Seminario al Seminario, Marola (RE), 7.9.1999
di Gancio Originale
Vorrei cominciare questo incontro sulle fiabe partendo da un personaggio realmente esistito, e quindi, a prima vista, lontano dal mondo fiabesco che, come tutti sanno, è un mondo in cui regna la finzione: a Reggio Emilia, fino a cinquant’anni fa, è vissuto un personaggio che si chiamava Zilòc.
Zilòc, come ci dicono coloro che l’hanno conosciuto, era uno di quei personaggi, presenti ancor oggi in ogni città o paese, che – grazie a una capacità di dire profonde verità condensate in una battuta mordace – poteva impunemente irridere ai potenti e alle istituzioni semplicemente dicendo ‘il re è nudo’.
Ebbene qual è il limite di questo tipo di storie, che i demologi, cioè gli studiosi delle tradizioni popolari, chiamano ‘fatti rammentati’: che mentre è facile che un reggiano si identifichi in Zilòc, un pugliese come me, anche se è in grado di apprezzare la mordacità delle battute di Zilòc, farà fatica ad identificarsi fino in fondo con lui poiché sentirà la natura particolare, locale del suo profilo. Il fatto rammentato, cioè, ha per sua natura una dimensione locale che delimita e sminuisce le possibilità identificatorie di un più ampio pubblico.
La fiaba, al contrario, è portatrice di un messaggio universale che permette a tutti i suoi potenziali ascoltatori in raggiungimento di alto tasso d’identificazione. La universalità del messaggio fiabesco è dovuta ad un insieme di circostanze di meccanismi narrativi che concorrono nel definirne i contorni, il primo dei quali è nel fatto che la fiaba è molto poco contestualizzata.
Il secondo elemento, scoperto da Propp, tipico della fiaba e solo della fiaba, è che in termini strutturali, in una trama fiabesca noi incontriamo potenzialmente solo sette personaggi: il protagonista, l’antagonista, il falso eroe, il personaggio cercato, il donatore, l’aiutante e il mandante. Non tutti e sette possono essere presenti in ogni fiaba, spesso anzi in una specifica fiaba ce ne sono solo tre o quattro; certo è però che aldilà di questi sette personaggi altri non ce ne sono.
Vediamo ora come è possibile riconoscerli:
Il protagonista (o eroe) è quello in cui l’ascoltatore s’identificherà, poiché rappresenta le sue parti buone, intraprendenti, coraggiose. L’antagonista è il malvagio, colui che fa del male in cui è impossibile riconoscersi; il falso eroe è colui che finge di aver compiuto le azioni che invece sono state compiute dall’eroe, colui che s’impossessa fraudolentemente delle azioni dell’eroe. Il personaggio cercato – che, come dice Bettheleim, è presente solo nelle fiabe a sfondo edipico – è la principessa o il principe da impalmare, da sposare, cioè quel personaggio che alla fine produce l’happy end attraverso lo sposalizio con l’eroe. A fianco a questi personaggi ci sono infine tre figure che non sempre sono compresenti: il donatore, che dona all’eroe il mezzo magico; l’aiutante, che è colui che aiuta l’eroe nel momento in cui il secondo è sottoposto a delle prove; il mandante, colui che spinge l’eroe a compiere l’azione a partire da quella situazione di penuria in cui si trova sempre l’eroe all’inizio della storia fiabesca, penuria relativa la fatto che l’eroe cioè è sempre colui cui gli è morta la mamma, che vive in una famiglia disgraziatissima, che deve lottare per arricchirsi, per partire verso il compimento dell’impresa. Il tutto in un intreccio di motivi della fiaba anch’essi analizzati in termini strutturali da Propp che era entrato in contatto con l’analisi di fiabe fatta da Thompson e da altri studiosi scandinavi, che avevano tentato, prima di Propp, una categorizzazione delle fiabe trovando, però, più di due o trecento motivi. Invece Propp, in base al suo taglio strutturalista, è stato in grado di vedere la struttura comune a molti motivi aldilà della molteplicità delle azioni e in questo modo ha ridotto il numero delle azioni riscontrabili in una fiaba a trentuno. E qui vale ciò che dicevamo a proposito dei protagonisti: secondo Propp non è detto che una fiaba abbia dentro di sé tutte le trentuno azioni, ne può avere quindici, tredici; alcune di esse saranno iterate più volte; è possibile, anzi probabile, che l’intreccio comporti un concatenarsi fra di esse diverso dall’elenco fornitoci da Propp, ma tutte le azioni di tutte le fiabe sono strutturalmente riconducibili sempre a questi trentuno motivi.
