Leonardo Angelini e Deliana BertaniSono passati esattamente 25 anni dalla presentazione della prima edizione de “Il bambino che è in noi” ad oltre cento educatrici degli asili nido di Parma. Eravamo stati invitati dall’amica Nice Terzi che allora guidava il Servizio Asili Nido del Comune. Con lei concordammo il titolo della relazione che avremmo dovuto svolgere in quella serata, che fu proprio “Funzioni materne e funzioni paterne a casa e al nido: primi elementi per una riflessione”. Relazione con la quale abbiamo voluto aprire questa seconda edizione del testo.
In quel periodo però, mentre Nice continuava ad interessarsi degli asili nido (cosa peraltro che ha continuato a fare brillantemente finora), noi avevamo da tempo abbandonato quel percorso che nell’undicennio 1974\1985 ci aveva visto impegnati nella formazione delle educatrici dei nidi e delle scuole per l’infanzia della provincia di Reggio Emilia.
Era accaduto tutto all’improvviso, su indicazione della Regione Emilia e Romagna che, con la stessa adialetticità con la quale nel ’74, aveva individuato negli psicologi dell’età evolutiva operanti nel ‘pubblico’ coloro che dovevano seguire la formazione delle educatrici dei nidi, allo stesso modo nel 1985 statuì che anche nei piccoli comuni fossero istituite delle ‘direzioni didattiche’ che da allora in poi guidassero i nidi e le scuole per l’infanzia comunali.
Si trattava ovviamente di una scelta doverosa, che però si dispiegò su di un piano di sostanziale discontinuità con l’esperienza precedente. Per cui mancò in quel momento una riflessione sui risultati e sui significati di quell’esperienza, che pure si era dispiegata per oltre un decennio e che aveva lasciato tracce in tutta la provincia reggiana. Era alla mancata riflessione su questa nostra primitiva esperienza che con la pubblicazione de “Il bambino che è in noi” cercavamo di rimediare.
Nel frattempo molte cose sono cambiate, alcune delle quali hanno inciso profondamente sull’identità dei tre soggetti presenti nei nidi:
– Innanzitutto il passaggio da una immagine del bambino come ‘vortice istintuale’ (Mannoni) da domare e da ‘socializzare’, che era ancora prevalente nella società in cui operavamo, a quella odierna basata sulla visione del bambino come un soggetto pieno di ogni qualità, da scoprire e da valorizzare (Pietropolli Charmet).
– In secondo luogo la profonda trasformazione del welfare che, migrando verso il privato ed essendo in ogni caso gestito con logiche privatistiche, va sedimentando in tutti coloro che vi lavorano, e quindi anche nelle educatrici della fascia prescolare, una nuova visione di sé ormai mille miglia lontana da quella del missionariato sociale di una volta. – Infine il sempre più accentuato passaggio dalla famiglia etica a quella affettiva, come dice sempre Pietropolli Charmet, va ridefinendo radicalmente le immagini della genitorialità.
E sicuramente questi profondi cambiamenti oggi modificherebbero la tessitura dei discorsi che educatrici e genitori potrebbero fare in quelle camere degli specchi che furono una parte importante dei nostri lavori di gruppo. Ma questo a nostro avviso non sminuisce affatto la loro valenza sul piano formativo. Anzi, in un’epoca in cui sia le une e gli altri sono ridotte a forza di lavoro fungibile e precaria, riflettere sulle proprie comuni propensioni a farsi carico dell’educazione dei bambini può costituire l’innesco di un percorso di crescita psicologica.
Un’ultima nota sulle modalità di lavoro di ‘allora’: 25 anni fa nei nidi, nelle scuole dell’infanzia e in ogni altro comparto del welfare di allora, il lavoro era scandito in base ad un modello organizzativo basato sull’equipe (sul “collettivo”), vista come un luogo fisico e mentale in cui tutti avevano diritto di parola. Avevamo definito questo modello come ‘parzialmente orizzontale’ (Angelini, Bertani, 2009, p.269 e seg.) poiché, nonostante tutti avessero diritto di parola rompendo in questo modo con i modelli di tipo gerarchico, il peso delle decisioni finali era sempre lasciato a chi – spesso a turno – dirigeva il gruppo.
