suo cammino
prosegue lieta, e ad altro più non tende
che ad esser quale ti appare…
… io dentro una segreta
mi chiusi, dove l’un l’altro tortura
nell’odio e nel disprezzo. E chi ti vieta
d’uscirne, e qui goder con noi la chiara
luce del giorno? Oh tu, che troppo sai
farti del mondo una bella visione,
hai mai sofferto di te stesso? Oh assai,
oh al di là di ogni immaginazione!
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Quinta fuga (a 2 voci) – pag. 358
M’ascolta, voce fraterna, m’ascolta
voce perdutamente un giorno amata:
io t’odio e con la mia ti “devo” spegnere.
Tu m’ami ancora, tu m’amerai sempre,
tu mi sarai sempre congiunta. Forse
una certezza che non provi ostenti,
forse t’illudi. Nei tuoi cari accenti
altro mai non udivo che me stessa,
me stessa ed il lontano mio avvenire;
m’erano cari per questo. Non altra
cosa in “noi” t’era cara, altro più eterno
in me non ascoltavi? Troppo scaltra
tu mi risuoni, e troppo antica; io sono
l’acerba primavera. Ed io l’autunno,
il tardo autunno. Amo i paesi strani,
i mari azzurri d’isole fioriti,
………………………………………
… Restare,
andare – tu non sai? – sono una cosa.
Tutto è sempre in un punto che paurosa-
mente circonda lo stesso infinito.
Il vecchio stanco ed il ragazzo ardito
Sono anch’essi una cosa? Un aureo anello,
che nel suo giro mirabile ha unito
il principio e la fine. Ed io il principio
sono di un’altra primavera; io “sono”
la primavera. Ed io l’autunno; un tardo,
un dolcissimo autunno. E quando a sera
il cor d’occulta nostalgia si sface,
vorrei lasciarti, fuggire. Con pace
lasciami dunque; sotto l’ingiallito
fogliame parlerò sola a me sola.
Ecco, al pianto m’inclini; ecco, tu sola
spegni in me la mia forza. Oh, non è giusto
che in te io spenga la tua debolezza?
Come potresti? Da me nell’ebbrezza
Ti slanci, e in me ricadi. E, se non menti,
dirai che m’ami. Quando i tuoi accenti
mi sono cari, è perché in essi ascolto,
credo ascoltare il mio avvenire. O il nostro,
invece, il nostro lontano passato?
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Settima fuga (a 2 voci) – pag. 371
La vita,
che d’altre vite si nutre, o è fugace,
o tace,
pauroso arcano, la sua propria meta.
Sapessi almeno, non triste e non lieta,
giungere, in pace con me stessa, al giorno
estremo
Io tremo
quando tu parli, io tremo d’ogni cosa.
Il mio cuore è una piaga dolorosa
aperta.
Esperta
io di mali, pur vivo ansia dell’ora
che ancora
deve arrecarmi il più grande. Un amore
mi nomava alla gioia, ed il dolore,
solo il dolore, è quello che mi ha fatta
matura.
Oscura
è ancor più la mia sorte, e disperata.
Tale sei divenuta, io sono nata
tremante.
Amante
delle forme immutabili, a me intorno
il giorno
con la sua guerra, con i suoi piaceri
la notte, mi fa l’oggi ognor dall’ieri
diverso, e cosa in tanto moto ferma
non trovo.
M’innovo
con onta. In triste vicenda infinita,
quante vite per vivere una vita
divora!
…………………………………..
Siamo prese nel turbine, infelici
sorelle; e penso che una colpa è stata
il nascere.
Il nascere,
come il vincere, è contro gentilezza.
E la pietà di chi soggiace spezza
il cuore.
Orrore,
pietà, di lacerarmi fanno a gara.
Amara
sono ad altri e a me stessa… Eppure in fondo,
nell’intimo dell’essere, profondo
più del dolore, hanno stanza pensieri
celesti.
Ridesti
anche in me sono. È come se oltre il folto
del bosco a un tratto m’apparisse il volto
del cielo.
Il gelo
Si scioglie al fiato della primavera,
la nera
terra discopre di germogli piena.
Tale è l’anima mia sotto la pena.
Che mi vorrebbe ad essere felice?
Osare.
Mi pare
ch’io lo potrei. Ma nell’attimo sento
che un più dolce rifugio è il mio tormento
antico.
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S’innova
Ogni vita per altre in lei distrutte;
di tutte
una non v’è che dica di sì atroce
legge il modo d’uscire. E quanto nuoce
n’è caro, ed anche noi l’incerta vita
amiamo.