Rodari, che aveva letto Propp, e che era una persona creativa, sulla base della coniugazione fra questi sette personaggi e fra queste trentuno ha inventato un gioco di carte sulle quali sono raffigurati personaggi e i motivi, in modo tale che, attraverso una distribuzione casule delle carte sia possibile inventare e costruire delle fiabe. E penso che oggi, nel laboratorio di pittura, Simona Valcavi abbia intenzione di farvi lavorare proprio su questa cosa: di spingere cioè ciascuno di voi ad inventare e dipingere dei personaggi con i quali poi potremmo giocare come ci suggerisce Rodari.
Max Lüthi nella sua opera “La fiaba popolare europea”, ha portato avanti il discorso di Propp e si è chiesto: quali sono gli elementi in base ai quali si può riconoscere una fiaba e distinguerla dalle altre modalità, dalle altre forme del narrare orale. E a tal proposito, vedrete, dice delle cose che ci serviranno più avanti:
Il primo elemento di peculiarità individuato da Lüthi nel racconto fiabesco è quello della l’unidimensionalità, il fatto cioè che nella fiaba non è mai chiaro se si sta parlando del mondo reale o del mondo soprannaturale, che in questo modo sono accomunati ‘unidimensionalmente’ in un mondo particolare, che è il mondo fiabesco che assume così una dimensione ambigua in cui reale e soprannaturale si confondono.
La seconda caratteristica è quella che Lüthi chiama ‘tendenza all’isolamento’: isolamento significa che il raccontatore deve inventare un eroe che permette a tutti di identificarsi; un eroe isolato dal contesto, che non deve avere nome e cognome, perché altrimenti il tasso di identificazione delle infinite possibili sue udienze sarebbe più basso, di modo che alcuni s’identificherebbero, altri no. Le storie di Zilòc, come abbiamo visto, non sono fiabe perché manca l’isolamento.
Altra caratteristica individuata da Lüthi quella delle ‘colleganze universali’: proprio in base all’isolamento il materiale fiabesco è un distillato che si adatta a qualsiasi udienza il buon raccontatore si trovi ad avere di fronte. Di modo che, se io sono un buon raccontatore, sottoporrò il materiale fiabesco di cui dispongo ad un processo di adattamento che sarà diverso in base alle diverse udienze che avrò di fronte perché (e questo è il mio modesto contributo al discorso sulle fiabe) le esigenze materiali e spirituali della cultura di appartenenza dei miei ascoltatori variano da luogo a luogo, e – in uno stesso luogo – variano nel tempo.
Un altro elemento stilistico evidenziato da Max Lüthi è quello del ‘dono’: Lüthi aveva letto un sacco di materiale inerente modalità del raccontare orale limitrofe alla fiaba ed aveva scoperto che mentre nella leggenda il dono è sempre un elemento straordinario (per es. spada nella roccia per la leggenda di Re Artù), nella fiaba esso è un oggetto usuale (per es. un fuso, una lampada, ecc.) che nella fiaba assumono una veste magica.
Altro motivo, quello del ‘prodigio’ che non è mai richiesto, ma accade improvvisamente e inaspettatamente.
E molto importante nell’economia fiabesca, quello che Lüthi chiama ‘il motivo monco’, in base al quale qualsiasi elemento della fiaba, qualsiasi personaggio, qualsiasi motivo viene utilizzato nella fiaba per una finalità precisa e poi viene abbandonato una volta che non ce n’è più bisogno (che fino hanno fatto i due topolini nella favola di Cenerentola? nessuno ce lo dirà mai). E così anche le figure dei donatori nel momento che non servono più spariscono.
Il discorso di Lüthi è molto importante per definire il discorso fiabesco però, proprio per il taglio strutturalista, simile a quello di Propp, di per sé non basta comprendere come le fiabe cambiano nel tempo e nello spazio, diacronicamente e sincronicamente.