In concreto nel nostro caso ci eravamo dotati, a fianco dei vari collettivi dei singoli nidi, di un coordinamento zonale e di uno provinciale, ai quali oltre agli psicologi partecipava una coordinatrice per ogni nido. Erano questi i luoghi in cui si discuteva: – su quali progetti formativi e quali ricerche fare; – a quali tecnici esterni rivolgersi; e, quasi dappertutto, come affrontare i principali nodi legati alla programmazione pedagogica.
Ripensando oggi a quel modello ci viene da dire che è su questi aspetti, apparentemente secondari, del lavoro che i processi di privatizzazione e di precarizzazione del welfare hanno inciso più profondamente e subdolamente in quest’ultimo trentennio.
Il testo, articolato sempre in quattro sezioni, è rimasto praticamente lo stesso, con due eccezioni:
– la sostituzione, proprio con “Funzioni materne e funzioni paterne a casa e al nido”, del lungo e ormai obsoleto articolo intitolato “Il rapporto italiano – dialetto a Correggio” (al quale però è possibile giungere attraverso una facile ricerca in rete);
– l’aggiunta della relazione “Il rapporto adulto-bambino da un punto di vista psicoanalitico” con la quale avevamo iniziato un lavoro formativo poi andato avanti per un biennio nei nidi presenti nel territorio dell’allora USL di Guastalla.
Reggio Emilia, 8.5.21
L.A e D. B.
———————————–
2. Recensione del 1995
di Adriana Grotta,
apparsa su “Psicoterapia e scienze umane”, N.1 del 1997, pp. 137 \ 139
Leonardo Angelini, Deliana Bertani, Il bambino che è in noi. Percorsi di ricerca al nido e nella scuola per l’infanzia in provincia di Reggio Emilia. Milano: Unicopli, 1995, pp. 246, Lit. 25.000.
Un libro per conoscere più da vicino il modello emiliano di scuola materna e nido. Uscito nel 1995, contiene scritti diversi sul percorso di riflessione che ha accompagnato e indotto i cambiamenti delle strutture scolastiche pet la prima infanzia nella provincia di Reggio Emilia dalla metà degli anni ’70. I due autori, psicologi e psicoterapeuti della Azienda Usl di questa città, hanno coordinato una serie di ricerche sul campo, nate dall’esigenza di migliorare il servizio educativo, che hanno consentito di approdare a nuovi modelli organizzativi, ma anche di avviare una riflessione di ampia portata con l’obiettivo di favorire una diversa cultura della prima infanzia. La formazione psicoanalitica ha permesso loto di cogliere il desiderio di cambiamento degli operatori, anche quando questo era espresso in modo confuso e contraddittorio, di trasformarlo in motivazione e di articolarlo in obiettivi. Il processo è stato sostenuto dai gruppi di discussione e di verifica, nei quali i conduttori hanno accuratamente evitato di assumere il ruolo dell’esperto che tutto conosce, per promuovere l’iniziativa e la responsabilità dei singoli membri. Gli autori stessi hanno compiuto un percorso conoscitivo, cercando modelli diversi che meglio rispondessero alle esigenze che emergevano strada facendo. A partire da un approccio socio-antropologico, mai abbandonato del tutto per l’esigenza di comprendere l’individuo nella sua storicità, sono passati al cognitivismo, all’etologia umana e all’approccio psicoanalitico definito «punto provvisorio di arrivo» (p. 2). Nel processo circolare e creativo, che ha caratterizzato e reso fertile questa esperienza, le esigenze concrete hanno prodotto delle ipotesi, che sono state verificate direttamente sul campo e poi controllate, oppure sono state il punto di partenza per ricerche strutturate, che hanno portato spesso alla necessità di interrogarsi sui modelli e di integrarli con altri; questi a loro volta, hanno prodotto e favorito nuove conoscenze e fatto affiorare nuove esigenze. Anche se solo raramente «sono state fatte con il rigore che si richiede a livello accademico» (p. 9), le ricerche hanno costituito uno strumento importante, che ha permesso di coagulare e impiegare per obiettivi «visibili» tante risorse umane e professionali che spesso vengono disperse, con la conseguenza di creare scontento e disaffezione negli operatori della scuola. Si è creato un organismo, il Coordinamento, che continua ad avere «la funzione di fare da cerniera fra formazione e programmazione» (p. 9), mantenendo vivo il rapporto fra prassi e teoria.
