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Contro l’educazione all’affettività

8 Gen 24

A cura di ct

“La produzione del Super-io è soltanto uno dei compiti assolti dalla famiglia come agenzia psicologica della società, e la produzione del Super-io non può essere disgiunta da quella della struttura pulsionale complessiva e dal carattere di un individuo, come viene formato nella famiglia” (Erik Fromm, p.82)

È noto, e ormai quasi universalmente riconosciuto, il fatto che – come dice Fromm – tutto ciò che viene prodotto nel gruppo primario, soprattutto nei primi anni di vita, sia (letteralmente!) fondamentale nella determinazione dell’identità personale del bambino. Che poi si espanderà nel corso del processo maturativo in base agli “influssi di quelle persone che sono subentrate al posto dei genitori: ossia educatori, insegnanti, e modelli ideali” (Fromm, p.78).
Si forma in questo modo in ciascuna società un insieme di “agenzie psicologiche” che servono a garantire quei compiti di cura e di continuo adattamento delle strutture pulsionali complessive e del carattere dei singoli in base alle specifiche, storiche e dinamiche esigenze di riproduzione sociale tipiche di ciascuna di esse. Si forma così un dialogo interno in ogni individuo fra l’area che proviene dalla propria appartenenza familiare, culturale e gruppale (di classe, di ceto, etc), e l’area non riconducibile ad alcuna appartenenza. Dialogo che si rinnova giorno per giorno; e soprattutto nei momenti di passaggio da una fase all’altra del processo maturativo.
Per cui, nel tentativo di comprendere cosa sia l’educazione all’affettività, è dall’analisi di come concretamente operano queste ‘agenzie psicologiche’ che occorre partire. E soprattutto dall’analisi degli scambi nel gruppo primario, a proposito dei quali – per evitare le polemiche che derivano da una lettura distorta degli studi attuali sul genere – proporrei di partire da un testo di cinquant’anni fa,  “Dalla parte delle bambine”, che a suo tempo non è stato oggetto di alcun ostracismo, e che quindi anche oggi non dovrebbe sollevare troppe critiche. Ciò che diceva, in base ad una attenta ricerca empirica sul campo, la pedagogista montessoriana Elena Giannini Belotti alla metà degli anni settanta è evidente già dal sottotitolo del suo testo: “L’influenza dei condizionamenti sociali nella formazione del ruolo femminile nei primi anni di vita”. La sua tesi è che i profili di femminilità e di maschilità allora imperanti erano dapprima immaginati (si pensi alle fantasie, di coppia o meno, sul nascituro), poi concretamente prodotti all’interno della famiglia, ed infine ribaditi nei gruppi secondari in base ad una sottile opera di modellamento, frutto di un insieme di microazioni esercitate dai genitori, dagli educatori, e da quelli che Fromm definiva modelli ideali, in maniera discriminata in base al sesso del bambino.
Nel frattempo sono passati cinquant’anni: la società è cambiata, ed i profili di femminilità e di maschilità odierni non sono più perfettamente sovrapponibili a quelli di ieri. E ciò per tutta una serie di motivi. Fra i quali, per concentrarci sugli aspetti più riconducibili al tema dell’affettività: – innanzitutto, il passaggio dalla famiglia di Edipo a quella di Narciso (Angelini), cioè dalla prevalenza ieri di profili di personalità basati sull’etica del risparmio e dell’investimento, al prevalere oggi di quelli centrati sulla coazione al consumo. – In secondo luogo per la trasformazione della nostra società in una società   multiculturale, che implica poderosi processi di acculturazione sia nei migranti, sia in noi autoctoni. – Infine per la nuova e più ampia modalità di vivere ed integrare nel mondo interno delle nuove generazioni gli investimenti affettivi sublimati e idealizzati sull’oggetto d’amore, con le varie forme di scarica pulsionale ad essi connesse. Senza più le ‘repressioni addizionali’ tipiche della vecchia società: cioè quelle basate sulla colpa per non essere riusciti ad essere produttivi e autonomi; che tendono ad essere sostituite oggi da quelle basate sulla vergogna per l’apparire prima o poi della crisi dei propri ideali megalomanici. Queste trasformazioni, e tutte le altre che da esse derivano, o che ad esse si ricollegano, implicano la necessità di una ri-osservazione delle microazioni quotidiane usate negli vari tipi di gruppo primario odierno, poiché è lì che avviene la prima e più importante educazione all’affettività del bambino e della bambina.