Un racconto, qualsiasi racconto, proprio perché è sempre immerso in una data cultura, si trasforma continuamente nello spazio e nel tempo:
– Nello spazio in base al rapporto di scambio con le culture limitrofe: secondo alcuni studiosi italiani, ad esempio, uno dei luoghi di contaminazione tra le fiabe di luoghi limitrofi erano le fiere e le gradi cerimonie religiose, luoghi di incontro e di scambio culturale che permettevano di trasmigrare in un altro posto e di trasmigrare con una modalità specifica che è il meccanismo di contaminazione fra varie forme del narrare orale che ogni buon raccontatore conosce benissimo. Io ho fatto una ricerca sul campo nella mia terra d’origine ed ho chiesto ai miei informatori di raccontarmi le loro storie. Ebbene tutti costoro non si sono mai limitati a raccontarmi delle fiabe, ma anche tutta una serie di fatti rammentati, di novelle, di novelle religiose a carattere scherzoso, etc., fino alla declamazione di brindisi augurali. Ma un buon raccontatore va oltre: e i raccontatori che nei filòss[1] intrattenevano quel pubblico misto di adulti e bambini non ancora sequestrati dalla Tv, era capace non solo di alternarsi nei vari tipi di racconto, ma anche di usare una battuta di Zilòc, una sequenza desunta da un fatto rammentato per inserirla dentro una fiaba; così come esistono contaminazioni tra cultura alta e cultura bassa: io ho raccolto nel mio paese una fiaba in cui ci sono echi dell’Odissea (Eolo che è diventata la Signora dei quattro venti).
– Il materiale fiabesco si trasforma però anche nel tempo poiché ogni cultura si trasforma nel tempo per ragioni d’ordine materiale e spirituale, poiché anche le culture limitrofe si trasformano nel tempo, così come le altre modalità del narrare orale ed il rapporto fra cultura alta e cultura bassa. Cosicché anche da un punto di vista diacronico, cioè con passare degli anni e delle generazioni le fiabe si trasformano. Ad esempio mi è capitato di riferire ad una udienza del giorno d’oggi la fiaba principe della cultura reggiana, quella di Pirìn Fasòl (Pierino Fagiolo) che avevo letto nella bellissima raccolta a cura di Loredana Cassinadri e Matteo Pantaleoni, e tutti gli adulti presenti ricordavano la trama, ma avevano dimenticato la sua fine cruentissima, che aveva un senso all’inizio del secolo, ma che evidentemente oggi era diventata superflua e dannosa ai fini terapeutici.
Come vedete, all’inizio abbiamo visto gli elementi strutturali della fiaba, mentre ora ci stiamo incamminando sul piano degli elementi culturali presenti nella fiaba e cominciamo a scoprire che il materiale fiabesco è materiale magmatico in perenne evoluzione, che ha in sé capacità di contaminare e di essere contaminato proprio in base al suo alto tasso di stilizzazione, cioè proprio in base al fatto che è decontestualizzato al massimo.
Una delle fiabe che interpreterà per noi stasera Giovanni Poli, che è un’artista reggiano, è una fiaba, raccolta dalla Cassinadri e da Pantaleoni a San Martino in Rio, incentrata sul racconto di uno zufolo, di una piva magica che parla e che conferma un delitto compiuto dai fratelli dell’eroe, i quali – nella veste di falsi eroi – si appropriano di un gesto eroico compiuto dal loro fratello e lo uccidono. Ne ho trovata una versione nel mio paese, che ho intitolato ‘La piuma dell’augèl di Grifù’, e, ancora più importante: – una versione raccolta da una ricercatore austriaco a Rovereto nel 1870, in cui ad uno stesso contenuto si accompagna una cantilena che avevo ritrovato nella versione locorotondese ma che nella versione roveretana richiama alla mente l’ambiente viennese; e un’altra versione, sempre della stessa storia, nella raccolta siciliana ottocentesca del Pitrè. Quindi abbiamo della stessa fiaba, due versioni quasi sincroniche del Novecento, ed due altrettanto sincroniche di cento e passa anni fa. Ogni versione differisce in base ad una serie di elementi che, studiati, ci dicono molto sulla cultura specifica che l’ha partorita, a partire da un unico vitigno che però, come quello di un buon vino, si adatta al terreno sul quale cresce.
Ciò che voglio dire è che la fiaba è esposta a tutte le contaminazioni e si adatta alle esigenze materiali e spirituali di ogni determinata udienza, di ogni cultura, di ogni società che l’ha partorita.