Restiamo,
per meglio amarla, in questo ascoso porto.
Qui nessuno può toglierci il conforto
di piangere.
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Ottava fuga (a 2 voci) – pag. 374
Sono una fogliolina appena nata,
e intenerisco ai giovanetti il cuore.
Son la fresca vernice d’un vapore
che fischia per salpar la prima volta.
La dolcezza di muovermi m’è tolta,
se non è al venticello della sera.
Duolmi lasciarti, affollata riviera,
dove con esso anch’io venni ammirata.
Oh, potessi seguirti! Oh te beata
che “devi” rimanere! E tu, potendo,
non partiresti? Non lo so. M’attendo,
come il giovane mozzo alla sua prima
prova, veder di grandi cose. In cima
del mio ramo attaccata, io ti saluto.
Io, se ritorno, quello che ho veduto,
ed altro ti dirò, foglia bennata.
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Nona fuga (a 2 voci) – pag. 375
Cielo che splende dopo l’uragano
più terso;
bimbo che trova la materna mano,
ch’errava sperso;
tale io mi faccio, se da me il dolore
vien tolto;
e la felicità torna al tuo cuore,
e sul tuo volto.
Ma come un’ombra in me rimane, un mesto
Pensiero.
Anch’esso, credi, anch’esso come il resto
è passeggiero.
No, che in me potrà solo con la morte
passare;
sì che dovresti la tua umana sorte
ancor più amare.
Noi gli effimeri siamo, e siamo quelli
cui tocca
maggior grazia? Un mio bacio ti suggelli
ora la bocca.
Dov’eri, che più baci non mi davi,
fuggita?
Non sono quella che un tempo tu amavi,
la calda vita?
che più fugge chi n’è più disperato
amante;
che nel petto il suo artiglio t’ha piantato
più straziante;
che in me la voluttà, l’amore ardente
profonde;
e se ti lagni, oh come dolcemente
l’Eco risponde!
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Decima fuga (a 2 voci) – pag. 377
Io che una tregua vanamente imploro,
sempre agitato da un intimo moto;
io che sempre ritorno, e ti percuoto
sempre, eppure non t’odio, antica sponda;
– ti sento come una carezza: l’onda
a me che fa? – la ferma tua quiete
oh quanto, io mare, invidio! In mare liete
vivono l’onde; io solitaria esploro;
– non vedi come e in quante vite io moro,
per ricompormi in lor sonoramente? –
e alla mia noia immobile silente
nave alcuna da lungi più non viene.
D’essere un porto nostalgia ti tiene?
Già l’ero, e grande. E azzurro cielo ed acque
altro non vedi? Il fanciullo cui piacque
a te sposarsi nel tramonto d’oro.
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Dodicesima fuga (a 3 voci: l’Uomo, l’Eco e l’Ombra) – pag. 381
Io sono l’Eco, e dai recessi azzurri
Del cielo la tua voce ti rimando.
Ma il fanciullo dov’è che qui esultando
corse a destarti, aerea meraviglia?
Dallo stupore inarcava le ciglia,
commosso udendo i tuoi suoni lontani.
E batteva di gioia anche le mani.
……………………………………….
Io del tuo corpo son l’ombra. Sull’erba
La tua forma ripeto ingigantita.
Non ti compiaci a mirarmi? La vita
che ricevi da me, ripeti in strana
forma. E una cosa tu mi credi vana
perché ti riesco impalpabile? Eppure
esisto. Esisti; ma le mie sventure
non provi. Anche tu a vuoto, Eco, sussurri.
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Di quante voci tu ascolti, più care
non ti sono le mie? Eco ripete
le tue parole. Se le dici liete,
liete le ascolti; se tu piangi io piango. –
Discacciarmi non puoi; con te rimango,
io che nacqui con te. Ma fare io posso
che non mi veda. – Che non m’oda io posso
fare. – Egli tace. – Nelle dure membra,
grave in volto, dimora. – Sì che sembra
il demonio, che in fine è poi scornato.
……………………………………………
……………………………………………
… Io sono un’ombra, vana cosa,
lo so, ma ad occhi mortali paurosa
anche talvolta. E da me vuoi che ancora
di te mi meravigli?…
…………………………………………..
Se t’accorgi di noi, questa è la prova
Che la vita non t’ha, Uomo, distrutto;
che sai ancora stupire. Del tutto
a voi m’arrendo, amabili parvenze
di me stesso. E di molte amare assenze
consolarti sapremo. Ed io in mercede
godrò sempre di voi, di voi che fede
tenete, da me nate ombre e sussurri.
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