Ma la stessa cosa occorre fare in asilo nido e nelle scuole per l’infanzia, e soprattutto a scuola, nel rapporto fra docenti e discenti. La scuola infatti è il primo gruppo operativo frequentato dai bambini. E una delle prime cose ch’essi celermente apprendono e comprendono è la lettura dei messaggi di natura affettiva che provengono da quelle che potremmo definire le microazioni quotidiane che i docenti fanno nel rapportarsi con loro. Con la differenza, rispetto a ciò che accade nel rapporto con i genitori, che queste microazioni non sono espresse direttamente sul piano dell’affettività, ma traspaiono da mille indizi attraverso le maglie semitrasparenti dell’operatività. Cioè nel momento della lezione, dell’interrogazione, della valutazione, eccetera. E con una ulteriore differenza fra ciò che accadeva a scuola ieri e ciò che accade solitamente oggi, parallelamente a ciò che accade in famiglia: ieri tutto era incapsulato in quelle microazioni, tipiche del rituale pedagogico, in cui l’operatività tendeva ad anestetizzare l’affettività. Oggi, invece prevale un’opzione per una vicinanza, in cui l’affettività trabocca facilmente, e si esprime in entrambe le direzioni, e al di là del rituale, giungendo a volte a soffocare l’operatività.
Sia nella vecchia che nella nuova scuola i discenti, anche per le abilità interpretative già apprese a casa (e nelle strutture prescolari), diventano ben presto capaci di cogliere ciò che passa sul piano dell’affettività. Per cui a mio avviso si può dire che anche a scuola la più importante educazione all’affettività passa attraverso una sottile opera di modellamento quotidiano ad opera di tutti i suoi componenti. A cui si aggiunge, ovviamente, l’insieme degli scambi orizzontali fra pari, cominciato all’interno della fratria, dei nidi, delle scuole per l’infanzia,  e dei gruppi di vicinato.
Appurato questo, a mio avviso, se si vuole operare efficacemente sul piano dell’educazione all’affettività è innanzitutto su questi piani che occorre muoversi. A casa, come a scuola. Hai voglia a fare corsi sulla genitorialità se mancano gli elementi di base che permettano poi ai genitori di esprimersi in maniera sufficientemente buona sul piano della genitorialità: un tenore di vita decente, ad esempio. O se su un determinato territorio mancano le istituzioni prescolari. La stessa cosa vale per gli educatori, ai quali si chiede di dare dignità all’istituzione scolastica, pur non essendo essi trattati dignitosamente; di avvincere la classe alla materia che insegnano, di legarsi alla classe nella sua intierezza, così come ad ogni studente, di comprenderlo, istruirlo e giudicarlo, anche se spesso non sanno fino a quando saranno lì.
Poi, longeque inferior, c’è, o potrebbe esserci, l’educazione all’affettività in preadolescenza e adolescenza. Agli inizi degli anni ’90 ho guidato l’equipe del consultorio giovani dell’Ausl di Reggio Emilia, all’interno del quale avevamo elaborato un progetto di educazione alla crescita, cui le scuole medie inferiori e superiori potevano liberamente aderire.  Il nostro compito era quello di aggiungere la voce dello psicologo, della ginecologa e delle ostetriche a quella delle famiglie e dei docenti circa i problemi di fase tipici di quel periodo della vita. Ritengo perciò che qualcosa si può fare su questo piano. Ma intanto quel lavoro non aveva alcuna pretesa di carattere ‘pedagogico’, e – cosa importantissima – faceva parte delle attività gratuite di prevenzione di un servizio pubblico. In secondo luogo era svolto in un momento in cui tutti i cambiamenti che sono poi intervenuti apparivano ancora come in fase embrionale.
Oggi la discussione si sta sviluppando su di un piano ideologico che lascia intravedere battaglie destinate, più che a sollecitare una riflessione sui reali problemi odierni, a dividere perniciosamente sul piano ideologico genitori e insegnanti, col rischio di perdere la reale ragione del fare.
A mio avviso sarebbe molto più utile oggi innanzitutto aiutare veramente sul piano materiale e sociale educatori e genitori. Ed a livello istituzionale (Università, centri di formazione e di ricerca autonomi) rimettere mano ad un’analisi puntuale dei nuovi profili di genitorialità e di docenza, sull’influenza esercitata dallo stato di precarietà ormai imperante sia sugli uni che sugli altri, e su come operano oggi le microazioni quotidiane a casa e in scuola, onde potere fornire materiale che poi liberamente genitori, docenti, tecnici e amministratori accorti possano utilizzare sul piano educativo e preventivo.


(Ringrazio l’amico Luciano Moro per l’aiuto)

 Reggio Emilia, 8.1.24

Bibliografia
– Angelini L., La società e la famiglia di Narciso in. A.L., La scuola di Narciso. Analisi, note, progetti, Autoprodotto con Amazon, 2020, pp.31\41
– Fromm E., “Studi teorici. Parte socio-psicologica”, in: Horkheimer et al., Studi sull’autorità e la famiglia, UTET, To, 1974, pp.73\128
– Giannini Belotti E., Dalla parte delle bambine. L’influenza dei condizionamenti sociali nella formazione del ruolo femminile nei primi anni di vita”, Feltrinelli, Milano, 1973

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