Ne discende che le doti che deve possedere un buon raccontatore sono molteplici: egli innanzitutto deve essere in grado di intuire quali siano le storie che in quel determinato momento quella determinata udienza che lui ora ha di fronte si vuol far raccontare per stare meglio, per osare affrontare i grandi nodi tematici della vita e della crescita psicologica; in secondo luogo deve fare una continua opera di adattamento del materiale fiabesco che lui stesso ha ascoltato in passato alla nuova udienza; insomma deve intuitivamente essere in grado di entrare in un rapporto sintonico con le varie udienze, di coglierne le differenti richieste che implicitamente esse pongono sul piano preventivo e terapeutico, di adattare il proprio bagaglio di canovacci e di storie, non tutte propriamente fiabesche, a queste mutevoli esigenze.
Spero sia chiaro perciò, dopo quanto è stato detto, che una cosa è limitarsi a leggere una raccolta di fiabe di Andersen, dei fratelli Grimm o di Calvino, etc., un’altra cosa è raccontare creativamente una fiaba ad una ‘udienza attuale ed in situazione’, adattare il testo fiabesco alla singolarità di questa udienza in un’opera continua di limatura dei contenuti e dei metodi, che implica un coinvolgimento emotivo e quindi non solo una terapia, ma anche una autoterapia, un livello di espressività in cui elementi verbali, ma anche non verbali e corporei siano compresenti (complanari, dice Cirese) in modo tale che le capacità affabulatorie del raccontatore siano esaltate.
Andersen, i Grimm o Calvino hanno ascoltato da propri informatori, vissuti molti anni fa, le fiabe che poi hanno messo per iscritto e cristallizzato nei loro libri. Anch’io, a dire la verità, ho fatto un’operazione simile con le fiabe da me ascoltate a Locorotondo (Bari) negli anni ’80: lungi da me quindi la volontà di sminuire il significato di quest’opera di scavo nei sotterranei culturali della propria società, della propria cultura, opera che, oltre ad un significato scientifico, ribadisce e marca anche la propria appartenenza[2].
Altra cosa però, molto più dinamica e utile, economica[3] sul piano dell’igiene mentale, è quella che fa il raccontatore in situazione, esposto a tutte le contaminazioni esterne ed interne che arricchiscono il suo materiale fiabesco, lo rendono fluido ed elastico, adatto alle nuove udienze con le quali il raccontatore di volta in volta entra in contatto, capace di continuare sempre ad affabulare le varie udienze, proprio perché frutto di questa continua opera di adattamento che lo rende più puntuale, aggiornato, vivificato dai mille stimoli che su di esso provengono dalle varie parti compresenti sulla scena in cui si dipana il racconto.
Per comprendere il significato di questa compresenza del buon raccontatore con la propria udienza attuale facciamo un esempio: nell’enorme ambiente rurale australiano, dove le abitazioni sono molto lontane tra loro e i centri scarsi, la scuola viene tenuta da maestri che attraverso la radio comunicano con i propri allievi in lontananza; è chiaro che in questo caso manca la possibilità di un feedback fra maestro e allievo, cosicché non solo è possibile che il maestro dica qualcosa ad un bambino mentre quest’ultimo, non visto, gioca con il cane o sta mangiando un panino, ma è probabile anche che il maestro non possa fare quell’opera di continuo adattamento del testo all’udienza che solo il rapporto vis à vis rende possibile. La mancata compresenza cioè, anche in ambito scolastico, può essere all’origine di vari problemi.
La stessa cosa, anzi peggio, avviene allorché l’adulto dà ad un bambino un disco con le incisioni delle fiabe affinché questo le ascolti da solo: in questo caso mancano sia la compresenza che la contemporaneità del raccontatore con la sua (potenziale) udienza: il risultato in questo caso è da una parte la mancanza di comunicazione e di adattamento dinamico del testo all’udienza, dall’altra, cosa ancora più grave, l’impossibilità di scegliere, all’interno di un ampio bagaglio, quel racconto che intuitivamente il buon raccontatore in situazione facilmente metterebbe a disposizione della propria udienza: tale scelta, in base alla mancanza di questa compresenza, ricade così interamente sul bambino che spesso è distratto da altre forme di racconto, meno utili e terapeutiche per lui in quel momento.