L’aspetto che personalmente ho molto apprezzato, è lo sviluppo di un atteggiamento nuovo verso i genitori, che sempre più assumono agli occhi di operatori e tecnici il ruolo di partner nell’esperienza educativa, e gradualmente perdono quello di antagonisti. I due capitoli «Gruppi di educatrici centrati sul rapporto con i genitori» (1984) e «Gruppi di genitori centrati sul rapporto coi figli» (1989), mostrano come si è arrivati a comprendere l’importanza di una collaborazione «reale» con la famiglia, che non significa più solo informare i genitori sul progetto educativo, ma inserirveli a pieno titolo. Questo nasce dalla consapevolezza, emersa sempre più chiaramente, che soprattutto nei nidi, ma anche nella scuola materna, i momenti «di routine» che banno a che fare con l’accudimento del bambino non sono secondari rispetto a quelli delle «attività» con una valenza più specificamente educativa. La rivalutazione della routine, con un’attenzione crescente ai momenti del pasto e alla interazione individuale adulto-bambino, ha reso evidente la necessità di confrontare gli stili relazionali degli educatori con i bambini, di questi con i loro genitori e, infine, degli educatori con i genitori. Gli strumenti sono l’osservazione psicoanalitica, che implica l’autosservazione, e il gruppo di discussione. Viene quindi criticato un «mito» degli anni ’70, quello della socializzazione come valore «in sé», che ha avuto spesso una funzione difensiva verso una relazione più profonda con il bambino piccolo il quale, come disse Anna Freud in un’occasione, è «vera dinamite». Spiegano bene gli autori quali siano i rischi per l’adulto di una relazione con il bambino che non sia direttiva o manipolatoria: per comprenderne i bisogni, è necessario fare i conti con le proprie parti infantili, cosa difficile e spesso dolorosa.
Più volte, leggendo questo libro, ho ripensato alla mia esperienza di osservazione alla Nursery School del Centro Anna Freud di Londra. I bambini, circa dodici, sono seguiti da due insegnanti in quattro piccoli locali, più un ampio giardino, che costituiscono il basement di una casa vittoriana a tre piani. Annessa, c’è una piccola cucina con la cuoca. Mi piaceva pensare a questa scuola, che accoglieva bambini dai due anni ai quattro anni e mezzo, come ad una «casa di transizione», dove le attività più strutturate venivano proposte ai bambini in modo flessibile e a piccoli gruppi, e dove moltissimo tempo veniva dedicato al gioco, «apparentemente» libero. I bambini si occupavano di piccoli animali e a turno collaboravano alla preparazione del pasto. Il capitolo del libro dedicato alle modificazioni dell’organizzazione del pasto, mi ha ricordato che, in un anno di osservazione, non ho mai visto un solo momento di disagio nei bambini: l’assunzione del cibo, in una clima sereno e «familiare», non veniva usata come terreno per le battaglie con l’adulto, tanto frequenti nei refettori di antica data.
Chiaramente è diversa la situazione di una piccola comunità come quella di Londra, dalle affollate sezioni dei nostri asili, ma è significativo che, grazie all’osservazione e alla riflessione, si sia arrivati a realizzare certi cambiamenti fondamentali anche nelle strutture più grandi. Si spera che molte delle conquiste ottenute in questi anni siano ormai definitivamente acquisite, e che i tagli alla spesa, imposti dai bilanci sempre più magri dei comuni e della sanità, non interrompano il processo che può garantire il consolidamento e ulteriori sviluppi delle esperienze educative per la prima infanzia. Nuove problematiche, i molti figli unici e l’inserimento dei bambini extracomunitari, impongono nuovi spazi di riflessione.
Per quanto riguarda il libro, vorrei fare un solo appunto. Dispiace, che a fronte di un impegno davvero ampio e di risultati così lusinghieri, non corrisponda una cura altrettanto grande nella stesura dei testi. I capitoli sono molto differenti nei contenuti e nel linguaggio perché destinati a un pubblico diverso, e sarebbe stata utile una revisione per renderli più omogenei, ed evitare al lettore continui salti. O forse sarebbe stato sufficiente scegliere un altro criterio di suddivisione dei capitoli e legarli con delle brevi prefazioni. Questo sforzo avrebbe meglio valorizzato lo stimolante materiale proposto.
Adriana Grotta
0 commenti