Il bagaglio del buon raccontatore è spesso ricchissimo, a volte lussureggiante di canovacci, di storie che egli stesso ha ascoltato una volta, che ha capitalizzato e che ha imparato ad adattare alle varie udienze con cui è compresente: in questo caso è come se il raccontatore avesse una gerla, un contenitore contenente un bagaglio di storie potenziali, di tanti canovacci che egli è in grado, all’occorrenza, di utilizzare duttilmente. Tale qualità adattiva deriva al raccontatore dalla combinazione di un insieme di capacità intuitive, preconosce che possono così essere elencate: capacità di osservare l’udienza attuale ed in base a questa osservazione di rovistare dentro di sé (dentro la propria gerla) per trovare i canovacci che egli intuitivamente sente essere utili a questa udienza, capacità infine di acconciare questi testi potenziali ad essa e di profferirli in modo tale che l’udienza ne risulti affabulata, cioè avvinta dalla storia che sta ascoltando.
Si tratta, come avrete compreso, di un insieme di processi velocissimi che in pratica avvengono all’interno del raccontatore senza che egli sia in grado di esprimere in termini razionali ciò che in lui sta accadendo, ma in maniera intuitiva.
Il materiale fiabesco, in questo modo, appare come potenzialmente infinito, perché infiniti sono gli adattamenti di cui le infinite udienze nel loro divenire storico hanno bisogno di farsi raccontare, come infinite sono le contaminazioni cui il materiale va incontro sul piano sincronico e diacronico.
Quando ho fatto la mia ricerca sulle fiabe locorotondesi a un certo punto, dopo aver ascoltato vari raccontatori, mi sono reso conto che, come nella storia del re, seduto sul sofà, ero andato ad infilarmi in un filone aurifero senza fine che mi impediva letteralmente di fermarmi. Avevo già raccolto trentasei storie alcune iterate in tre, altre addirittura in quattro versioni e la cosa aveva cominciato a preoccuparmi. Quando decidere di fermarmi?
Ricorsi allora ad un esperto che opportunamente mi disse che avrei potuto legittimamente fermarmi quando avessi notato che il materiale non cambiava più, e quando le fiabe che mi erano riferite dai nuovi raccontatori fossero state desunte dagli stessi canovacci. Questo per farvi capire di che natura è questo flusso infinito di storie.
Il testo attuale, quello che noi ascoltiamo dalla viva voce del raccontatore, perciò, è il prodotto momentaneo di questo lavorio interno, cui il buon raccontatore intuitivamente sottopone i propri canovacci nel momento in cui li adatta all’ultima sua udienza attuale.
Vediamo adesso più da vicino in che cosa consiste la funzione terapeutica della fiaba, ed in base a quale sistema avviene quest’opera continua di adattamento dei testi fiabeschi alle diverse udienze.
innanzitutto va detto che la fiaba batte dove il dente duole, cioè va a colpire quelli che sono gli elementi angoscianti e ansiogeni più importanti che accompagnano il bambino nelle varie fasi della sua crescita psicologica: quelli che pomposamente potremmo definire i problemi focali di fase.
Il messaggio della fiaba di fronte a questi problemi è un messaggio ottimistico che si rivolge proprio a quelle parti interne che il bambino in quel momento fa fatica ad integrare (perché per la prima volta si presentano in lui), messaggio che tende a confortare il bambino, a infondergli coraggio, a dirgli che è vero che esistono quelle cose ansiogene, è vero che la mamma in certi momenti può sembrare una strega e il papà un orco, è vero che le parti prevaricatrici possono sembrare terrificanti… però, se lui ha fiducia in se stesso, quei problemi di fase, vedrà che li supererà per il meglio. Questa è la natura del messaggio della fiaba, che, come vedete, non ha alcun fine moralistico, ma si rivolge al bambino in difficoltà per aiutarlo a superare gli ostacoli della crescita. Si tratta di un messaggio abreatorio, cioè liberatorio che non ha bisogno di ulteriori spiegazioni per giungere al bambino, che cioè non va interpretato poiché velocissimamente giunge al suo cuore ed è in grado di confortarlo: come vedete c’è come un rapporto speculare fra la velocità in base alla quale tutto il materiale si condensa nel testo narrato dal raccontatore e la velocità del processo abreatorio che avviene nel bambino allorché ascolta questo testo: in entrambi i casi qualsiasi commento è non solo superfluo, ma potrebbe essere addirittura dannoso.
Bettelheim, che si interessa della natura terapeutica della fiaba, dice che da questo punto di vista ci sono due tipi di fiabe, e che in entrambi i tipi vi è un messaggio abreatorio: – Le fiabe edipiche, che sono le fiabe in cui c’è un personaggio cercato, la principessa o il principe da impalmare (es. Biancaneve). – Le fiabe narcisistiche che non prevedono la presenza di questo personaggio (che poi è il personaggio cercato di Propp), ma si rivolgono a parti interne che il bambino fa fatica in quel momento ad integrare e servono ad aiutarlo ad integrarle: per esempio la fiaba di Pirìn Fasòl è – in assenza del personaggio cercato – una fiaba che tende a fare accettare al bambino la compresenza nella figura materna di parti cannibaliche (non vi spaventate!) voglio dire soffocanti che vorrebbero mangiarselo vivo e non farlo andare da solo per il mondo.
Le fiabe vanno così a confortare il bambino mano a mano che cresce e a cercare di favorire il suo processo di crescita, esortandolo a essere coraggioso nell’affrontare i problemi focali, cioè nucleari di base. Il messaggio che esse danno è un messaggio liberatorio, abreatorio, laddove, come dicevamo prima l’elemento più rilevante è la velocità con cui il massaggio liberatorio giunge al cuore del bambino.
altra cosa importante è che questo messaggio abreatorio ieri era espresso di fronte ad una udienza mista fatta di bambini ma anche di adulti.
Ciò significa che ieri anche un pubblico adulto aveva bisogno di ascoltare le fiabe, anche un pubblico adulto aveva esigenze di tipo terapeutico[4]. Oggi l’udienza si è ristretta ad un pubblico di soli bambini ed anzi, ci sono indizi che ci dicono che anche questa udienza potrebbe presto trovarsi nelle condizioni di non ricevere questo tipo di sostegno psicologico.
Allora diventa legittimo chiedersi : cosa vuol dire se una società non sente più il bisogno in assoluto di raccontarsi delle storie? A mio avviso vuol dire che in quel caso ci troviamo di fronte ad una società che ha perso per strada uno strumento importante ed economico (in tutti i sensi) di igiene mentale.
Un altro elemento importante che caratterizza la funzione terapeutica delle fiabe è questo: esse permettono al bambino di liberarsi dalle tensioni e mantengono questo potere finche il bambino ne ha bisogno. Se ci avete fatto caso, avrete notato che il bambino spesso vuole sentirsi raccontare sempre la stessa storia, e ciò avviene per un certo periodo. Ebbene questo avviene perché quello è il tempo a lui occorrente per superare i conflitti di base che ora lo attagliano. Superati quei conflitti, ecco che all’improvviso egli non ci chiede più quella storia, ma ne vuole sentire un’altra che corrisponde a nuove esigenze abreatorie del nuovo conflitto di fase che in quel momento lo prede. E’ come se l’udienza (il bambino oggi, l’udienza mista ieri) intuisca qual è la medicina giusta e dica al raccontatore: più questa storia funziona per me come medicina, più me la faccio raccontare, perché mi placa dalle angosce che in questo momento mi prendono..
Diventa chiaro a questo punto però un altro importante passaggio: infatti allorché il raccontatore continua a narrare alla varie udienze che mano a mano ha di fronte le fiabe che ha ricevuto in eredità (quello che ha nella gerla), svolge una funzione abreatoria per l’udienza, come abbiamo visto, ma ha anche per se stesso. Poiché nel momento in cui noi raccontiamo una storia alla nostra udienza, e l’aiutiamo a superare i suoi propri conflitti di fase noi compiamo un’opera di autoterapia anche su di noi, in base sia alla forza della storia che parla anche ai nostri conflitti interni, sia soprattutto allo sforzo che intuitivamente facciamo per comprendere quale storia quella udienza vuol sentirsi dire che uno sforzo che ci costringe a fare continuamente i conti col nostro mondo interno, esattamente come avviene nello psicoterapeuta che per attivare il proprio controtransfert deve sentire acutamente se stesso nell’altro che ha di fronte.
Ed infine penso diventi chiaro ora che il buon raccontatore nello stesso tempo svolge anche un terzo un lavoro terapeutico, che si aggiunge ai primi due: quello per tutta la società che, attraverso questa strada, riproduce i propri anticorpi. Per cui, ribadisco, una società che non ha più bisogno di storie è una società che è cronicamente malata e non ha le medicine che le potrebbero servirle.
Un’altra caratteristica del buon raccontatore è la sua marginalità in famiglia o nel contesto sociale in cui si trova: un nonno o una nonna non più produttivi, la zia non sposata che rimane in casa e che è magari un po’ eccentrica. La centralità nel processo produttivo e riproduttivo è come se non lasciasse spazio per quel tipo di sensibilità e di intuizione che sono i ferri del mestiere del buon raccontatore. E qui la vostra condizione di giovani, marginali per statuto, direi, nel mondo della produzione, può essere, da questo punto di vista, importante per permettervi di diventare delle buone raccontatrici di fiabe. Se uno è troppo impegnato nel lavoro, questa enfasi produttiva può essere all’origine di una contrazione di altri aspetti dell’esistenza e può togliere la voglia e il desiderio di compiere tutti quei processi introspettivi e intuitivi sopraddetti.
La posizione di margine invece favorisce la tensione a ricercare i mondi della propria infanzia (di porre il naso all’interno della mia gerla). Fortunatamente, diceva Cirese: ogni nucleo familiare ha un dolce aedo, un buon raccontatore che è capace di ascoltare, mantenere dentro di sè e profferire, adattare ciò che è stato in precedenza ascoltato.
Per quanto riguarda la lingua delle fiabe sappiamo che ieri le storie venivano raccontate in dialetto, mentre oggi sono profferite in italiano, perché? perché ad esempio se mia moglie avesse raccontato le storie a nostra figlia in dialetto avrebbe compiuto un’opera inutile perché il dialetto reggiano è un dialetto municipale, neanche provinciale e, se aveva un senso parlarlo 70 anni fa, prima dell’industrializzazione, oggi non lo ha più e mia figlia si sarebbe trovata ad ascoltare una lingua di cui non ha competenza attiva, e forse nemmeno passiva 8che è quella bastante per comprendere).
Questa eclissi dei dialetti, ripeto, è più evidente in quelle culture, come quella reggiana (o quella pugliese) in cui non si va verso una koinè (=unione) dialettale regionale. Se, come avviene ad esempio in Veneto, ci trovassimo in una situazione di koinè regionale, il bambino sarebbe in grado di comprendere ancora la fiaba in dialetto. Noi però ci troviamo di fronte ad un dialetto che è diverso da paese a paese in cui la koinè è solo municipale: ed in questi casi il dialetto è attraversato da un processo cambiamento veloce, di vera e propria sclerosi, fino a che non lo parlerà più nessuno. Questo spiega perché noi siamo passati all’italiano per raccontare le storie ai nostri figli.
Ma anche l’uso dell’italiano non è un fatto facile e scontato: infatti anche in questo caso il buon raccontatore deve sapere adattare il testo alla sua udienza. Esiste una raccolta seicentesca di fiabe napoletane, ‘Lo cunto dei cunti’, di G. B. Basile che era stata pensata per una udienza di nobili, che per questo è scritta in un italiano barocco, aulico. La nostra udienza, invece, è un’udienza di bambini a rischio, che ci spinge ad usare un italiano diverso, non quello aulico, ma qualcosa che somiglia ad un lessico familiare e che solo nel fluire del racconto possiamo definire nei particolari.
I luoghi della fiaba, cioè quelli in cui avviene l’affabulazione, sono luoghi appartati in cui gli elementi di disturbo siano ridotti al minimo (non posso raccontare una fiaba in mezzo ad una piazza dove tutti rumoreggiano).
Per esempio questa udienza in questo momento non si trova in una situazione in cui ci sono elementi di disturbo, non ci sono rumori esterni che impediscono a me di parlare e a voi di ascoltare, ma se adesso arrivasse un estraneo non disposto ad ascoltarmi e se costui cominciasse a rumoreggiare tutto ciò romperebbe l’atmosfera che ora ci avvince e ci costringerebbe ad interrompere la lezione. Tutti i presenti cioè, nel momento in cui avviene il racconto, devono concordare sul fatto che quel luogo è il luogo in cui si racconta una fiaba. Ci deve essere una specie di membrana gruppale che avvolge tutti e che deve avere lo stesso significato per tutti i presenti. Ci sono, come voi sapete, degli elementi che aiutano a circoscrivere questa specie di membrana illudente. per esempio il C’era una volta… è una formula che ci aiuta a circoscrivere l’ingresso nella storia, così come ci sono varie formule di uscita dalla dimensione fiabesca, di modo che questo luogo appare come racchiuso da queste due formule, e tutto ciò ci aiuta.
In questo luogo, inoltre, il raccontatore deve essere di fronte alla sua udienza , accanto al suo narrare, alla sua parola affabulatrice ci devono essere, di norma, e in ausilio ad essa una serie di posture, di espressioni tipiche, di stilemi tipici del linguaggio mimico-gestuale. E questi gesti devono essere complanari al testo.
Non è la stessa cosa, dicevamo prima, ascoltare la fiaba da un raccontatore in situazione che arricchisce il testo di elementi complanari legati alle reazioni dell’udienza dall’ascoltare la fiaba a distanza o leggere la fiaba senza alcun trasporto: nel filòss il buon raccontatore era capace, quando capiva che una determinata fiaba era avvincente, di prolungare il racconto anche per una settimana, ricorrendo a degli inneschi provenienti canovacci di altre fiabe o da esperienze reali, e ovviamente, quando calava l’attenzione, cercava di riprendere il filo del discorso per ri\avvincere l’udienza.
Veniamo ora al tempo delle fiabe: questo tempo è l’imperfetto: “C’era una volta una strega” infatti è molto diverso sia da “C’è adesso una strega” sia da “Ci fu una volta una strega”.
Se io dicessi: “Adesso c’è una strega”, la fiaba assomiglierebbe al sogno nel momento in cui viene vissuto, avrebbe cioè delle caratteristiche di tipo allucinatorio che potrebbero mettere paura al bambino.
Se io invece dicessi “In un tempo passato ci fu una strega”, non coglierei l’attenzione dell’udienza.
L’imperfetto da questo punto di vista è malandrino, cioè ha quelle caratteristiche di ambiguità temporale che permettono all’udienza di aumentare o di diminuire il tasso di identificazione con il protagonista a seconda delle circostanze. Se volete una visualizzazione di questo processo, provate ad osservare un bambino come si comporta di fronte ad alcuni momenti drammatici in certi cartoni animati: allorché sembra che l’antagonista stia per prevalere egli tenterà di allontanarsi, di nascondersi, senza però mai abbandonare la storia a metà, perché troppo incuriosito dal testo[5], mentre sarà più tranquillo e seduto allorchè per l’eroe o l’eroina si mette bene.
Infine qualche considerazione sulle caratteristiche particolari della nostra udienza: essa è composta da ragazzi disabili o a rischio.
Prendiamo i due tipi di fiaba di cui parla Bettheleim, cioè quelle in cui manca il personaggio cercato a base narcisistica e quello in cui esso è presente. Entrambe sono importantissime per i nostri casi.
Nei disabili le funzioni carenti sono quelle egoiche (cognitive, intellettive). Ebbene avrete notato che nelle fiabe l’eroe è sempre colui che è meno dotato, lo scemo del villaggio, il più piccolo. Ciò è un espediente che permette un più facile identificazione. E’ come se si volesse dirgli: “Non ti scoraggiare (tenete presente che i bambini disabili in preadolescenza sono già in grado di capire di essere un po’ più lenti, meno capaci dei suoi compagni), perché le tue angosce sarai in grado di affrontarle”. Ebbene proprio perché le fiabe a sfondo narcisistico non lanciano dei messaggi moralistici, ma messaggi che infondono fiducia e aiutano a recuperare l’autostima ecco che questo tipo di storie risultano adattissime ai disabili..
Ma anche i bambini e i ragazzi a rischio hanno un’autostima bassissima, o comunque non realistica: cioè o esageratamente alta o altalenante ecco che la fiaba a sfondo narcisistico lancia dei messaggi di esortazione a superare gli ostacoli anche per loro.
Le fiabe, infine, in cui è presente un personaggio cercato, quelle cioè a base edipica, vertono spesso sul tema del superamento dell’Edipo. Spesso ci dicono: io quando ero bambino ero legato ai miei genitori; ora che sono cresciuto, realizzo me stesso fuori casa e mi industrierò a cercare fuori quegli oggetti ideali che prima erano rappresentati dalle parti buone dei miei cari.
Ora tenete presente, come nelle fiabe vi è sempre una partenza pessima in cui vi è una matrigna cattiva incombente e la morte della mamma buona, così anche nei nostri casi vi è spesso alle spalle un turbinio di pensieri ambivalenti che dai genitori vanno verso il bambino e da esso si riversano sul genitore; e così come alla fine il buono vince sempre sul cattivo nella fiaba, alo stesso modo i due temi del rifiuto genitoriale e del male amato sono i temi centrali nei nostri bambini disabili e a rischio. Per cui anche questo secondo tipo si storie assumono per loro un significato abreatorio, terapeutico.
Bibliografia:
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